IL COSTITUZIONALISTA AINIS, ARTICOLO 68, BASTA QUELLO: “LE SENTENZE DEFINITIVE SI APPLICANO SENZA BISOGNO DI AUTORIZZAZIONE DELLE CAMERE”
“LO DICE LA COSTITUZIONE, PER QUESTO LE CHIACCHIERE STANNO A ZERO… A BERLUSCONI RESTANO SOLO LA GRAZIA O L’AMNISTIA”
E’ inutile girarci attorno: la sopravvivenza del governo Letta dipende dalla ‘agibilità politica’ di Silvio Berlusconi.
Dipende, in breve, dalla cassazione della sentenza della Cassazione che lo ha trasformato in un avanzo di galera.
Questione giuridica, ancor prima che politica.
Si può fare? Chi può farlo? E come?
All’indomani del verdetto, dal fortino Pdl s’è levato un grido: riforma della giustizia, subito! Parole vaghe, che oltretutto ci risuonano nei timpani da vent’anni almeno.
Anche la corsa a firmare i referendum radicali non può aiutare la corsa contro il tempo giudiziario dell’imputato-condannato Berlusconi.
Non è separando le carriere tra giudici e pm, nè ottenendo una legge sulla responsabilità civile dei magistrati, che lui otterrà un salvacondotto.
Potrà forse consumare una vendetta, ma gli resterà comunque una corona di spine sulla testa. E le spine aprono una doppia ferita: sulla sua libertà personale, però anche sulla sua libertà politica.
Quest’ultima è un effetto dell’interdizione ai pubblici uffici, nonchè della legge Severino: decadenza immediata da parlamentare, incandidabilità per i sei anni successivi.
Poi, certo, la decadenza deve pur sempre pronunziarla il Parlamento, a norma dell’articolo 66 della Costituzione.
E infatti già s’esercita l’esercito degli azzeccagarbugli, negando gli effetti retroattivi della legge. Balle giuridiche, ma altresì politiche: nè il Pd nè 5Stelle potranno mai avallarle, perderebbero la metà dei propri voti.
E rimarrebbe in ogni caso un’impossibilità fisica, piuttosto che giuridica: come può svolgere attività parlamentare un signore agli arresti domiciliari?
In realtà la lotteria di Berlusconi si gioca su un terno costituzionale: 68, 79 e 87.
Il primo articolo dichiara che le sentenze definitive di condanna s’applicano senza autorizzazione delle Camere.
Non era così in origine, ma nel 1993 – durante Tangentopoli – l’art. 68 fu riscritto, e i parlamentari persero la protezione che i costituenti gli avevano accordato.
A Berlusconi il vecchio testo avrebbe fatto comodo, ma ormai è tardi, e comunque la riforma della riforma sarebbe un’avventura.
Tuttavia è una speranza disperata anche l’articolo 79, ovvero l’amnistia.
Perchè nel 1992 pure questa norma venne emendata in senso restrittivo: adesso serve una maggioranza dei due terzi in Parlamento, quando quella assoluta basta per cambiare la Costituzione stessa.
All’illustre condannato rimane perciò un unico baluardo: art. 87, la grazia.
Ecco perchè il capo dello Stato vi si è soffermato a lungo, nella sua nota del 13 agosto. Trattandosi di decisione presidenziale, toglierebbe il Pd dall’imbarazzo, gli permetterebbe di lavarsene le mani.
Al vantaggio politico s’accompagna tuttavia un handicap giuridico: la sentenza costituzionale n. 200 del 2006.
Che ha riconosciuto la competenza solitaria del presidente, ma ne ha pure vincolato l’uso: la grazia è ammessa unicamente per «eccezionali esigenze di carattere umanitario».
A occhio e croce, non parrebbe il caso di Silvio Berlusconi.
Ma sta di fatto che Napolitano ha concluso il suo primo settennato graziando Joseph Romano, l’agente Cia che rapì Abu Omar.
Una decisione motivata non da ragioni umanitarie bensì dalla ragion politica, come attesta lo stesso comunicato che il Quirinale diramò nell’occasione. Politica internazionale, per essere precisi. Significa che Napolitano potrebbe fare il bis con Berlusconi? Che in nome della stabilità politica potrebbe chiudere gli occhi sulla legalità ?
C’è però, in astratto, un’altra soluzione, almeno formalmente in sintonia con la sentenza costituzionale n. 200.
La soluzione Sallusti, cui Napolitano (dicembre 2012) commutò la pena detentiva in pena pecuniaria.
Dice l’art. 87 della Costituzione: il presidente della Repubblica «può concedere grazia e commutare le pene». Se le due attribuzioni sono separate, la sentenza n. 200 s’applica alla grazia, ma non alla commutazione delle pene.
Una questione di forma, di congiuntivi, di parole.
Ma è su questo crinale tra sostanza e forma, tra le cose e le parole, che si gioca il destino della legislatura.
Michele Ainis
(da “L’Espresso”)
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