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LO STATO VENDUTO A PEZZI, IL GOVERNO SI VENDE L’ARGENTERIA

SI PUNTA A PRIVATIZZAZIONI PER RACCOGLIERE 20 MILIARDI TRA INTERESSI INDUSTRIALI E OSTACOLI DI MERCATO

Tosare i pensionati e vendere i gioielli di famiglia restano le due strade maestre della politica di bilancio anche per la terza Finanziaria, come si chiamava un tempo, firmata Giorgia Meloni.
A questo giro, per non infierire troppo sui lavoratori a riposo, l’accento del governo grava sulle privatizzazioni, programmate in tre anni per portare in cassa 20 miliardi di euro e scendere sotto il 3 per cento nel rapporto deficit-prodotto interno lordo e, soprattutto, rassicurare i mercati internazionali e le agenzie di rating che non premiano i proclami. All’apparenza tornano i ruggenti anni Novanta, quando un rampante direttore generale del ministero del Tesoro di nome Mario Draghi girava ai privati i pezzi pregiati delle partecipazioni statali. Da allora quel che resta delle aziende pubbliche è andato in ordine sparso, a volte bene (Eni, Poste, Enel), a volte male (Alitalia, Mps, Tim), a volte così così (Ferrovie).
Le cessioni prossime venture sono però diverse da quelle del 1991-2001. Il governo annuncia di volere restare ai comandi e monetizzare senza fare danni e lo fa in particolare attraverso i due leghisti che, caso curioso visto il peso elettorale in flessione continua, sono al centro di un processo delicato: il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, cioè l’azionista, e il ministro delle Infrastrutture e vicepremier Matteo Salvini. Il piano triennale per i 20 miliardi è fermo a scarsi tre sommando le operazioni di Eni e Mps. Anche se in queste settimane si registra una accelerazione definitiva su Poste, il governo è consapevole che i 20 miliardi sono, al massimo, un traguardo suggestivo.
Il cartello di vendita affisso un po’ ovunque è un messaggio urbi et orbi a possibili partner finanziari. Preferibilmente fondi sovrani che, nella vulgata, sarebbero meno avidi di rapidi ritorni sugli investimenti. Purtroppo il socio che compra e tace è animale raro. In casi come Mps e Ita Airways non è neanche proponibile perché serve un partner industriale. E alcuni dei diamanti, veri o immaginari, non sono così facili da vendere. Per adesso, a parte l’opposizione dei sindacati, c’è la gara a garantire che nessun settore strategico sfuggirà al potere pubblico. È davvero così? L’Espresso ha fatto una ricognizione tra illusioni e verità delle privatizzazioni in formato terzo millennio.
Non ha tirato il freno di emergenza, ma l’effetto è quello. Stefano Antonio Donnarumma, amministratore delegato del gruppo Ferrovie dello Stato dalla fine di giugno, si è trovato sul tavolo un progetto di privatizzazione ereditato dal suo predecessore Luigi Ferraris, già “collocatore” di pezzi di Enel e Poste sul mercato borsistico. Anche per le Ferrovie l’idea girava intorno a una quotazione, possibile e appetibile per la sola Trenitalia, anzi, per la sola parte redditizia di Trenitalia, le Frecce dell’alta velocità. Al tempo, ha detto Donnarumma. Il nuovo ad vuole prima smontare il modello cervellotico dei poli organizzato dai passati dirigenti e non intende pronunciarsi prima del prossimo anno su un progetto che vede realizzabile da qui a un biennio. In totale, è un intervallo di circa trenta mesi dalla sua nomina che dura un triennio, salvo rinnovi e che arriverà alla scadenza poco mesi prima della fine naturale della diciannovesima legislatura. In altre parole, per le Fs ci sono altre emergenze legate al core business, che consisterebbe nello spostare passeggeri senza troppi ritardi e incidenti.
Il quadro è complicato da una rete di partecipazioni di minoranza, come quelle in Ferrovie Nord Milano, che riguardano il trasporto pubblico locale e l’ipotesi di ammettere il nuovo socio privato a livello di holding si scontra con l’evidenza dei numeri. Nell’ultimo bilancio la capogruppo ha chiuso con 100 milioni di utile netto a fronte di quasi 15 miliardi di euro di ricavi (0,66 per cento). Difficile trovare qualcuno interessato a un rapporto dello 0,66 per cento.
