LO STORICO FRANCO CARDINI: SI CHIAMA “TERRORISMO” MA LA STORIA DIMOSTRA CHE SPESSO E’ L’UNICO MODO, SEPPUR CRUDELE, DI CHI SI TROVA INERME DI FRONTE A VIOLENZA E ARROGANZA DI POTERI CINICI
DAGLI ZELOTI A GAZA
“C’avete fatto caso…”, amava ripetere l’indimenticabile Aldo Fabrizi inaugurando uno dei suoi soliti esilaranti tormentoni.
Ch’erano fondati sul fatto obiettivo che spesso ci càpita di usare parole e/o cose che paiono semplici e comprensibili a tutti quando poi, se ci fermiamo ad analizzarle, ci accorgiamo subito di quanto sono ardue a essere usate e difficili a venir comprese.
Prendete il terrorismo. Tutti sono convinti di sapere che cos’è e si servono di quel concetto, anzi di quella parola, con disarmante disinvoltura: salvo poi incartarsi nelle sue numerose accezioni e perdersi nei meandri generati dal suo abuso.
È evidente che “terrorismo” deriva da “terrore”: e il suffisso “-ismo” indica, come si sa, un concetto politico-ideologico. Dalla libertà, dalla socialità, dal clero e così via derivano come noto i termini “liberismo” (o “liberalismo”), “socialismo”, “clericalismo” e così via, che indicano una sclerosi e un abuso: e chi è adepto di certi princìpi si definisce con il suffisso “-ista”. Poiché le ideologie nascono tutte attorno al XVIII-XIX secolo, c’è da ritenere (e difatti è così) che in quel periodo si svilupparono correnti di pensiero che ponevano l’incutere il terrore e lo sfruttarne gli effetti al centro della loro riflessione concettuale e della loro prassi nell’intento di ricavarne vantaggi sul piano della politica e dell’organizzazione del consenso.
A livello propriamente storico, la cosa è chiara e il termine rigorosamente codificato. Passarono sotto il nome di “Terrore” sia il periodo della Rivoluzione francese, sia la forma di governo che durante esso prese forma, compresi fra il 31 maggio 1793 (espulsione violenta dei membri del partito girondino dall’organo legislativo della Convenzione), al 9 termidoro, cioè al 27 luglio del 1794 (caduta della dittatura di Robespierre): e “terroristi” vennero definiti tutti gli uomini politici che condivisero in quei 14 mesi il potere nella Repubblica, in un tempo nel quale gli arresti e le condanne alla ghigliottina erano quotidiana arma di governo. Vi furono poi altri periodi caratterizzati da analogo, allucinante clima, di segno politico magari differente: si disse così “Terrore bianco” il regime imposto per breve tempo dai monarchici nel 1815, dopo i “Cento Giorni” di Napoleone. Da allora s’impose l’uso di definire “Terrore”, e più propriamente “Terrore di Stato”, qualunque tipo di governo caratterizzato da metodi arbitrari e tirannici e teso a ottenere con la forza e l’intimidazione l’obbedienza dei cittadini.
Questa casistica politica non esaurisce però il ventaglio concettuale dei casi e dei momenti nei quali uno stato generalizzato di ansia e di timore diffuso caratterizza una fase storica. In realtà, fin dai tempi più antichi sono stati registrati periodi nei quali una o più fazioni politiche si sono servite in modo estremo e sistematico di forme di violenza sistematicamente tese a mettere a tacere gli avversari e a dissuadere con la minaccia o con l’azione esplicita chi in qualche modo intenda intralciarle oppure opporre loro resistenza. I centri dai quali prendono avvio queste prassi terroristiche possono addirittura restare nascosti e venire alimentati da vere e proprie forme di “ideologia della segretezza”, sostenute magari da una sacralità artificiosa che in qualche modo si rifà a tradizioni liturgiche e consuetudini cultuali. I metodi di questi gruppi possono giungere al sistematico cinismo consistente nel colpire soggetti deboli e innocenti allo scopo di seminare il panico nelle società civile. In questi casi la prassi terroristica dell’intimidazione e del crimine selettivo compiuto a scopo dimostrativo s’incontra e s’intreccia con la segretezza nell’intento di creare un clima di continuo pericolo e d’incertezza diffusa a proposito delle sue intenzioni. Nell’antica Roma era comune il timore causato dai sicarii, vale a dire dai criminali armati di sica (un pugnale ricurvo d’origine trace) che uccidevano su commissione e i cui mandanti restavano anonimi. Nella Giudea occupata a partire dal I secolo a. C. divennero tristemente famosi gli “zeloti” (dal termine greco zélos, “impegno”, “emulazione”), adepti rigorosi di un’associazione politica e religiosa tesa a tutelare con estrema attenzione i minimi particolari del culto.
