I GUERRIERI ITALIANI DELL’EBOLA: LE STORIE DEGLI EROI CHE COMBATTONO IN PRIMA LINEA NELL’AFRICA OCCIDENTALE
SONO 66 GLI ITALIANI IMPEGNATI COME MEDICI E INFERMIERI NELLA BATTAGLIA CONTRO IL VIRUS
Per il Time sono le persone dell’anno. E definirli eroi sembra poco.
Eppure gli “Ebola fighters” — medici, infermieri, cooperanti che lottano in Africa occidentale, contro il virus— non accettano nessuna etichetta.
Vogliono solo un morto in meno dentro un bilancio terribile, arrivato ieri a 6.856 vittime. L’area più critica è la Sierra Leone, ma l’attenzione resta alta anche in Guinea, Liberia e Mali. Lì, su un fronte infido e invisibile, lavorano anche tanti italiani. Oggi sono 66. Alcuni hanno visto e vissuto la tragedia dall’inizio. Altri vanno e vengono, tra l’Africa e l’Italia, per dare il proprio contributo.
Ecco alcune delle loro storie.
Elena Giovanella, 42 anni
Anestesista, da 10 anni lavora in prima linea. Oggi è impegnata nei sobborghi di Freetown Sierra Leone, per Emergency
“Vedo giovani sani e forti consumarsi davanti a me”
Un male peggiore della guerra e delle ferite. Un virus che si può arginare, ma che troppo spesso non lascia speranze. “Vedi giovani che erano sani e forti e letteralmente ti si consumano davanti. Vorresti fare tante cose, ma spesso non puoi fare quasi nulla”.
C’è tutto questo nella tragedia di ebola ed è anche questo che spinge Elena Giovanella, anestesista, 42 anni, a stare in prima linea. Lì, dove più serve.
«In trincea», come dice lei, nel nuovo ospedale gestito da Emergency a Goderich: nei sobborghi di Freetown, Sierra Leone.
“Lavoravo a Torino — racconta — ma da una decina d’anni ho scelto di portare le mie competenze dove possono fare la differenza. Sono stata in situazioni di guerra in Sudan, Cambogia, Afghanistan. Niente però è come ebola: la mia missione più difficile. Lo è perchè affrontiamo pazienti critici e che peggiorano rapidamente. Per le barriere tra medico e malati. Perchè servirebbero più medici, ma tanti ospedali non li lasciano partire”.
Dover evitare ogni contatto è difficile anche sul piano emotivo. Vedere un collega che s’ammala, e torna d’urgenza in Italia, quasi insopportabile: “È un amico, uno dei medici più preparati e intelligenti che conosca, stava molto attento a tutti i protocolli di sicurezza. Il nostro lavoro qui è difficile, ma è un’eccellenza italiana. Ora tutti ci devono dare una mano
Chiara Burzio, 33 anni
Ex infermiera del reparto di rianimazione all’ospedale di Chieri (To). È in Africa con Medici senza frontiere.
“A ogni mio infermiere è mancato un parente”
«Ho lavorato per due mesi, anche 14-16 ore al giorno». Chiara Burzio, a soli 33 anni, è stata la capo-infermiera del più grande centro per curare l’Ebola in Liberia.
«Avevo la responsabilità di 120 pazienti ma non mi sono mai sentita un’eroina». Gli eroi, per Chiara, sono gli operatori sanitari locali.
«Ce ne sono 120 nel nostro ospedale e tutti hanno un parente, un amico, un conoscente morto per il virus. Ecco, loro dovrebbero essere i personaggi da copertina, non noi», spiega. Del resto, per lei, l’emergenza è diventata normalità da quando, tre anni e mezzo fa, ha deciso di far parte dell’organizzazione Medici senza frontiere.
Da allora è stata nelle zone più “calde” del pianeta: dal Pakistan al Sud Sudan, passando per la guerra civile siriana. «Sono scelte impegnative — confessa — e non sempre i miei famigliari sono contenti ma sanno che non ormai possono più fermarmi».
Roberto Scaini, 41 anni
Medico di base nel Riminese, da quattro anni lavora con l’organizzazione Medici senza frontiere.
“Non ignoriamoli. Mia figlia ha 11 anni ma ripartirò lo stesso”
«Passerò il Natale con mia figlia e poi ripartirò, questa volta per la Sierra Leone». Per Roberto Scaini è una scelta di coscienza.