Parlando di redditività Eni ha ricavato 94 miliardi con profitti di 8 miliardi. Enel, che lo Stato non ha messo nella lista delle cessioni, ha fatturato 95,6 miliardi con utili netti per 6,5 miliardi. L’ex ente petrolifero, oltre ai dividendi, ha reso alle casse pubbliche 1,4 miliardi di euro dalla sua privatizzazione mirata alla raccolta triennale lanciata dal Tesoro. Dai binari al volo, la connessione è naturale. L’espansione di traffico aereo ha rimesso in campo la privatizzazione degli aeroporti ancora controllati dagli enti locali, a dimostrazione che il sistema del compro-oro non è affatto esclusiva del governo centrale, anche se a spingere per le vendite è proprio il ministro del Made in Italy Adolfo Urso. Con la frenata della pandemia alle spalle, le ultime statistiche Assaeroporti disponibili (luglio 2024) segnalano passeggeri in crescita del 10,7 per cento a quota 23,4 milioni. Sono oltre due milioni in più del 2023 e quasi tre in più del 2019. A guidare la lista dei privatizzatori ci sono le due isole maggiori, sempre più ricercate come mete turistiche. In Sicilia, la telenovela di Catania dura da un paio di decenni. Di recente, il senatore meloniano Salvo Pogliese è tornato a spingere per la vendita di Fontanarossa, che ha ritrovato la piena operatività dopo l’incendio dell’estate scorsa. Per la privatizzazione di Palermo Punta Raisi, insieme con il presidente regionale Renato Schifani, si è speso un Totò Cuffaro al rientro in politica. L’ex presidente regionale ha sostenuto la scelta di Vito Riggio, ex numero uno dell’Enac, di dimettersi da ad della società di gestione Gesap a fine giugno in mancanza di un progetto concreto di cessione.
Sembra andare in direzione contraria la presidente della Sardegna, Alessandra Todde, eletta a marzo. Todde ha frenato sulla cessione-integrazione dei tre aeroporti sardi che per la sola aerostazione di Cagliari Elmas vale 400 milioni di euro con il fondo 2i aeroporti (F2i e Ardian) che gestisce Alghero e Olbia, oltre a partecipare negli hub della Sea (Milano) e a controllare Napoli. Contro l’operazione sugli aeroporti sardi si è schierata una strana coppia formata da Cgil e Lega locale.
In continente rimane ancora bloccata la questione del Cristoforo Colombo di Genova che, invece di proseguire sulla privatizzazione, ha visto di uscire di scena il socio di minoranza Adr e il cda che voleva aprire le porte al gruppo Msc di Gianluigi Aponte. Saranno le elezioni regionali e comunali a decidere il destino dell’unico scalo ligure.
Il buon vento nel settore ha facilitato i risultati per Ita Airways, nata dalle spoglie di Alitalia con un’iniezione pubblica di 1,35 miliardi di euro e un carico di 3.500 dipendenti alleggerito di altri 3.500 messi in cassa integrazione. Al 31 dicembre 2023 il numero degli occupati è salito a 4.400. Lo svezzamento di Ita Airways s’è svolto con tre governi diversi. Il varo formale è avvenuto nel pieno della pandemia sotto il governo giallorosa di Giuseppe Conte II, con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Il lancio sul mercato e la ricerca degli acquirenti, invece, li ha curati il governo di Mario Draghi, con Daniele Franco ministro. All’amministratore delegato Fabio Lazzerini, espressione di una maggioranza di centrosinistra, Palazzo Chigi aveva affiancato come presidente esecutivo Alfredo Altavilla, ex uomo Fiat e ombra di Sergio Marchionne. La ricetta Draghi non ha funzionato. Lazzerini e Altavilla hanno salutato. Oggi al vertice c’è Antonino Turicchi, dirigente del Tesoro. Ita Airways e il governo hanno cincischiato a lungo con le trattative preliminari per cedere subito la nuova compagnia aerea su diktat dell’Unione Europea. Lo scorso luglio, dopo sette mesi di negoziato, il Tesoro ha ceduto a Lufthansa il 41 per cento di Ita per 325 milioni di euro e dunque la compagnia è stata valutata circa 800 milioni. Questo accordo ha avviato il processo di vendita che avrà, al solito, scadenze variabili. Però lo scenario è mutato perché Ita è decollata: i tedeschi sentono l’urgenza di finalizzare, il governo italiano no. Per quest’anno sono previsti oltre 4 miliardi di fatturato con un margine operativo lordo di 300 milioni di euro. La rinascita di Ita somiglia a quella del Monte dei Paschi di Siena. Lì il Tesoro ha versato 1,6 miliardi e ne ha ripresi 1,570 in due rate, ma deve liberarsi ancora del 26,6 col titolo che vale 6,2 miliardi.
