IL PIANO DRAGHI SUI MUTUI NON AIUTERA’ I GIOVANI A LASCIARE LA CASA DEI GENITORI: ECCO PERCHE’
INTERVISTA A LUCIANO MONTI, DOCENTE ALLA LUISS
“Il percorso che porta una persona ad essere autonoma e a raggiungere la maturità passa attraverso l’apertura delle famose tre porte: la prima è costituita dall’uscire dalla casa dei genitori per entrare in una casa propria. La seconda è quella, anche virtuale, della postazione di lavoro, quindi assicurarsi una lavoro stabile e dignitoso. La terza porta/tappa è avere degli eredi. In Italia la maggior parte degli under 35 non ha ancora varcato neanche la prima porta”.
Luciano Monti, docente di Politiche dell’Unione europea alla Luiss Guido Carli e condirettore scientifico della Fondazione Bruno Visentini, spiega ad HuffPost perché i propositi del Governo Draghi che nel decreto “Imprese, lavoro, professioni” mira a garantire ai giovani condizioni maggiormente favorevoli per l’acquisto della prima casa e ad abbatterne gli oneri fiscali, potrebbero rivelarsi fallimentari come spesso sono state le facilitazioni per l’accesso ai mutui nelle politiche che lo hanno preceduto.
“Nella piattaforma della proposta Draghi”, ci spiega il Professore, ”si stima ci siano 55 milioni di euro per il rifinanziamento del Fondo: con la volontà di rinforzare il sistema e agevolare l’accesso a una casa per i giovani”.
Quali strumenti intende utilizzare?
Essenzialmente due: agevolazioni fiscali di deducibilità e garanzia per i mutui. La prima è una misura inefficace per natura.
Ci spieghi meglio.
La deducibilità fiscale per giovani con reddito molto basso ha poco senso e andrebbe a favorire quella percentuale minima di coloro che possono contare su un reddito più alto. Auspicherei che in tutte queste bozze qualsiasi strumento di deduzione fiscale venga abbandonato perché non è quello che può aiutare i giovani. Da uno studio fatto dal Consiglio nazionale giovani (CNG) e Eures, su quasi 1000 giovani intervistati (under 35) nei mesi di marzo e aprile 2021 di prossima pubblicazione, ben oltre la metà ha avuto negli ultimi tre anni mediamente un reddito inferiore a 10mila euro. Soltanto il 7,4% sopra i 20 mila euro. Immaginare detrazioni fiscali su redditi mediamente così bassi è una misura inefficace.
Perché?
Molto semplice: se lei ha un reddito basso, e qui la maggioranza dei possibili beneficiari posiziona buona parte del suo reddito nella No-Tax Area, la detrazione è inutile. Un conto è dedurre una spesa da qualcuno che ha il 43% di imponibile e un conto dedurla da qualcuno che ha il 27%, che è poco più della metà.
Quindi no alla detrazione fiscale. Quale è il secondo strumento di cui si doterà lo Stato?
Come ho detto, l’aumento delle garanzie dello Stato per l’acquisto della prima e/o agevolazioni al mutuo. Misure sicuramente efficaci che sono già in atto, tant’è che dal 2013, da quando è stato istituito il Fondo Consap, l’acceso alla prima casa è migliorato a livello teorico. Ma a livello pratico no, i giovani non stanno acquistando. Le do un po’ di dati che aiutano a capire meglio.
Prego.
Nel 2007 i giovani che ancora vivevano nella famiglia natale erano il 59,10%. Nel 2019 sono saliti al 64.3% (dati Istat). E’ evidente che questa è una cartina di tornasole: qualsiasi intervento sia stato fatto per rendere autonomi i giovani e assicurare loro l’apertura della prima porta è stato inefficace. Non solo. Sa quante sono state le richieste dei mutui dei giovani sul totale delle richieste dei mutui fatte in Italia in un anno?
Quante?
Fonte Crif: nel 2016, primo trimestre, fatto 100 la richiesta dei mutui, un quinto soltanto era degli under 35, il 20%. Nel primo trimestre del 2020, siamo al 22%. La situazione è pressoché invariata. E attenzione: parliamo di richieste, non di mutui concessi.
