INTERVISTA AL GIUSLAVORISTA PIETRO ICHINO: “SALARIO MINIMO TRA 6 E 7 EURO IN BASE AL COSTO DELLA VITA LOCALE”
“CONTRATTO AZIENDALE DEROGHI DAL CONTRATTO NAZIONALE, COME IN GERMANIA”
Professore Pietro Ichino, il gancio per entrare nelle dinamiche del lavoro povero ce lo dà l’ultimo rapporto dell’Istat. L’incidenza della povertà è in aumento in modo consistente anche nelle famiglie in cui la persona di riferimento ha un lavoro. Come si ridà a questo lavoro la sua funzione principale, cioè essere innanzitutto una forma di sostentamento per se stessi e per la propria famiglia?
Su questo terreno si pongono due problemi molto diversi tra loro: uno è il problema della correzione delle distorsioni del mercato del lavoro, che hanno effetti depressivi sui livelli delle retribuzioni. Altro, e completamente diverso, è il problema della scarsa produttività media del lavoro nel nostro tessuto produttivo. La via maestra per valorizzare meglio il lavoro consiste nel favorirne l’aumento di produttività.
E come si aumenta la produttività del lavoro?
Innanzitutto con servizi di formazione mirati agli sbocchi professionali offerti dalle imprese più produttive, più capaci di valorizzare il lavoro dei propri dipendenti. Ma anche favorendo il passaggio della manodopera dalle aziende marginali o addirittura in stato fallimentare, che oggi tendiamo a tenere in vita con la respirazione artificiale, a quelle più produttive. Che oggi stentano a trovare il personale di cui hanno bisogno.
Torneremo più avanti su quello che si può fare. Restiamo alla situazione attuale: il lavoro povero, pagato meno di 9 euro all’ora, riguardava quasi 3 milioni di persone già prima della pandemia. Oltre un milione erano giovani, con meno di 30 anni. Perché le competenze e le conoscenze dei giovani sono soggette a questa logica di scarsissima valorizzazione economica e in alcuni casi di sfruttamento?
I giovani italiani soffrono di un grave difetto del primo “anello della catena” dei servizi al mercato del lavoro: cioè del servizio di orientamento scolastico e professionale. Nei Paesi dove questo servizio funziona, esso raggiunge in modo sistematico, a tappeto, ogni adolescente all’uscita di ogni ciclo della scuola media inferiore e superiore, traccia il profilo delle sue attitudini e quello delle sue aspirazioni, mette a confronto le une con le altre e indica i percorsi di formazione più appropriati. Il tasso altissimo di disoccupazione giovanile si spiega principalmente con l’assenza di questo servizio, organizzato in modo capillare. L’alto tasso di disoccupazione, poi, diventa causa di debolezza nel mercato, che si traduce in lavoro più precario e mal retribuito.
Veniamo alla questione che divide: i salari. Dal 2015 in poi i governi ci hanno provato a farli crescere con la decontribuzione e anche le imprese, soprattutto quelle del turismo, sono tornate a chiedere sconti fiscali per alzare i salari. Basta?
Il cuneo fiscale e contributivo, in Italia, grava sulle retribuzioni nette in misura nettamente superiore rispetto alla Germania, e ancor più rispetto al Regno Unito. Nel 2015 il Governo enunciò un progetto tendente alla riduzione progressiva del cuneo contributivo, che trovò poi un inizio di attuazione con le leggi finanziarie del dicembre 2015 e 2016, con misure strutturali di decontribuzione del lavoro dei più giovani. Quel progetto andrebbe ripreso e rilanciato.
Su questo giornale in molti, dallo specialista di previdenza Giuliano Cazzola all’ex segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli, spingono per dare più spazio al contratto di prossimità in tema di salari. Non si rischia una deregulation a danno dei lavoratori se si sminuisce troppo il ruolo del contratto nazionale?
