IL GIORNALISTA LICENZIATO SU ORDINE DEL BOSS DELLA CAMORRA: “CI STA ROMPENDO IL CAZZO, DEVI CACCIARLO”
IL “FASCISTA DI SINISTRA” ENZO PALMESANO AVEVA DENUNCIATO GLI INTERESSI DEI LUBRANO SUL “CORRIERE DI CASERTA”… UNA SENTENZA HA DIMOSTRATO COME I CLAN CONDIZIONANO I GIORNALI
Accade che un giornale locale licenzi un giornalista su ordine di un boss.
Accade poi che una sentenza arrivi a confermare l’inchiesta su giornalismo e camorra. Ma com’è possibile che la storia finora sia rimasta nell’ombra?
La vicenda che sto per raccontare parte da un’inchiesta della Dda di Napoli, l’Operazione Caleno portata avanti da Giovanni Conzo ed Eliana Esposito, e da una sentenza le cui motivazioni sono state depositate a febbraio dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere: e dimostra per la prima volta come le organizzazioni criminali gestiscano le redazioni in alcuni quotidiani locali.
Un giornalista che racconta lo strapotere dei clan, un boss che pretende e ottiene il licenziamento del giornalista scomodo, un quotidiano che si piega al boss.
Il giornalista si chiama Enzo Palmesano, il boss è Vincenzo Lubrano, la testata è il Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta) che, insieme a Cronache di Napoli, è un quotidiano dalla storia controversa.
Entrambi appartengono al gruppo Libra il cui editore, Maurizio Clemente, è stato condannato per estorsione a mezzo stampa: utilizzava le testate per scopi intimidatori, cioè «o paghi o scrivo contro di te».
Cronache di Napoli e Corriere di Caserta sono poi diventati famosi – loro malgrado – per aver infangato la memoria di Don Peppe Diana.
Tutti ricordano il titolo del Corriere di Caserta: “Don Peppe Diana era un camorrista”. Negli anni, questi due quotidiani hanno pubblicato messaggi dei clan.
Quando venne sequestrato il piccolo Tommaso Onofri, Cronache di Napoli titolò: “Tommaso, il dolore dei boss”.
I boss volevano mandare ai sequestratori il messaggio: «Provate a toccarlo e in carcere passerete l’inferno ».
Quando il corpo di Tommaso fu rinvenuto, il titolo sempre di Cronache di Napoli fu: “Tommaso è morto: l’ira dei padrini”.
Sono titoli dietro ai quali c’è una strategia assai fina: influenzare l’opinione locale per arrivare a determinare la narrazione nazionale.
Quando qui arriva un giornalista da fuori fa domande, raccoglie opinioni: e queste spesso sono determinate proprio dalla stampa locale.
È così che questi piccoli giornali riescono poi a far passare messaggi che indirizzano l’interpretazione dei fatti. Ed è in questo contesto che ha provato a fare informazione Enzo Palmesano – lui stesso personaggio non ordinario, autodefinitosi “fascista di sinistra” negli anni più duri della guerra di camorra, militante Msi poi promotore al congresso di Fiuggi dell’emendamento con cui An prendeva le distanze dall’antisemitismo.
Cerchiamo allora di conoscerlo più da vicino questo contesto.
Vincenzo Lubrano è stato uno dei boss più temuti della camorra campana, legato alla mafia corleonese attraverso il vincolo che univa la sua famiglia a quella dei Nuvoletta, mandatari di Cosa Nostra in Campania.
Lello Lubrano, primogenito di don Vincenzo, aveva sposato Rosa Nuvoletta, figlia del capomafia di Marano, Lorenzo. I Nuvoletta, benchè napoletani, non sono camorristi, sono l’unica famiglia esterna alla Sicilia che ha avuto un ruolo ai vertici di Cosa Nostra.
Vincenzo Lubrano fu condannato all’ergastolo come uno dei mandanti dell’omicidio del sindacalista di Maddaloni, Franco Imposimato, fratello del giudice Ferdinando Imposimato, l’11 ottobre 1983.
E Imposimato fu ucciso per due ragioni: per colpire il fratello del giudice che stava indagando sul riciclaggio di Cosa Nostra a Roma; e perchè si batteva sul territorio affinchè le colline maddalonesi non fossero divorate dalle cave che oggi le deturpano. L’omicidio Imposimato, avvenuto in terra di camorra, è considerato un delitto di mafia, perchè l’ordine ai campani arrivò direttamente dalla Sicilia.