Dunque perché questi ragazzi se ne stanno a casa dei genitori?
Non perché sono dei bamboccioni, ma perché non vedono delle prospettive. La prima causa è la mancanza di reddito autonomo o poter contare su un reddito che è comunque insufficiente. Molti di loro lavorano in nero. Sempre secondo l’indagine Eures-Cng viene fuori che tra gli intervistati il 74,2% ha un lavoro precario o è disoccupato. Un dato coerente con la percentuale (il 64,3%) dei ragazzi che non hanno la possibilità di uscire dall’abitazione dei propri genitori.
Diventa impossibile chiedere un mutuo
Ovvio. Il problema vero è il lavoro. Se non si crea lavoro per i giovani è inutile spingere sui mutui: è come spingere sulle auto elettriche quando la gente non ha i soldi per comprarle.
Stessa cosa vale per l’affitto
Gli affitti sarebbero in parte una soluzione al problema. Ma prendere una casa in affitto non significa solo pagare il canone, ma farsi carico della gestione intera di tutte le utenze. Considerando i redditi bassi dei giovani, una fetta altissima sarebbe dedicate alle spese di casa. Dunque anche questa soluzione diventa impraticabile
Se aggiungiamo poi che i canoni degli affitti nelle grandi città sono altissimi…
Per questo ho avanzato una proposta, sposata anche da Confedilizia: complice la diffusione dello smartworking, portiamo i giovani verso i borghi, verso i comuni più piccoli. Visto che abbiamo dei luoghi molto belli che stanno perdendo residenti, soprattutto nelle aree interne c’è rischio estinzione e il termometro di questo è la chiusura delle scuole primarie, invertiamo questa tendenza. Indirizziamo i giovani verso questi centri. Come? Rendendo competitivi questi borghi: da questo punto di vista bene il PNRR che prevede banda larga, digitalizzazione, servizi primari, guardia medica, ritorno delle scuole, stanziando, tra l’altro, 1,04 miliardi di euro per un piano nazionale borghi. L’altra spinta potrebbe arrivare dai privati.
In che modo?
Indennizzando i piccoli comuni affinché possa essere tolto l’Imu dalle seconde case dai proprietari a condizione che vengano affittate a prezzi calmierati ai giovani che vogliano trasferirsi. Misura stimata da Confedilizia in circa 280 milioni di euro, cifra grande ma non grandissima nell’economia di un Paese. Invece di gonfiare un Fondo di Garanzia per l’acquisto delle prime case, forse sarebbe meglio provare a agevolare lo spostamento dei giovani in affitto nei piccoli centri. E poi c’è un altra cosa: oramai pensare alla casa di proprietà è un ragionamento da Baby Boomer.
Ci spieghi meglio
La generazione Erasmus è più mobile, pensare alla casa di proprietà non è un pensare contemporaneo e non conviene. In Inghilterra prima della crisi finanziaria, sono stati concessi mutui a chiunque: gli under 35 hanno acquistato e a seguito della crisi non solo non sono stati in grado di rimborsare il mutuo, ma si sono trovati con patrimonio personale negativo. Un incubo: senza più la casa (messa all’asta) e con lo stipendio pignorato.
Mi sta dicendo che il futuro per poter uscire dalla casa dai genitori, è tentare una vita in affitto?
Esattamente. E non dimentichiamo che esiste un asset patrimoniale notevole rappresentato dalle famiglie italiane che arriverà in successione a questi soggetti. E qui attenzione: no alla tassa di successione che sarebbe l’ennesima beffa per questi giovani ai quali prima rendi impossibile la vita e poi quando finalmente riescono a guadagnarsi la casa dei genitori devo anche pagare la successione, e nella maggioranza dei casi magari costretti a svenderla in fretta per pagarne gli oneri. Si tratta di una misura decisamente antigenerazionale.
Se si mettesse davvero in atto lo spostamento in smartworking nei piccoli centri alle condizione che ci siamo detti fino a questo momento, che ne sarebbe delle case delle grandi città?
