IL CASO ALDOVRANDI, DAL PESTAGGIO DEGLI AGENTI ALLA SENTENZA
ERA IL 25 SETTEMBRE 2005 QUANDO QUATTRO POLIZIOTTI LASCIARONO A TERRA SENZA VITA IL RAGAZZO DICIOTTENNE DOPO AVERLO MASSACRATO DI BOTTE
È quasi mattina — quella del 25 settembre 2005 — quando l’ambulanza del pronto soccorso arriva al parco pubblico di Ferrara.
La scena che si para davanti agli occhi del personale del 118 è impressionante: riverso a terra, privo di sensi, c’è un giovane, mani ammanettate dietro la schiena, lesioni ed echimosi ovunque.
Inutile il tentativo di rianimazione, i soccorritori non possono fare altro che dichiarare la morte per arresto cardio-respiratorio e trauma cranico-facciale.
È solo l’inizio di quello che diventerà il “caso Aldrovandi”: il corpo è di Federico, studente di 18 anni, che la sera precedente aveva deciso di tornare a casa a piedi dopo aver trascorso la serata in un locale di Bologna.
Anni di indagini per ricostruire quella notte in cui incontrò i poliziotti della pattuglia “Alpha 4”, che lo lasciarono senza vita al termine di un violento scontro fisico.
Lo scorso settembre, la Cassazione li ha condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi di reclusione, oggi il Tribunale di sorveglianza ha confermato il carcere per Paolo Forlani, Monica Segatto e Luca Pollastri.
Il quarto, Enzo Pontani, sarà giudicato a fine febbraio. Sono stati ritenuti responsabili di aver ucciso il ragazzo a botte, calci e manganellate e di aver cercato di depistare le ricerche nelle ore successive.
UNA SENTENZA “STORICA”
Una sentenza “storica”, ha esultato l’avvocato della famiglia Aldrovandi, Fabio Anselmo, che ha travolto un «tabù» e cioè «la possibilità di censurare e sanzionare un intervento di polizia violento e al di fuori del diritto».
Ad avviso dei supremi giudici, era infatti da «escludere — come invece sostenevano i legali degli agenti – che la morte del ragazzo sia dovuta alla sindrome da “delirio eccitato” o alla assunzione di sostanze stupefacenti», in quanto, come accertato dalla perizia del massimo esperto di morti improvvise, il professor Di Thiene, l’esito letale era dovuto alla «pressione» esercitata dai poliziotti.
La violenza usata «aveva fatto sì che il cuore venisse schiacciato», determinando «infiltrazione emorragica e la cessazione della conduzione dello stimolo elettrico dagli atri ai ventricoli». Inoltre, «lo stato ipossico in cui versava il giovane — si legge nella sentenza della Cassazione – era comunque riferibile alla condotta realizzata dagli agenti, i quali avevano tenuto schiacciato il corpo del ragazzo contro il terreno, con manovre idonee ad innescare una asfissia posizionale».
LA RICOSTRUZIONE DELLA NOTTATA
Per la Suprema Corte, «lo stato di agitazione in cui versava il ragazzo», che faceva confusione per strada, da solo, in viaVelodromo, «avrebbe imposto un intervento di tipo dialogico e contenitivo».
Invece i poliziotti «sferrarono numerosi colpi contro Aldrovandi, non curanti delle sue invocazioni di aiuto» e la «serie di colpi proseguì anche quando il ragazzo era stato fisicamente sopraffatto e quindi reso certamente inoffensivo».
«Segatto lo colpiva alle gambe con il manganello, Pontani e Forlani lo tenevano schiacciato a terra, mentre Pollastri lo continuava a percuotere», ha ricordato la Cassazione sottolineando che gli agenti «posero in essere una violenta azione repressiva nei confronti di un ragazzo che si trovava da solo, in stato di visibile alterazione psicofisica».
E sono andati ben oltre l’impiego lecito dei «mezzi di coazione fisica consentiti dall’ordinamento per vincere una resistenza all’Autorità ».
I quattro hanno tenuto «condotte specificamente incaute e drammaticamente lesive» e la «consapevolezza di agire in cooperazione imponeva a ciascuno di interrogarsi sull’azione dei colleghi, se del caso agendo per regolarla, moderandola».
Invece la «reciproca vigilanza è mancata», il pestaggio è continuato «senza dissenso da parte di alcuno, sino all’arrivo dei Carabinieri e del personale di soccorso». Pessimo, poi, il «comportamento processuale» degli imputati che hanno «anche omesso di fornire un contributo di verità al processo da reputarsi doveroso per due pubblici ufficiali».
(da “La Stampa”)
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