LA TERZA LEGGE DI BILANCIO DEL GOVERNO MELONI È L’ENNESIMO ACCROCCO IMPROVVISATO: L’AUMENTO DELLA SPESA SANITARIA È SOLO UN GIOCHINO CONTABILE: RIMARRÀ STABILE IN RAPPORTO AL PIL E QUEL CHE PASSA DA RIORDINO DELLE DETRAZIONI IN REALTÀ È UN AUMENTO DELLE TASSE
L’UNICO DATO STRUTTURALE È RAPPRESENTATO DAI TAGLI LINEARI AI MINISTERI, CHE RENDERANNO CRONICO IL SOTTOFINANZIAMENTO DI SERVIZI ESSENZIALI
Questa è forse la manovra che meglio esprime la visione che Giorgia Meloni ha dell’economia e della società. Si tratta di una visione datata, incompatibile con le possibilità che il paese riprenda la via della crescita e dell’innovazione, o con le grandi sfide che abbiamo davanti, e pure insostenibile nel tempo; e che rivela parecchia improvvisazione, spacciata per decisionismo.
Circa metà dei 30 miliardi previsti serve a rendere strutturali il taglio del cuneo fiscale (a beneficio soprattutto dei dipendenti fino a 40mila euro) e l’accorpamento della terza e della quarta aliquota dell’Irpef (che rimarrà al 23% fino a 28mila euro, con una riduzione di due punti per la fascia da 15mila a 28mila euro).
Tutto questo però c’era già, viene solo reso (forse) permanente: per i cittadini, non cambia assolutamente nulla.
A parte l’incremento del deficit, i fondi necessari arrivano da quattro canali diversi: il contributo chiesto a banche e assicurazioni (3,5 miliardi), una ulteriore spending review per i ministeri (3 miliardi) e anche per gli enti locali (un miliardo), la delega fiscale e il riordino delle detrazioni (6 miliardi), gli esiti del concordato fiscale (1 o 2 miliardi?).
Si pongono però diversi problemi.
Primo: le entrate del concordato e il contributo a banche e assicurazioni sono temporanei, per definizione, non riusciranno quindi a finanziare le riduzioni fiscali previste dalla manovra, che saranno invece strutturali: l’anno prossimo che si fa? Si torna punto e a capo.
Secondo, il concordato per l’ennesima volta non farà che incentivare l’evasione, premiando i più furbi o i più disonesti, il contrario cioè di quello che dovrebbe fare un paese avanzato, o anche soltanto civile. Anche la telenovela del contributo a banche e assicurazioni, mista di atteggiamento punitivo e negoziazioni sottobanco, è indicativa di un modo di procedere un po’ anomalo per un moderno stato di diritto, che dovrebbe fissare dei criteri trasparenti e uguali per tutti.
Terzo, la stretta ai ministeri, quella sì strutturale: si aggiunge ai circa 9 miliardi già previsti dalle ultime due manovre e viene imposta frettolosamente, di fatto con tagli lineari (del 5 per cento), che renderanno ancora più cronico il problema del sottofinanziamento in Italia di servizi fondamentali – per l’economia, il benessere, i diritti – dall’istruzione e ricerca alle infrastrutture, all’ambiente, al welfare.
Fa eccezione l’aumento della spesa sanitaria, che però servirà a mantenerla appena stazionaria in rapporto al Pil (6,4 per cento) nel 2025, dopo il calo dei due anni precedenti, non certo a farle raggiungere i livelli medi Ocse o dell’Unione europa (oltre il 7 per cento).
Quarto, quel che passa come riordino delle detrazioni è, in realtà, un aumento delle tasse: a conti fatti, per i cittadini la pressione fiscale aumenterà, dato che (invece) i tagli fiscali c’erano già. Il contrario di quel che dice il governo.
Quinto, come un macigno: dov’è la politica industriale? Dov’è l’idea di sviluppo? Scomparse o, peggio, azzoppate: ad esempio viene abolito l’incentivo alla crescita economica delle imprese, mentre Industria 5.0 si è arenata nelle secche della burocrazia.
Qual è quindi la visione economica di Meloni? È un liberismo fiscale opportunistico, volto a mantenere lo status quo, corredato di misure propagandistiche e negoziazioni particolari; la cui contropartita è l’indebolimento dell’etica pubblica, della capacità di programmare e investire e dei pilastri fondamentali di ogni paese avanzato.
(da Domani)
Leave a Reply