INTERVISTA A GIAN CARLO CASELLI: “LA POLITICA DEL M5S DEI DUE FORNI E’ SOLO OPPORTUNISMO”
“QUANDO IL CONTRATTO SARA’ SCRITTO CAPIREMO DA CHE PARTE STANNO”
Il primo fu Totò Riina, nel 1994: “Durante una pausa del processo per l’omicidio Scopelliti, nell’aula della Corte d’assise di Reggio Calabria, mi puntò il dito contro e ammonì: ‘State attenti a quel comunista!'”.
Poi, negli anni del berlusconismo arrembante, quando il conflitto tra la politica e la magistratura ogni giorno produceva notizie da prima pagina, quell’etichetta che gli aveva assegnato il capo della mafia siciliana risuonò più volte, anche nella variante: “Toga rossa”
Anni prima, invece, quando indagava sul terrorismo delle Brigate Rosse e di Prima Linea, Gian Carlo Caselli, oggi magistrato in pensione, era stato un “fascista”, “servo sciocco di Dalla Chiesa”: “Ma io, trasferendomi da Torino a Palermo, non mi ero accorto di essere cambiato così tanto”.
L’accusa di essere “fascio” è tornata di moda in anni recenti, quando a prenderlo di mira sono state alcune frange del movimento No-Tav: “Qualsiasi opinione sul costo dell’opera, sulla sua utilità , sull’impatto ambientale, è legittima. Ma chi usa la violenza, a volte anche in maniera assai grave, commette un reato. E un procuratore della Repubblica che riceve sulla sua scrivania la notizia di quel reato non può voltarsi dall’altra parte, come tanti avrebbero voluto che facessi”.
Allora le inchieste proseguirono e sui muri di Torino scrissero anche: “Caselli mafioso”. E poi lo scrissero sulle mura di altre città : “Andai a Palermo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio; poi, tornato a Torino, con il processo Minotauro sulla ‘ndrangheta in Piemonte, nel 2011, la procura che dirigevo arrestò centocinquanta persone in contemporanea. Ho sperimentato di tutto, ma mafioso mi sembra davvero incredibile e stupido. Volendo scherzare: mancava solo che mi accusassero di essere juventino e poi le avrei provate davvero tutte”.
Perchè tifa il Torino?
“Da ragazzino, un collega di mio padre, un operaio meccanico, mi portava ogni domenica a vedere le partite del Toro. Non era il Grande Torino: era la squadra nata dopo la tragedia di Superga. Tifarla significava avere il coraggio di navigare controcorrente, rimanendo fedeli a se stessi nelle avversità , attraversando i momenti bui, le sofferenze. Non è un’ideologizzazione del calcio, le assicuro: tifare Toro a Torino significava, e significa, mettere alla prova la coerenza e la fermezza delle proprie idee”.
Le servì anche per altro?
“Quest’operaio che mi portava allo stadio, andava ogni mattina in fabbrica con l’Unità in tasca. Era un comunista e un sindacalista in tempi in cui, esserlo, comportava subire l’ostilità dei “padroni”. Io non capivo bene il perchè di questa ostilità , ma ammiravo il modo in cui lui l’affrontava, non arretrando nemmeno un po’ dalle sue idee. Due campi molto diversi, tifo e “militanza”, ma con un elemento in comune: la coerenza. Una strana combinazione di fattori che ha contribuito alla mia formazione e mi ha insegnato l’importanza di fare le cose con passione. Un atteggiamento che ho cercato di conservare anche in magistratura”.
Come si appassionò alla giustizia?
“Quando stavo per finire l’università , cominciai a leggere Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e il Mondo di Mario Pannunzio, sul quale scriveva di giustizia Marco Ramat, un magistrato. Scoprii nella Costituzione uno strumento di crescita collettiva, un veicolo per l’affermazione dei diritti e dell’uguaglianza. E capii che facendo il magistrato avrei potuto fare qualcosa di utile agli altri, partecipando, come dice l’articolo 3 della Carta, alla rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Lei ha incontrato ostacoli di questo tipo?
“I miei nonni erano contadini e furono costretti a emigrare negli Stati Uniti (quelli paterni) e in Argentina (quelli materni). Quando tornarono in Italia, la loro condizione economica rimase modesta. E anche la nostra. Mio padre faceva l’autista a tempo pieno del titolare di una fabbrica dell’indotto Fiat. Perciò la mia famiglia viveva in fabbrica, in via Borgone, nel quartiere San Paolo di Torino”.