«Sì, lasciare a casa una bimba di 11 anni può sembrare egoista..». Sospira, poi riprende convinto: «Ho già deciso: torno». In Africa occidentale c’è già stato due volte, entrambe in Liberia. «Sembrava di stare nel Medioevo, nel bel mezzo di un’epidemia incurabile». A Monrovia, nella capitale, ha lavorato come responsabile medico di un centro di isolamento. «Da metà agosto la situazione è cambiata, ma non direi migliorata».
Il rischio, per lui, è che il virus sia presto scordato in Europa. «Sarebbe una catastrofe nella catastrofe».
Clara Frasson, 55 anni
Esperta di sanità pubblica. Coordina il progetto di Cuamm Medici con l’Africa in Sierra Leone
“Sono otto mesi che cerco di isolare il male nei villaggi”
Esserci fin da marzo, fin dal primo caso, per un progetto contro la mortalità materna. E poi trovarsi nell’emergenza, e provare a frenare ebola.
«Ma il lavoro si vede. Qui a Pujehun non abbiamo nuovi casi da circa venti giorni», dice Clara Frasson, padovana, coordinatrice del progetto di Cuamm Medici con l’Africa in Sierra Leone.
«Questo, nel sud del Paese, era uno dei distretti più colpiti. Abbiamo aperto il primo centro d’isolamento, tracciato ogni singolo contagio, messo in quarantena interi villaggi con polizia ed esercito. Non è facile, io sono tornata in Italia ad agosto, per 12 giorni. Ma la vita del cooperante è così: piangi quando parti e piangi quando torni».
Luca Rolla, 42 anni
Infermiere, dal 2011 gestisce un ospedale pediatrico. Coordina l’intero gruppo di Emergency in Sierra Leone
“Curiamo i bambini in un Paese dove è vietato abbracciarsi”
«Quella foto oggi sarebbe impossibile». Luca Rolla è in Sierra Leone dal 2011.
Gestiva un ospedale chirurgico pediatrico e poteva anche concedersi uno scatto con i suoi piccoli pazienti. Non più, per colpa di Ebola.
«Ogni contatto è vietato — spiega — e gli abbracci mancano a tutti». A giugno, davanti al rischio contagio, il personale sanitario governativo ha svestito i camici. Sono rimaste solo le organizzazioni non governative.
«Il nostro, a Goderich, è l’unico ospedale con sale operatorie aperte. Oggi Freetown è il luogo più colpito e le procedure di sicurezza sono cruciali. Ma il virus ha ucciso famiglie e creato nuovi orfani: a noi sta il compito di continuare a operare e a curare».
Renata Gili, 28 anni
Medica specializzando è partita con l’associazione torinese Rainbow for Africa per la Sierra Leone
“Una paralisi totale: manca l’assistenza perfino per i parti”
Combattere Ebola e, prima, la paura del virus. È la missione di Renata Gili, 28 anni, partita a novembre da Torino. Destinazione Sierra Leone.
«Ci sono stata dieci giorni, ma ripartirò dopo Natale». Con il dottor Paolo Narcisi, presidente di Rainbow for Africa, ha formato il personale locale e portato materiale medico.
«Il problema — racconta — è che molti ospedali restano chiusi per la paura del contagio». Si muore di malattie che, prima dell’epidemia, venivano curate senza grossi problemi, come la tbc e la malaria. «Manca l’assistenza al parto», denuncia Renata.
Che spiega: «A Makeni si facevano fino a 30 cesarei al mese: che fine avranno fatto quelle madri e quei bambini?».
Maria Cristina Manca, 56 anni
Antropologa di Medici senza frontiere ,vive a Firenze
Per dare il suo contributo alla lotta a Ebola è stata in Guinea due volte.
«Certo che torno, con tutti i rischi e tutte le paure». Il suo lavoro è diverso da quello di medici e infermieri ma altrettanto utile. «Bisogna fare sensibilizzazione attiva. È stata dura all’inizio convincere le persone che erano malate. E che Ebola fosse una malattia».
E così Maria si è inventata di coinvolgere un cantante locale, Flingo. Ne è venuta fuori una canzone rap, rivolta soprattutto ai più giovani, ma non solo. Un modo in più per combattere la paura del virus.
Davide Lessi e Stefano Rizzato
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