Ma tutto lo ricorda solo chi l’ha vissuto sulla propria pelle, perchè la maggior parte delle cosche casertane, compresi i Lubrano, hanno sempre preferito mantenere un basso profilo, tenendosi ai margini della cronaca. Palmesano, invece, scrive e racconta.
Scrive del pellegrinaggio che Vincenzo Lubrano, assolto in appello per l’omicidio Imposimato, organizzò con diversi pullman a San Giovanni Rotondo per ringraziare Padre Pio.
Ricorda il restauro che Raffaele Lubrano fece della cosiddetta “Madonna della camorra”, poichè a lei si rivolgevano durante la latitanza a Pignataro Maggiore i boss di Cosa Nostra. Palmesano racconta la presenza di Liggio e Riina sul territorio. Inizia a scrivere tutti i giorni del clan Lubrano e si concentra su Raffaele “Lello” Lubrano, ucciso a Pignataro Maggiore nel corso di una faida che vede coinvolti pignataresi e casalesi
Il cronista sa che questa storia è nodale per comprendere gli equilibri politici che regolano il territorio. E proprio per questo Vincenzo Lubrano vuole a toglierlo di mezzo.
C’è un’intercettazione telefonica tra Lubrano e Francesco Cascella, il nipote acquisito del boss che medierà tra il clan e il direttore del quotidiano per l’allontanamento di Palmesano. Dice Lubrano: « Ma come si deve fare, non posso, non posso nemmeno andare a pisciare più… ho passato un guaio con questo giornalista. Mi sta rompendo il cazzo sai perchè, mette sempre in mezzo la morte di Lello, che hanno ucciso a Lello, nello stesso articolo. Ma se tu scrivi una cosa che nomini a fare quello che ormai è morto? Hai capito? E qualche giorno mi fa perdere la testa e mi fa passare un guaio grosso. Pure a Marano. A Marano uccisero Siani, ebbero 7 ergastoli. Quello pure lo stesso rompeva il cazzo a tutti quanti, vedeva a uno di quelli là magari a prendere il caffè, prendeva e scriveva, quello si è stufato e l’hanno ucciso. Hanno avuto 7 ergastoli. Adesso dico io perchè devo prendere l’ergastolo per un uomo di merda di quello? Magari, gli devi dire che non nomina più a Lello Lubrano, che lo lasciasse stare in grazia di Dio ».
Il riferimento all’omicidio di Giancarlo Siani è particolarmente inquietante perchè a farlo è una famiglia legata per sangue e affiliazione agli esecutori di quell’omicidio.
I Lubrano, come detto, sono imparentati con i Nuvoletta di Marano, che nel 1985 decretarono la morte del giornalista del Mattino.
Per evitare che parta l’ordine di morte, Cascella va a parlare con il direttore del Corriere di Caserta , Gianluigi Guarino, e gli chiede di ridimensionare Palmesano e di impedirgli di citare nei suoi articoli Lello Lubrano; poi riporta a don Vincenzo il contenuto di quella conversazione: « Comunque, l’importante, ho detto: Gianluigi (Guarino, ndr ), che almeno queste due cose qua, ho detto, tu me le fai, me lo devi, perchè se no io ti ho sempre fatto un sacco i favori, io a te, Gianlui’, ho detto, que-sto, ti ripeto, è mio zio, è il fratello di mia suocera, ti prego, almeno… gli ho detto, facciamo riposare in pace quest’anima che già ne ha passate abbastanza… dice: no, no, dice, digli a don Vincenzo che questo lo può ritenere fatto, per quanto riguarda il fatto di non scrivere dice, piano piano, anche questo Palmesano, dice, mi crea solo problemi ».
Poco prima, Cascella attribuisce a Guarino queste parole: « Questo Palmesano è un “ cacacazzo”, dice, piano piano se io ci riesco a ridimensionarlo ».
Accade dunque che un giornale locale licenzi un giornalista su ordine di un boss. Accade poi che una sentenza arrivi a confermare l’inchiesta su giornalismo e camorra. Ma com’è possibile che questa storia rimanga nell’ombra?
Roberto Saviano
(da “La Repubblica”)
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