Quelli che oggi chiamiamo terroristi – parola ormai purtroppo familiare – erano nei tempi andati dei delinquenti, dei criminali a pagamento, dei sicari, quelli che la patristica cristiana definiva destructores oppure effractores, dei “masnadieri” secondo il lessico feudale, “teppa” da un termine milanese del primo Ottocento; così i “bravi” d’origine spagnola e di manzoniana memoria. Ma almeno dal XII secolo ricevettero in Europa il nome di “assassini” derivato da quello di una setta musulmano-sciita della quale parla anche Marco Polo: erano i seguaci di un misterioso signore persiano, Hasan ibn as-Sabbah detto “il Vecchio della Montagna”, che usava far uccidere a tradimento i nemici suoi o dei suoi alleati e/o clienti inviando contro di loro i suoi adepti precedentemente drogati col fumo dello hashish, la cannabis indica. E dallo hashish, appunto, questi fanatici pugnalatori assunsero il nome di “assassini”. Nel nostro linguaggio ordinario, il terrorista è, appunto, un assassino
politicamente motivato e di solito militarmente se non “religiosamente” inquadrato.
Di “terrorismo” nazionale o internazionale si parlò molto tra XIX e XX secolo, generalmente associandolo ai gruppi anarchici che compivano attentati di solito contro capi di governo o membri di dinastie regali. Al terrorismo si dettero con frequenza, nella Russia zarista, cellule nate soprattutto all’ombra del movimento bolscevico: che una volta al potere utilizzò tale prassi per consolidarlo Si usò collegare quindi l’azione terroristica alle formazioni estremistiche “di destra” e/o “di sinistra”: e la condanna come terroristici s’indirizzò specialmente contro gruppi politico-religiosi e perfino contro governi musulmani con crescente frequenza a partire dall’ultimo ventennio del secolo scorso, mentre nell’Italia degli “Anni di Piombo” si elaborò specie nel periodo 1977-1984 un insieme di norme repressive vòlte a combattere la crescita dilagante (vera o supposta) di organizzazioni politiche clandestine. In tale contesto si parlò molto, a livello politico-diplomatico internazionale, del “terrorismo di Stato” dei cosiddetti “Stati-canaglia”: ma non mancarono repliche destinate a ritorcere tali accuse respingendole ai mittenti.
In effetti, di fronte all’arroganza di certi poteri e alla prassi terroristica “di Stato” formalmente legale ancorché segreta dedita alla repressione politica, abbiamo veduto svilupparsi in tutto il mondo, specie negli ultimi decenni, un “terrorismo politico” ch’era e in alcuni casi resta ancora l’unica arma difensiva a disposizione di ambienti sistematicamente perseguitati e demonizzati. La Resistenza nel biennio 1943-45 ha costituito un modello di uso “terroristico” dell’unica arma e dell’unico metodo, senza dubbio spesso spietato e crudele, a disposizione di chi si trova altrimenti inerme di fronte alla
violenza e all’arroganza di poteri costituiti che esercitano con cinica sistematicità la loro forza imponendo a loro volta, appunto, il terrore e pretendendo di agire nel nome della legalità o quanto meno della legittimità. Il ventre che ha partorito questo mostro è ancora fecondo e sempre gravido: lo dimostra il macello di Gaza.
Franco Cardini
ilfattoquotidiano.it
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