Bisognerà riqualificare quelle strutture. Il mercato si tranquillizzerebbe, gli affitti si adeguerebbero, ma non possiamo pensare di concentrare tutto nelle grandi città. Bisogna rendere più accessibili i nostri capoluoghi, non trascurando i comuni di piccole e medie dimensioni che rappresentano un numero diffusissimo in Italia.
Che cosa guadagnerebbero le aziende decentrando il lavoro nei piccoli borghi, incentivando lo smartworking?
La produttività del lavoratore che alterna lavoro in presenza a lavoro in smartworking aumenta ed è un aumento a due cifre. Vuol dire che l’azienda riuscirebbe a contare su lavoratori più competitivi: non perderebbero tempo nell’attività di commuting, banalmente i trasferimenti per andare a lavoro, e si presenterebbero a lavoro più freschi. E poi c’è un non indifferente impatto ambientale: una riduzione del commuting porta con sé una riduzione dei veicoli che gravitano intorno alla metropoli. Le grandi aziende, anche in Italia, hanno già capito i vantaggi di un sistema ibrido, lo capiranno anche le aziende più piccole. Ma non si torna indietro: si chiama Resilienza Trasformativa.
Quale potrebbe essere invece una politica vincente per garantire ai giovani un lavoro stabile che permetta loro di garantirsi una vita autonoma?
Continuare a pensare che l’obiettivo sia necessariamente il posto da impiegato è sbagliato. L’ Osservatorio delle politiche giovanili dalla Fondazione Bruno Visentini, tempo fa ha svolto un’indagine presso studenti tra i 14 e i 19 anni. Alla domanda ‘che cosa vorresti fare da grande: impiegato, lavoratore autonomo o imprenditore?’, solo una quota minima ha risposto l’impiegato. Questo vuol dire che andiamo verso dinamiche che vanno ricostruite, non cercherei di irrigidire il mercato del lavoro verso forme stabili. Purtroppo manca nel PNRR un incentivo per l’autoimprenditorialità giovanile, quando sappiamo che nell’economia circolare, nell’ambito della transizione ecologica e digitale sono tantissime l’opportunità di autoimpiego per i giovani.
In molti persiste la paura di mollare il posto fisso per lanciarsi in avventure di autoimprenditorialità..
E’ vero, ma perché c’è insicurezza sociale. Oggi la contribuzione di un lavoratore autonomo non si sa bene dove realmente vada a finire. Le partite Iva sono i reietti. C’è scarsa mobilità sociale, anche perché chi è meno abbiente non ha tutte le opportunità di formarsi che hanno gli altri. In questo senso abbastanza bene le borse di studio introdotte nel PNRR, ma male che le abbiano dimezzate dalla bozza Conte a quella Draghi. E questo è un elemento di debolezza dell’Italia: bisogna accompagnare quelli che hanno la vocazione al lavoro autonomo, al rischio, perché il futuro è in quella direzione. Il passo dal lavoro dipendente a quello autonomo è difficile perché si ha paura di passare nella schiera dei “non tutelati”: bisogna immaginare forme di tutela per quel sempre maggior numero di giovani che sceglieranno il lavoro autonomo. Andiamo verso modelli che ci sono anche in altri Paesi occidentali dove si passa dal lavoro dipendente a quello autonomo e viceversa.
Sarebbe bello avere anche in Italia questo tipo di possibilità…
L’obiettivo è di arrivarci nel 2030. La Germania è molto più avanti di noi perché ha investito molto sulla digitalizzazione e le formazione duale. Ma dobbiamo metterci in testa che è finita l’era dell’unico lavoro in tutto l’arco della propria vita, come è finita la dualità del prima si studia e poi si lavora: nel PNRR sono stati stanziati fondi per attività lavorative durante percorsi scolastici. Ci sono segnali che si vada in quella direzione: alcuni il PNRR li ha colti, altri rimangono in chiaroscuro. La pecca del PNRR è che è fatto con occhi da adulti e prova a tracciare dei percorsi che non sono congeniali per i giovani. Infatti il piano italiano non ha il Pilastro Giovani, ad esempio, nonostante Bruxelles l’avesse inserito tra le sei priorità assolute del Recovery Plan.
(da Huffingtonpost)
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