IL POLITOLOGO DELLA CATTOLICA DI MILANO, VITTORIO EMANUELE PARSI, SPIEGA PERCHÉ HA SFANCULATO LA BERLINGUER E ORSINI
“VENIVO INTERROTTO, NON ERA IL MIO POSTO. NON AVEVO NESSUNA VOGLIA DI CALARMI NELL’ARENA, COME SE FOSSIMO DEI GLADIATORI. C’ERA UN CLIMA DA OSTERIA, NON CI ANDRÒ MAI PIÙ ”
Premette che non lo ha fatto con supponenza. “Semplicemente, era impossibile discutere. E allora mi sono detto: ma perché devo prestarmi a queste buffonate? Per questo me ne sono andato da Cartabianca”.
Il professor Vittorio Emanuele Parsi insegna Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano. È un accademico serio, trent’anni di aule, convegni, decine di pubblicazioni. Martedì sera ha abbandonato il collegamento con il programma di Bianca Berlinguer su Rai Tre quando i tre tenori della sparata ipersonica Alessandro Orsini, Andrea Scanzi e Donatella Di Cesare, contrapposti in studio alla ballerina ucraina Anastasia Kuzmina e a Guido Crosetto, hanno iniziato a deragliare dai binari della discussione e gli hanno impedito di formulare analisi di senso compiuto sulla guerra in Ucraina.
“Il mio errore è stato quello di non capire prima di andarci che tipo di trasmissione fosse”, racconta al Foglio. “Già da come venivo interrotto ho capito che non fosse il mio posto. Poi quando si è passati al dibattito da osteria ho realizzato che non c’era nient’altro da fare se non andarsene. Non avevo nessuna voglia di calarmi nell’arena, come se fossimo dei gladiatori”.
Eccolo, allora, lo show del martedì sera: che pur dando fondo al tridente delle presunte vittime del maccartismo ha perso ancora una volta la sfida dello share con Di Martedì, nonostante Floris conducesse dal salotto di casa con il Covid. E continuamente intervallato da spazi pubblicitari.
Quello di Parsi potrebbe sembrare l’atto d’accusa di uno snob del mezzo televisivo. Eppure il politologo torinese, che ha appena pubblicato un saggio con il Mulino (Titanic: naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale) e giustamente vorrebbe pure poterlo presentare, con il talk-show ha un rapporto di lunga data.
“Ho iniziato a partecipare alle trasmissioni quando avevo 35 anni. E sempre gratis. Credo che l’accademico così come l’intellettuale non debbano rinunciare a parlare a tutti: andare dove c’è la gente. E però questo livello così basso non lo avevo mai visto. Credo nel dibattito pubblico, non nella pubblica canea”, dice oggi.
Perché il format è diventato questo prodotto decotto che al libero contrapporsi delle idee preferisce la polarizzazione estrema?
“Forse perché è più attento alla costruzione di carriere televisive che al veicolare informazioni che siano utili al pubblico. Certo, cercare di acquisire notorietà in un momento come questo, mentre c’è gente che muore davvero, lo trovo sinceramente deprecabile. E anche fare i censurati ma stare sempre in tv non è proprio il massimo”.
Funziona così, lo abbiamo ripetuto in più occasioni: il circo prevede che ci sia il matto, l’influencer, l’indignato, la ballerina.
E poi anche l’esperto, “ma solo da noi il criterio di competenza viene tenuto completamente al riparo dall’oggetto della discussione. Come se l’accademico in se avesse il potere di dire qualsiasi cosa, avesse la verità assoluta in tasca. E poi c’è un meccanismo francamente insostenibile”, sostiene Parsi.
Quale? “L’utilizzo delle metafore, delle analogie, come se la complessità dello scenario internazionale fosse semplificabile con le dinamiche del quotidiano. Già Giovanni Sartori ci aveva avvertiti. Ecco, quando noi accademici andiamo in tv dobbiamo stare molto attenti a distinguere il livello delle analisi dalle reazioni di pancia”.
In pratica ci vuole una sorta di Aventino degli esperti dalle trasmissioni urlate? “Fortunatamente non tutto è governato con queste regole. Ci sono programmi più pacati, seppur popolari, in cui è ancora possibile discutere: penso a Tagadà, ItaliaSì. Sulla tv svizzera italiana c’è un format che si chiama ’60 minuti’. Sei esperti scelti con criterio discutono, moderati da un conduttore che non ti parla continuamente sopra. Condividendo le regole del gioco, il metodo, che è centrale. Perché se contesti quello salta tutto, è impossibile far confrontare idee contrapposte. Lì si fa vero servizio pubblico”.
Ma allora perché, pur con un continuo dissanguamento di ascolti, da noi il talk si porta sbracato, selvaggio?
“È una tv vecchia, fatta con idee vecchie e per i vecchi”. E quindi difficilmente potrà avere un futuro, parrebbe di credere. “Io credo che il pubblico alla fine si stancherà della riproposizione costante di queste dinamiche da arena. Non serve a comprendere le cose ma a prendere una parte”.
Dopo l’esperienza a Cartabianca ha smesso con la tv?
“No, ci torno oggi stesso. Ripeto, gli accademici non devono rinunciare a parlare al grande pubblico. Servono però confini e cornici precise. Una cosa è certa: a Cartabianca non ci metterò mai più piede”.
(da il Foglio)
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