LA QUESTUA A PECHINO: TLEMONTI GLANDE AMICO DA SEMPRE
NESSUNO VUOLE PRESTARCI I SOLDI, L’ EX PROTEZIONISTA TREMONTI CHIEDE AIUTO AI NEMICI DI UN TEMPO…NEL 2008 DICEVA; “BISOGNA INTERVENIRE CON DAZI E BARRIERE DOGANALI PER CONTRASTARE LA CINA”
Nessuno vuole prestarci i soldi, l’ex protezionista Tremonti chiede o ai nemici di un tempo. La posizione di creditore che la Cina ha nei confronti degli Stati Uniti non è politicamente neutrale: essere creditore è, infatti, avere potere”, così ammoniva il professor Giulio Tremonti, non più e non ancora ministro del Tesoro, nel suo pamphlet La paura e la speranza, nel 2008. Poi, da ministro l’istinto di sopravvivenza ha prevalso e i soldi ai cinesi li ha chiesti. “Roma negozia con la Cina per il salvataggio dai guai finanziari”, scriveva ieri sul Financial Times il corrispondente da Roma Guy Dinmore. La notizia è che il 6 settembre, a Roma, il ministro Tremonti ha incontrato Lou Jiwei, il capo del fondo sovrano cinese China Investment Corp, che investe in occidente e non solo, 400 miliardi per conto del governo di Pechino. Possibile che Tremonti, il ministro protezionista che voleva le sanzioni contro i cinesi, che era disposto all’uscita unilaterale dalla Wto, che temeva la deriva malthusiana della colonizzazione a rovescio da Pechino all’Europa, che presiede l’Aspen Institute a difesa della supremazia atlantica, ecco, possibile che questo fiero teorico del pericolo giallo sia così disperato da chiedere l’aiuto a Pechino? La risposta è ovviamente sì, ma bisogna aggiungere qualche dettaglio. Nel dicembre 2009 il Fatto dà conto dello stupore di molti banchieri d’affari che si sono accorti di come sempre più titoli di Stato italiani finiscano a Pechino. Non è semplice stabilire che strada prende il nostro debito: alle aste partecipano i “grossisti”, 21 grandi banche accreditate che comprano Bot e Btp dal ministero e poi li rivendono ai clienti finali. Solo chi intermedia, cioè le banche, ha il polso della situazione. Al Tesoro gli unici datiufficiali dicono che metà del nostro debito sta in Italia, metà all’estero e che il mercato asiatico (Cina e Giappone) è secondo solo a quello europeo. Pochi giorni dopo l’articolo, a domanda del Fatto in una conferenza stampa natalizia, Tremonti non smentisce. È vero, i cinesi sono sempre più importanti per il nostro equilibrio contabile. Guarda caso, nei primi giorni di gennaio 2010, il ministro tiene una lezione alla scuola di formazione del Partito comunista cinese, a Pechino. Tra le massime dispensate agli allievi c’è questa: “La globalizzazione ci insegna che non c’è più spazio per l’autarchia, nè dei piccoli nè dei grandi Paesi”.
ppello conclusivo: “Iniziamo insieme una grande pacifica rivoluzione globale”. Non è arrivata la rivoluzione, ma qualche cambiamento sì. Fonti vicine al Tesoro raccontano che in questi tre anni l’Asia, e quindi la Cina, è diventata sempre più strategica. La prima settimana di agosto il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli ha viaggiato per la Repubblica popolare. La missione ufficiale era spiegare, nelle vesti di presidente del Comitato economico e finanziario (il coordinamento tecnico del Consiglio europeo sui temi economici), le decisioni prese nel vertice del 21 luglio. Obiettivo ufficioso: rassicurare gli investitori asiatici sul fatto che l’Italia è meglio di quello che sembra. Perchè, spiega chi conosce i meccanismi del debito pubblico, il Tesoro non arriva alle aste sperando nella buona sorte. C’è prima un lungo e continuo lavorio sotterraneo — tutto politico — per convincere gli investitori a dare mandato alle banche di comprare il debito a prezzi ragionevoli, visto che domanda e offerta si incrociano sempre in una forchetta tra prezzi minimi e massimi. E avere i cines bendisposti è fondamentale in questo periodo in cui i mercati stanno imponendo, asta dopo asta, rincari miliardari alle emissioni del nostro debito. IL TESORO però smentisce a metà la questua cinese: sì, il 6 settembre c’è stato l’incontro a Roma con Lou Jiwei, il capo del fondoic, ma per parlare di investimenti azionari, non del debito pubblico in cui investe di solito un’altro fondo di Pechino, il S.a.f.e. . Infatti l’incontro è stato con la Cassa depositi e prestiti, non con i dirigenti del dipartimento del debito. E l’esito del summit può suonare un po’ bizzarro: il Tesoro ha proposto al Cic di essere uno degli investitori nel Fondo strategico italiano (Fsi), cioè lo strumento inventato da Tremonti all’indomani della scalata francese di Lactalis a Parmalat per proteggere i grandi gruppi strategici italiani dagli arrembanti capitali stranieri. Con l’eccezione dei capitali cinesi, evidentemente.
Stefano Feltri
(da Il Fatto Quotidiano)
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