LETTA RESTA MA DEVE CAMBIARE I MINISTRI. E ALFANO PIAZZA LA TRAPPOLA
IL PRIMO VEDE LA POSSIBILITA’ DI RESTARE AL GOVERNO, IL SECONDO LA CERTEZZA DI MORIRE SOTTO SILVIO E MINACCIA: “GLI BOCCIAMO TUTTO IN SENATO”
Due ore passate a telefonare e l’altro, ingrato, a non rispondere. Così ha passato le due ore e mezza dell’incontro del Nazareno Enrico Letta: a premere sull’icona “Matteo Renzi” sul suo cellulare e a sentire gli squilli a vuoto dall’altra parte.
Quando tutto è finito nella sede del Pd — e forse è la parte meno commendevole della vicenda — ad informarlo di com’era andato l’incontro tra il segretario del suo partito e il Cavaliere è stato suo zio Gianni.
L’esito, però, non è spiaciuto all’inquilino di palazzo Chigi: ha finalmente capito che — nonostante faccia un gioco pericoloso — il sindaco di Firenze non vuole il voto, ma avere provvedimenti spot da spendersi in campagna elettorale.
Tradotto: lui può rimanere a palazzo Chigi fino al 2015 e presiedere il semestre di presidenza italiana dell’Ue, opportunità che lo riempie di pura gioia.
Per questo, in serata, il suo staff lascia filtrare alle agenzie una dichiarazione finalmente rilassata: “L’incontro di oggi pare andare in una buona direzione. Siamo infatti da sempre convinti della necessità di una riforma costituzionale e della legge elettorale che tenga insieme le forze della maggioranza e i principali partiti dell’opposizione”.
Basta? Macchè. Va benissimo che si proceda in tutta fretta, fa dire Letta ai suoi: “Crediamo sia fondamentale che già prima delle elezioni europee si arrivi ad avere la nuova legge elettorale e le prime due letture della riforma costituzionale sul titolo V e sulla fine del bicameralismo paritario”.
Il giovane Letta, insomma, vede la possibilità di restare a palazzo Chigi e torna a sorridere, seppure a fatica.
Se andrà così, però, dovrà occuparsi quanto prima di una faccenda assai spinosa: il rimpasto.
Lo stesso Renzi avrebbe accennato alla questione in questi giorni negli incontri con le delegazioni dei partiti di maggioranza: se l’esecutivo resta in piedi qualche ministero di peso deve tornare sotto l’egida del Pd, che rappresenta quasi i tre quarti delle forze parlamentari che sostengono Letta.
I nomi sono quelli già circolati in queste settimane: non Fabrizio Saccomanni, come ha promesso lo stesso Renzi a Giorgio Napolitano nel loro incontro di lunedì, ma tutti gli altri sono in ballo. Enrico Giovannini, Nunzia Di Girolamo, Annamaria Cancellieri, una delle due poltrone dello stesso Angelino Alfano (vicepremier e ministro dell’Interno), Maurizio Lupi e pure Flavio Zanonato, che è del Pd ma non certo renziano.
La procedura è già iniziata e le regole della casa — fissate dal segretario del Pd — prevedono che sia lo stesso presidente del Consiglio ad intestarsi tutta la partita.
A controllare per Renzi ci penserà Graziano Delrio.
Tutto deciso, tutto scritto, dunque? Nient’affatto.
Le variabili impazzite, a questo punto, sono addirittura due: la minoranza del Pd e il Nuovo centrodestra.
Ieri Alfano — davanti a milletrecento giovani di Ncd — ha fatto l’orgoglioso: “Senza di noi il vecchio centrodestra è solo il Terzo Polo”. Di più: “Si scordino di fare la legge elettorale senza di noi, si scordino di farla contro di noi”.
E ancora: “È inutile pensare di ricondurci all’ovile per legge. Per noi la scelta è fatta”. Il vicepremier vuole una legge che preveda “coalizioni e non il bipartitismo” e “l’indicazione del premier prima del voto”.
Non esattamente il modello su cui Renzi e Berlusconi sembrano aver convenuto: il riparto nazionale dei seggi consente ad Alfano e ai suoi di non morire, ma niente di più; le liste bloccate rendono inutili la folla di amministratori e signori delle preferenze imbarcati al momento della scissione.
Insomma, il loro “progetto egemonico” sull’elettorato di Berlusconi — da realizzarsi grazie alla Santa Alleanza con i neoDc ex montiani — tramonta prima di nascere.
E qui la reazione del Nuovo centrodestra è davvero pericolosa per Matteo Renzi.
Una traccia di come sarà ? Nelle parole di Pino Pisicchio, parlamentare di lungo corso eletto col centrosinistra: “Ora si scopre che le riforme sono, tutte, dietro l’angolo. Peccato che resti ancora il dettaglio del confronto parlamentare”.
E lì il frettoloso segretario del Pd avrà i suoi problemi: “Noi non facciamo cadere il governo, ma Renzi non avrà niente”, spiega una fonte.
Perchè? Semplice: in Senato non ha i numeri per fare quello che promette, dall’abolizione della Camera alta in giù.
Senza Ncd, Scelta civica e democristiani, Pd e Forza Italia a palazzo Madama hanno 168 voti. Sufficienti, per carità , ma non se Renzi si perde per strada la minoranza interna, che nei gruppi parlamentari non è affatto minoranza: bastano una decina di defezioni per andare sotto e non avere più i numeri per fare niente.
“A quel punto — prosegue il nostro alfaniano — sarà lui a far cadere il governo e potremo almeno andare a votare col proporzionale e le preferenze, come stabilito dalla Consulta”.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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