MAFIA, QUANDO L’UOMO DEI GRAVIANO BUSSO’ A BERLUSCONI: L’OMBRA DEL RICATTO A NOME DELLA CUPOLA
BAIARDO VIDE NEL 2011 PAOLO BERLUSCONI, IL FRATELLO DELL’ALLORA PREMIER… LA STRATEGIA RICATTATORIA DEI FRATELLI-BOSS
Undici anni fa, mentre Silvio Berlusconi guidava il suo quarto governo e il boss Giuseppe Graviano si affacciava nelle aule dei processi per le stragi, e lanciava messaggi ad alcuni politici con i quali avrebbe avuto contatti facendo mezze dichiarazioni davanti ai giudici, c’era un suo favoreggiatore, il gelataio Salvatore Baiardo, che provava a bussare alla porta del premier in carica. Il presidente del Consiglio non avrebbe risposto, ma a dare udienza a Baiardo è stato un altro Berlusconi, Paolo, il fratello minore dell’allora capo del governo.È una storia su cui indaga, da due anni, la procura antimafia di Firenze. Perché Baiardo voleva parlare con Silvio Berlusconi? Si può sospettare che l’uomo di fiducia dei Graviano volesse ricattare il premier?
La spiegazione che non convince
Di questi fatti, Salvatore Baiardo non ha mai fatto cenno pubblicamente durante le sue lunghe interviste, in cui tuttavia non si è privato dell’opportunità di lanciare messaggi, forse per sollecitare il pagamento di vecchie cambiali riposte nel cassetto dei segreti dei mafiosi siciliani, in particolare dei fratelli Graviano.
Ai pm di questo incontro Baiardo fornisce una spiegazione che contrasta con quello che gli inquirenti hanno trovato indagando su questa storia. Il gelataio afferma che era andato a chiedere un posto di lavoro, ma le cose – ricostruite attraverso testimoni – sarebbero andate diversamente. E non sono bastati i quattro interrogatori cui Baiardo è stato sottoposto dai pm di Firenze, l’ultimo alcuni mesi fa. Su questo punto però tace anche Paolo Berlusconi, il quale – chiamato dai magistrati di Firenze – si è avvalso della facoltà di non rispondere perché familiare di un indagato.
Un avvelenatore di pozzi
Baiardo, che ha sulle spalle condanne per il favoreggiamento dei boss stragisti e anche per falso e calunnia, vuole riannodare i fili che i mafiosi di Brancaccio avevano intrecciato tra gli anni Ottanta e Novanta fra Palermo e Milano. Affari e scambi di favori. L’uomo sembra essere a conoscenza di fatti importanti, vissuti in prima persona, ma non avvia alcuna seria collaborazione con la giustizia. Appare, invece, come un avvelenatore di pozzi. È una partita che si gioca fra chi sta in carcere al 41 bis e chi sta fuori dal carcere, e il mediatore è sempre lui, Baiardo. Ma per riannodare i fili di questa storia nuova e inedita, che mette davanti Berlusconi e la mafia, è bene andare con ordine.
“Cose dette per screditare mio fratello”
I procuratori aggiunti della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono a verbale il 24 luglio 2020 un poliziotto, Domenico Giancame, che undici anni fa era in servizio alla Questura di Milano, nel reparto scorte. L’agente faceva parte del dispositivo di tutela assegnato a Paolo Berlusconi, e rispondendo alle domande dei magistrati, ricorda che nel 2011 il fratello del premier incontrò, a Milano, Salvatore Baiardo. Al poliziotto viene mostrata anche una foto del favoreggiatore di Graviano e senza alcun dubbio lo riconosce come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi. Alla fine della conversazione, che avviene in via Negri, il fratello del premier chiama Giancame e gli dice: “Mimmo (Domenico Giancame, ndr), tu sei testimone: questa persona – indicando Baiardo – è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo”.
La testimonianza del secondo poliziotto
Giancame oggi è in servizio presso la presidenza del Consiglio. Chiamato a testimoniare dai pm, non ha alcun dubbio sulle parole che Paolo Berlusconi pronunciò e sul contesto in cui la conversazione avvenne. E ricorda bene il volto di Baiardo e i suoi movimenti quando si allontanò dal luogo dell’incontro.
I magistrati di Firenze, Tescaroli e Turco, titolari dell’inchiesta sui mandanti esterni delle stragi del 1993, in cui sono ancora indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, hanno sentito il 29 luglio 2020 pure un altro poliziotto, Salvatore Tassone, che era in servizio alla Questura di Milano, sempre nel reparto scorte. Anche lui, nel 2011, era nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi. Tassone ricorda di aver visto Baiardo, in via Santa Maria Segreta e in via Negri a Milano, e ricorda chechiedeva di parlare con Paolo Berlusconi “per questioni inerenti il fratello Silvio”. Sarà una coincidenza, ma nel frattempo nelle aule di giustizia, in quei primi mesi del 2011, Graviano “gioca” a dire e non dire sulla politica. E ai pm che gli chiedono dei suoi contatti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi risponde: “Sulla politica mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Dopo alcuni anni, però, la sua strategia cambia. Inizia a fare il nome del Cavaliere, e accusa i politici.
Le parole di Spatuzza
E nello stesso periodo vengono rilanciate in aula le rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, in particolare l’incontro del 1994 al bar Doney di Via Veneto, a Roma con Giuseppe Graviano il quale “aveva un atteggiamento gioioso, come chi ha vinto all’enalotto o ha avuto un figlio”. Spatuzza ricorda: “Ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo e questo grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa storia, che non erano come quei quattro “crasti” socialisti che avevano preso i voti alla fine degli anni Ottanta e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vengono fatti i nomi di due soggetti: di Berlusconi… Graviano mi disse che era quello di Canale 5, aggiungendo che di mezzo c’era un nostro compaesano, Dell’Utri. Grazie alla serietà di queste persone – riporta le parole di Graviano – ci avevano messo praticamente il Paese nelle mani”.
La strategia del boss: il ricatto
È questo, dunque, il Giuseppe Graviano “politico. Da quasi 27 anni, da quando è cominciata la sua detenzione, ogni uscita è conforme a una strategia precisa. Un ruolo che Graviano si è ritagliato con costanza nel corso del tempo. Le sue tattiche sono semplici, ma efficaci. Nega ogni coinvolgimento. Lancia minacce velate. Getta il seme del sospetto. Fa intuire che c’è sempre il rischio che apra lo scrigno dei suoi segreti. Come al tempo delle bombe, forse, Graviano non ha mai smesso di ricattare i suoi interlocutori politici.
Un tempo uccideva e terrorizzava con l’esplosivo. Adesso ha solo l’arma della parola. E quella del ricatto. Ma ha tutte le intenzioni di usarle fino in fondo. Già nel 1993 il suo obiettivo era cancellare il 41 bis, uno degli strumenti più efficaci per impedire ai boss di comunicare con l’esterno e continuare a dare ordini. La sfida che i boss hanno lanciato allo Stato tanti anni fa non è ancora finita. E la partita sembra non essere chiusa.
(da La Repubblica)
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