Il progetto che ho sostenuto in un libro del 2005, poi ripreso ne L’intelligenza del lavoro, di cui è uscita da poco la nuova edizione, prevede che il contratto collettivo nazionale di settore conservi la funzione di “rete di sicurezza minima”, cioè di disciplina contrattuale che si applica per default, quando manchi un contratto aziendale; ma che il contratto aziendale, se stipulato da una coalizione sindacale maggioritaria nell’impresa e che abbia un minimo di rappresentatività almeno in quattro regioni, possa derogare o addirittura sostituire il contratto nazionale. Come accade in Germania ormai da vent’anni
Lei è uno storico sostenitore del contratto di secondo livello. Però questa strada ha prodotto una generazione di precari con salari bassissimi. È ancora convinto che bisogna proseguire su questa strada?
Non mi pare che si possa imputare allo sviluppo, comunque fin qui modesto, della contrattazione aziendale il peggioramento relativo delle condizioni di lavoro nella fascia professionale medio-bassa, che si è verificato nel corso dell’ultimo quarto di secolo. Anche perché quelle condizioni non sono quasi mai l’effetto di una previsione contenuta in contratto collettivo aziendale.
È arrivato il momento in Italia di introdurre il salario minimo?
Credo che la fissazione di uno standard retributivo orario minimo anche in Italia possa avere effetti molto positivi per correggere le distorsioni che si osservano molto diffusamente nella fascia bassa del mercato del lavoro e in particolare a danno degli immigrati, ma anche nell’area della parasubordinazione. Dovrebbe, però, essere uno standard espresso in termini di potere d’acquisto. Il valore medio potrebbe essere fissato fra i sei e i sette euro, da moltiplicare per un coefficiente che vada da 0,8 a 1,2 in corrispondenza con le variazioni regionali del costo della vita.
I sindacati temono che la fissazione di uno standard orario minimo costituisca una mina sotto il sistema attuale della contrattazione collettiva centrata sul contratto nazionale.
Per un verso mi sembra che questo timore non costituisca un buon motivo per lasciare senza standard minimo – come lo sono oggi – le zone più svantaggiate del mercato del lavoro. Per altro verso, la preoccupazione delle confederazioni maggiori potrebbe trovare risposta in una riscrittura dell’ultimo comma dell’articolo 39 della Costituzione, che consenta finalmente di risolvere la questione dell’efficacia dei contratti collettivi nazionali di settore.
I sussidi hanno avuto un ruolo di protezione importantissimo durante la pandemia. Alcuni di questi, come il reddito di cittadinanza, esistevano già prima e sono sempre più richiesti. Il RdC fa parte oramai a livello strutturale del welfare italiano o va ridimensionato?
Il RdC non è altro che un rafforzamento e ampliamento del ReI, il reddito di inserimento, già istituito in precedenza, e costituisce una parte molto rilevante del sistema del welfare italiano. Però va corretto per eliminare almeno gli abusi più gravi che si osservano; e per evitare che abbia l’effetto di un forte disincentivo al lavoro per quel 20 o 25 su cento di beneficiari che possono effettivamente essere utilmente inseriti nel tessuto produttivo. Lì è necessario che la condizionalità del beneficio sia effettiva; e per questo è indispensabile investire in modo efficace sui servizi al mercato e le politiche attive del lavoro.
Di investire sulle politiche del lavoro parlano tutti, ma ancora non si vede quasi nulla.
A Milano sta accadendo qualche cosa di importante su questo fronte: il Comune ha messo a disposizione dell’Agenzia metropolitana per il lavoro e la formazione, AFOL, lo spazio necessario in una zona centrale della città per la nascita dello Hub Lavoro: un grande open space nel quale soprattutto i giovani, ma anche chiunque altro sia in cerca di lavoro troverà il “primo anello della catena” dei servizi per il lavoro, oggi mancante: servizi di prima informazione, profilazione personale, job counseling, navigazione assistita nei siti web utili, incontri periodici con le aziende che assumono. Come nelle maggiori città del centro e nord-Europa. Spero che questa iniziativa diventi un modello per tutto il resto del Paese.
(da Huffingtonpost)
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