Al momento l’aiuto più consistente per la raccolta dei 20 miliardi è in arrivo dal gruppo Poste, quotata durante il governo di Matteo Renzi, con Piercarlo Padoan ministro. Lo sbarco a Piazza Affari portò nella casse del Tesoro circa 3,36 miliardi di euro, il corrispettivo del 35 per cento su una capitalizzazione iniziale di 8,8 miliardi di euro. Nel frattempo Poste è cresciuta e si è evoluta diversificando i suoi servizi logistici e finanziari, ma restando l’azienda più prossima ai cittadini con 13.000 sportelli e decine di migliaia di portalettere. La coppia inscindibile formata dall’ad Matteo Del Fante e dal condirettore generale Giuseppe Lasco è giunta al terzo mandato di fila ed è riuscita a garantire dividendi allo Stato e costanti rialzi in Borsa per una capitalizzazione di 16,1 miliardi di euro. Per questo motivo il governo ha proceduto con cautela prima di scegliere la procedura migliore che consentisse di conservare il 50 per cento più decimali della holding. Oggi lo Stato controlla Poste con il 35 per cento di Cdp più il 29,4 del Tesoro e la governance è del ministero. Sarà il Mef a rilasciare sul mercato circa la metà della sua quota, un 15 per cento che potrebbe fruttare 2,5 miliardi di euro. L’operazione di offerta pubblica sarà aperta ai risparmiatori e ai dipendenti per un terzo del 15 per cento. Il resto è per gli investitori istituzionali. Il Tesoro prende oggi da Poste una parte di quello che poteva incassare domani, considerate le eccellenti prestazioni finanziare. Nel caso della vecchia Telecom, invece, il governo ha rinunciato a tutto. In luglio c’è stato il tanto agognato scorporo della rete telefonica. Il gruppo Tim – primo azionista Vivendi col 23,75 per cento, secondo azionista Cassa depositi e prestiti col 9,81 per cento – ha venduto al fondo americano Kkr in cordata con un fondo pensionistico canadese, un fondo sovrano emiratino, il fondo infrastrutturale italiano F2i, il ministero del Tesoro. Gli americani di Kkr, come rivelato qualche mese fa da L’Espresso, sono diventati primi azionisti della rete telefonica italiana che ha assorbito la fibra ottica di Fibercop investendo in totale 4 miliardi di euro, mentre lo Stato ne ha messi 1,6 per rimanere, e non poteva esimersi, in minoranza. Le perizie tecniche dicono che la newco della rete telefonica, che avrà Tim come primo cliente per 15 anni con 2 miliardi all’anno di spese, dopo una prima fase di investimenti per convertire la rete in rame, si ritroverà con un fatturato stabile sui 4,5 miliardi e un margine operativo lordo tra il 46 e il 61 per cento. Un affare per Kkr. Il gruppo Tim si è privato del suo patrimonio storico per ridurre il debito. Oggi la società dell’ad Pietro Labriola, che capitalizza 5,3 miliardi di euro e ha abbattuto il debito netto da 21,5 miliardi a 8,1, ha concentrato le sue attività in Brasile e sul mobile in Italia. Dopo aver venduto in estate le quote residue delle torri Inwit per 250 milioni di euro, per centrare il difficile obiettivo dei 7,5 miliardi di debito a dicembre, Tim punta a ottenere parecchio dalla cessione allo Stato di Sparkle, la società che gestisce 600.000 km di cavi sottomarini che solcano il mar Mediterraneo, l’Oceano Indiano, l’Oceano Atlantico e sui quali scorre gran parte del traffico internet di Israele. Il peso di Sparkle, è intuitivo, esorbita dal conto economico e dai ricavi che si attestano a circa un miliardo di euro (di cui 170 milioni da Tim). Tim vorrebbe più dei 750 milioni di euro già rifiutati, proprio per le sue esigenze di debito. Certo non condizionerà il Tesoro e Asterion che non offriranno neanche un euro in più, semmai in meno.
(da lespresso.it)

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