Lei però è riuscito a studiare.
“Andavo a scuola dai salesiani e, dopo le medie, mi segnalarono come ragazzo “studioso” al loro liceo, il Valsalice di Torino, proponendo di farmi pagare metà della retta: una generosa disponibilità che consentì ai miei genitori di farmi andare avanti”.
Cos’ha imparato dai salesiani?
“Don Bosco aveva una missione: “Creare buoni cristiani e onesti cittadini”. Io mi sono portato dentro soprattutto il secondo aspetto: l’onestà , che è l’altra faccia della legalità “.
Lei non è un buon cristiano?
“Sono credente, ma con molte fragilità “.
La fede c’entra con il suo lavoro?
“I problemi giuridici si devono risolvere osservando il codice, non il Vangelo, ma ciò non significa che nell’educazione religiosa non si possa trovare anche un orientamento. Ad esempio, operando perchè la legge sia al servizio della persona”.
Come si può condannare un uomo e metterlo allo stesso tempo al centro?
“Decidere della libertà e della vita di una persona, è una delle scelte più difficili che si possano prendere. Per questo, fare il magistrato è un compito gravoso. Ci sono in gioco beni fondamentali. Quelli della persona, certo: ma anche quelli della collettività . Poichè la vita degli esseri umani è per sua stessa essenza vita sociale. Ed essa, per essere pacifica, obbliga tutti al rispetto delle regole”.
Se qualcuno non le rispetta, però, il sacrificio si rende necessario. Come l’ha affrontato?
“Rispettando nella maniera più assoluta le regole e le garanzie dello stato democratico, muovendomi sotto l’orientamento dei principi della Costituzione, del bene comune, della pace sociale. E, quando si è trattato di terrorismo e mafia, anche con la consapevolezza che era in gioco la tenuta della democrazia. Ecco: far valere questi principi, anche sacrificando la libertà di una persona (quando vi siano tutti i presupposti in fatto e diritto) significa semplicemente assolvere il proprio dovere.
Dov’era nel 68?
“Ero appena entrato in magistratura e, quando fuori esplose la contestazione, ero tutto preso dal mio apprendistato. Guardai quello che accadeva da lontano. E, anche se avessi avuto voglia di farlo, non avrei avuto il tempo necessario”.
Si fece un’idea?
“Me la feci quando dovetti occuparmi delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Mi rendo conto che è una semplificazione e che occorrono analisi più “raffinate”, ma mi consenta di essere un po’ grossolano: studiando l’origine di questi gruppi armati, constatai che una certa linfa la ricavavano da slogan come “compagni che sbagliano”, oppure “nè con lo stato nè con le Br”, nei quali risuonava una cultura e una mentalità che erano proprie del movimento. Oggi sono delle bestemmie, poichè in nessun modo la legittimità di uno stato democratico, pur con tutti i suoi difetti, può essere messa sullo stesso piano di una banda armata. Eppure, allora erano slogan che attecchivano e generavano ambiguità e confusione. A volte, addirittura contiguità , se non proprio complicità , tra certi ambienti del movimento e i terroristi. Quando questa ubriacatura finì, l’acqua intorno alle Brigate Rosse si ridusse, e poi si prosciugò. E una volta isolati politicamente, l’azione investigativa e giudiziaria contro i terroristi divenne automaticamente più efficace”.
La mafia, invece?
“Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, in cui furono uccisi Falcone, Borsellino e quanti erano con loro, Nino Caponnetto disse : “È tutto finito, non c’è più niente da fare”. Era un sentimento diffuso, in quelle ore, in tutto il popolo italiano. Avevamo paura che la democrazia italiana stesse per scomparire, sostituita da un da un potere criminale stragista, un narco-stato. Tutti, però, superato il momento di smarrimento, ci chiedemmo: “Cosa possiamo fare?”.
Lei come si rispose?
“Dopo che la normalità stava tornando nella mia famiglia, provata da dieci anni di terrorismo e di vita sotto scorta (i miei figli erano cresciuti circondati dai mitra), eccomi proporre a mia moglie di “ricominciare”. Le dissi che avrei voluto fare domanda di trasferimento alla procura di Palermo, ossia il posto più pericoloso in cui si potesse finire in quel momento”.
Come la prese?
