IL FEUDALESIMO AL SUD E’ PIU’ VIVO CHE MAI
FAMILISMO, CLIENTELE E IMPUNITA’: LE CLASSI DIRIGENTI MERIDIONALI FINSCO SEMPRE PER ESSERE COOPTATE
Maledetto feudalesimo! Sembrava finito da secoli, eppure è ancora in mezzo a noi,
totalmente a suo agio nelle vicende politiche meridionali, nelle sedi dei partiti e nei palazzi delle istituzioni.
Giambattista Vico ci aveva ammonito: la storia è circolare, non lineare, un’epoca data per conclusa torna se le condizioni si ripresentano. Anche Norbert Elias ce lo aveva spiegato nel suo straordinario saggio Potere e civiltà: nessun periodo storico finisce mai completamente, ma una parte di esso si “incapsula” nel nuovo e lo accompagna per tutto il tempo necessario a che sistemi diversi di vita e di produzione si affermino definitivamente. Quando ciò non avviene, i vecchi comportamenti si confondono con i nuovi e non permettono che il passato passi davvero. Insomma, possono tranquillamente convivere con la modernità atteggiamenti arcaici di tipo feudale. La clientela ne è una espressione, il familismo ne è un’altra, l’impunità un’altra ancora. La clientela non è altro che una forma più raffinata di servitù consapevole; il familismo non è che una trasformazione del diritto divino a ereditare il potere dei padri; l’impunità non è che l’aggiornamento dell’immunità garantita nonostante ogni abuso di potere, ogni aggiramento di legge. C’è una differenza, certo: quello che si concede oggi ai clienti non è di proprietà del feudatario ma sono posti e risorse pubbliche; quello che si trasferisce ai figli non è solo il proprio patrimonio ma il potere derivato dalle funzioni pubbliche; l’impunità non si ottiene perché i magistrati sono pagati con le risorse del feudatario (come avveniva un tempo) ma grazie al fatto che li si coinvolge, con varie modalità, nel proprio sistema di potere.La sorprendente vitalità del feudalesimo la si è vista all’opera, in questi giorni, nel campo largo del centrosinistra, così largo da legittimare – come se niente fosse – comportamenti che sembrano appartenere ad altre epoche storiche. Tra la Dc clientelare e familistica di ieri e il Pd di oggi non c’è quasi interruzione. I Gava e i De Luca, a loro volta, sono in continuità con i baroni che Ferrante d’Aragona cercava di sottomettere e che invece si comportavano come sovrani assoluti nei loro feudi. Cambiano le forme ma non la sostanza, cambiano le epoche non l’abuso e la tracotanza.
Perché mai, nella sinistra italiana, coloro che si presentano come rinnovatori alla fine abbandonano i meridionali che vogliono combattere contro le degenerazioni della politica? Perché da secoli si ripete questo eterno ritorno del feudalesimo e non si riesce a estirparlo? E come mai spesso sono i “progressisti” del
Centro-Nord che prima annunciano la lotta ai feudatari e poi si mettono d’accordo con essi?
Il Sud ha sempre rappresentato un terzo della popolazione italiana e un terzo della base elettorale. Avere alleate le sue classi dirigenti e le sue classi proprietarie è stato fondamentale per ogni regime politico, per ogni governo, per ogni capo di partito. Eppure, al tempo stesso, si è continuato a indicare il Sud come la “cloaca” della nazione, la suppurazione di una ferita permanente di uno Stato altrimenti sano. È stato necessario, allora, per superare questa contraddizione (allearsi con coloro che erano causa dei mali che si denunciavano) inventarsi un carattere immodificabile della popolazione, una tara insita nel carattere dei meridionali. Che grande comodità dire che i meridionali sono immodificabili nella loro indole e al tempo stesso salvare le responsabilità della classe dirigente con cui ci si allea! È questa una delle costanti del rapporto del Centro-Nord con il Sud: l’antropologia si sostituisce al giudizio politico. Non c’è ipocrisia più insopportabile di chi si allea con i peggiori ritenendosi migliore.
Faccio qualche esempio. Quando arrivano gli inviati di Cavour a Napoli nel 1860, essi descrivono i napoletani e le altre popolazioni meridionali con accenti mai riscontrati nel passato. Luigi Carlo Farini scrive: “Che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di lavoro. Che barbarie! Altro che Italia. Questa è Affrica:
i beduini a confronto di questi caffoni, sono fior di virtù civiche”. E in un’altra lettera si spinge più avanti: “Se tu conoscessi l’indole di questa gente, capiresti quante difficoltà si incontri ad espedire la più ordinaria e comunale pratica… È spaventoso lo stato di questo disgraziato paese. Che Italia, che libertà. Ozio e maccheroni”. E così l’indole dei meridionali entrò prepotentemente sulla scena politica della nuova Italia, mentre tutti coloro che pure erano responsabili del livello economico e civile di quelle popolazioni divennero la base di sostegno dei cavouriani e poi della destra storica al governo nei primi 15 anni della nazione.
Nel 1876 al governo arrivò la sinistra guidata dal lombardo Agostino Depretis. In un discorso a Stradella, in risposta a coloro che criticavano gli accordi stipulati con la destra, Depretis così si giustificava: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”. Fu così che la parola “trasformismo” divenne la caratteristica di un’epoca politica che non è mai finita. Nella sinistra entrarono tutti quelli che prima avevano appoggiato la destra. Si può tranquillamente dire che Depretis andò al potere grazie soprattutto al voto siciliano e meridionale. In Sicilia, nelle elezioni successive, vinse in quasi tutti i collegi anche con l’appoggio della mafia.
Nel 1876 due giovani toscani, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, si recarono in Sicilia per un’inchiesta. Ne venne fuori uno dei testi più spietati sulle classi dirigenti isolane. Sonnino poi intraprese una straordinaria carriera che lo portò a ruoli importanti nel governo in alleanza con quegli stessi latifondisti che aveva indicato tra i principali responsabili delle mafie feudali.
L’egemonia del capitalismo centro-settentrionale e la tenuta politica dell’Italia dell’epoca si basò, dunque, sul fatto che esso chiese al latifondismo meridionale, come contropartita per la sua difesa, di mandare puntualmente in Parlamento dei deputati stabilmente filogovernativi, i cosiddetti “ascari”, senza minimamente preoccuparsi delle modalità di quel consenso. Nel Secondo dopoguerra è stata la Dc a non avere scrupoli nell’usare qualsiasi sostegno, compreso quello mafioso, e non solo in Sicilia. Andreotti ne è stato solo l’interprete più spregiudicato.
I dirigenti della sinistra, invece, essendo più raffinati, hanno avuto bisogno di un’altra giustificazione, per far digerire la loro alleanza con il peggiore Sud: il consenso. “Prendono voti, vuol dire che il popolo li segue. Bando, dunque, agli scrupoli morali!”. Si ammira, nei feudatari meridionali, l’ardire sulfureo, l’esagerazione, il sopruso, il dominio sulle masse, scambiando tutto ciò per un vitalismo progressista. E ci si lascia offendere da essi senza replicare, suggestionati dalla “spiritosa immoralità” di
cui parlava Costantino Nigra.
Insomma, il feudalesimo nel Sud continua a produrre rappresentanti funzionali al sistema di potere italiano, a destra e a sinistra. Anche i progressisti non hanno saputo sottrarsi a questa maledizione. Dimenticando che esistono tanti meridionali che non accetteranno mai di considerare i familisti e i clientelari come dei bravi amministratori.
(da ilfattoquotidiano.it)
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