“Ci fu un confronto difficile, ma approfondito con lei e con i miei figli, con i colleghi, con gli amici, con don Ciotti. Alla fine la decisione, con il costante appoggio della mia famiglia. Le motivazioni di fondo furono tante e complesse. Ne ricordo una: un giorno, mio figlio, magari un po’ stufo di sentirsi domandare sempre la stessa cosa, sbottò: “Papà , forse, se le cose in questo paese non vanno sempre come devono, è anche perchè tutti sono capaci di dire cosa è giusto fare, ma pochi lo fanno”. Anche questa frase ebbe il suo peso.
Sentì lo Stato dalla sua parte?
“Ho ottenuto il massimo della protezione che lo stato poteva garantirmi, e, se ho portato a casa la pelle, lo devo agli uomini dei Nocs e della polizia di Stato”.
Finì con un processo ad Andreotti, sul quale lei ha da poco scritto un libro che annuncia la verità . Qual è questa verità ?
“È contenuta nella sentenza del 2 maggio 2003 della Corte d’appello di Palermo, poi confermata in Cassazione. Nel dispositivo (otto righe) si legge: “In ordine al reato di associazione per delinquere (con Cosa nostra) commesso fino alla primavera del 1980” si decreta “l’estinzione per prescrizione”. Reato commesso! Ecco perchè parlare di assoluzione, per Andreotti, è una bestialità giuridica. Non esiste la formula “assolto per aver commesso il reato”. Tanto più se il reato è ultra-provato.
Perchè il centro-destra berlusconiano scrisse una norma per non farla diventare procuratore antimafia?
“Per punire, appunto, la mia inchiesta su Andreotti”.
Un’intimidazione anche agli altri giudici?
“Nonostante gli attacchi, la magistratura di questo paese ha continuato a fare il suo dovere. Tuttavia, l’aggressione nei confronti di Falcone e Borsellino, e poi delle procure di Milano e Palermo e di tutti i magistrati che hanno condotto inchieste scomode, può essere servita a far balenare nella mente di qualche magistrato il dubbio che fosse meglio essere prudenti, inducendolo a scegliere la strada più tranquilla, soprattutto di fronte a soggetti “forti”.
Si riferisce a qualcuno?
“No, nessuno in particolare. Penso, però, che prospettare delle conseguenze all’azione di un giudice, è un rischio per la sua indipendenza. Guariniello ha fatto inchieste sulla ThyssenKrupp, su Eternit e altri colossi economici, senza porsi il problema delle eventuali conseguenze delle sue indagini. Ma quanti Guariniello ci sono in Italia?”
La questione morale c’è ancora?
“C’è, ma nessuno l’avverte più come prima. Con le inchieste sulla mafia, con Mani Pulite, l’opinione pubblica aveva recuperato una notevole fiducia nella legalità . Poi, gli attacchi ben organizzati contro la magistratura, hanno fatto prevalere l’indifferenza, se non l’ostilità . E la questione morale si è eclissata. I cattivi esempi provenienti dall’alto hanno fatto il resto”.
Tutti l’hanno messa da parte?
“Non le associazioni come Libera, che ancora lottano per l’etica della legalità . Nell’interesse di tutti”.
E la politica?
“Una parte della politica l’ha abbandonata o è rimasta indifferente”.
I 5 stelle?
“Onestà , onestà , onestà è uno slogan promettente. Ma deve tradursi in cifra operativa. Per esempio, con una lotta seria (anche col carcere) contro la grande evasione fiscale”.
Che effetto le fece risultare, nel 2013, una tra le dieci persone più votate nelle Quirinarie del Movimento 5 stelle?
“Mi fece piacere, perchè quelli erano i tempi dei grillini ruspanti, autentici”.
Ora come sono, invece?
“Hanno registrato una clamorosa impennata ed è inevitabile che, prima o poi, toccherà a loro governare. E a quel punto vedremo se, dalla propaganda, che consente di dire tutto, passeranno alle cose concrete”.
Possono passare alle cose concrete, stringendo un patto con alcune delle persone che votarono una legge contro di lei?
“Se dovesse succedere, sono pronto a rilasciarle un’altra intervista”.
Non se lo augura?
“Diciamo che non è in cima alle mie aspettative”.
Sarebbe più saggio, per i 5 stelle, guardare a sinistra?
“Non saggio è lo strabismo. Parlano di un “contratto”. Quando sarà scritto nero su bianco, capiremo finalmente verso quale parte guardano davvero. Prima di allora la cosiddetta “politica dei due forni”, più che la responsabilità , richiama l’opportunismo”.
(da “Huffingtonpost”)
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