“MI HANNO ARRESTATO A MINSK DURANTE LA PROTESTA: COSI’ LUKASCHENKO SI STA SPARANDO NEI PIEDI”
INTERVISTA A PAUL HANSEN, VINCITORE DEL WORLD PRESS PHOTO
Sono giorni fondamentali per il futuro della Bielorussia. Le proteste continuano ma Lukashenko non allenta la presa. E ora arresta anche i giornalisti
Nel 2012 Paul Hansen ha vinto il World Press Photo, uno dei concorsi più prestigiosi di fotogiornalismo al mondo, con uno scatto del funerale di due bambini palestinesi
morti durante un attacco missilistico israeliano.
Negli ultimi giorni ha pubblicato la foto di un altro funerale: quello di Nikita Krivstov, un ragazzo di 28 anni arrestato mentre protestava in Bielorussia contro il regime di Lukashenko e trovato impiccato in una foresta dieci giorni dopo.
Volato dalla Svezia a Minsk per seguire le proteste, Hansen si è ritrovato in una cella dopo essere stato arrestato mentre assisteva all’ennesima manifestazione.
Il suo non è stato un caso isolato: l’ultima settimana è stata segnata da un numero crescente di giornalisti — sia stranieri sia locali — arrestati dalle forze di polizia, intimiditi e in molti casi allontanati dal Paese, per nascondere al mondo quello che sta accadendo e reprimere — definitivamente — le manifestazioni di dissenso. Raggiunto al telefono da Open dopo il suo rilascio, Hansen ci racconta la sua esperienza.
Come è avvenuto l’arresto?
«Mentre ero seduto in una piazza a intervistare due giovani donne ho visto avvicinarsi centinaia di manifestanti e, temendo che arrivasse la polizia, ho detto loro che sarei tornato in albergo. Come era prevedibile, però, sono arrivati i poliziotti, hanno circondato le persone che manifestavano e hanno iniziato a portarli via un po’ alla volta. Sono uscito dall’hotel per dare uno sguardo e dopo poco sono stato arrestato».
Cosa è successo dopo?
«Sono stato caricato su un furgone. Dentro c’erano altri due giornalisti. Siamo stati portati in una stazione di polizia dove c’erano altri 25 giornalisti circa, alcuni dei quali erano lì da qualche ora. In totale ci sono rimasto per circa cinque ore. I poliziotti a turno per interrogarci e ispezionavano i nostri cellulari, credo che lo scopo fosse quello di capire con chi eravamo stati in contatto. Tutti hanno rifiutato. La polizia ha minacciato di distruggere l’equipaggiamento di alcuni di loro. Ma a me non è successo».
Perchè no?
«Sono riuscito a prendere il mio telefono quando mi hanno spostato in un’altra stanza, e ho immediatamente mandato un messaggio all’agente di sicurezza del giornale che ha subito contattato l’ambasciata svedese. Sono riusciti ad organizzare il mio rilascio entro un’ora, anche se sono stato costretto a lasciare il Paese».
Sa cosa è successo agli altri giornalisti?
«Credo che quattro di loro — erano giornalisti locali — fossero ancora in prigione il giorno seguente, in attesa di andare a processo. È molto peggio per i giornalisti locali che devono restare e dovranno cercare di continuare a lavorare. E la loro possibilità di svolgere il proprio lavoro è stata notevolmente ridotta. È un modo palese del regime di Lukashenko di chiudere le orecchie e gli occhi al pubblico. Sono così colpito dal coraggio dei bielorussi».
Eppure, come abbiamo visto nelle ultime settimane, sono i cittadini stessi a documentare sui social media le proteste e gli abusi della polizia. Perchè accanirsi nei confronti dei media?
«Effettivamente il regime si sta sparando sui piedi. So che il ministro degli esteri svedese, uscito dalla riunione dell’Ue dove si stava discutendo delle sanzioni da applicare alla Bielorussia, ha persino citato il mio caso e in generale i limiti alla libertà di stampa. Quindi la strategia è chiaramente controproducente. Ma parliamo di un uomo [Lukashenko ndr] che nel giorno in cui il suo Paese ha registrato le più grandi proteste nella sua storia, è stato capace di scendere dall’elicottero con un Kalashnikov con a fianco il figlio — credo abbia 16 o 17 anni -, in tenuta militare. Non tutto quello che fa è comprensibile. Allo tempo stesso, condividere foto e video su Twitter è una cosa diversa dal giornalismo. La BBC, il Guardian, il New York Times e altre testate internazionali hanno un esigenze editoriali differenti».
Sono trascorse circa tre settimane dall’inizio delle proteste. Che clima si respira adesso a Minsk? La sua impressione è che stiano per finire o che continueranno?
«Quello che ho notato durante le proteste la scorsa settimana, quando c’erano circa 170mila persone che marciavano a Minsk, era che in strada c’erano molti giovani e persone anziane, ma non i lavoratori, che ovviamente hanno un ruolo fondamentale nell’economia del Paese e quindi possono giocare un ruolo strategico. All’inizio c’erano stati segnali incoraggianti in questo senso — ad esempio c’era stata una protesta in una fabbrica di trattori — ma d’allora ci sono stati pochi episodi del genere. Quello che accadrà domani sarà cruciale. Temo che se il popolo smetterà di scendere in strada, tutto finirà . Ma dopotutto vedo un parallelo con la rivoluzione arancione in Ucraina: c’è lo stesso tipo di energia».
Perchè crede che le donne abbiano svolto un ruolo così importante nelle proteste?
«Ovviamente il leader dell’opposizione è una donna, Tikhanovskaya. Le donne con cui ho parlato erano estremamente determinate. Sono stufe dell’acquiescenza della generazione dei propri genitori nei confronti del regime. In queste settimane sono scese a manifestare, vestite di bianco, impugnando fiori: sono quasi intoccabili. Dal punto di vista visivo, sarebbe molto brutto se la polizia le picchiasse o le arrestasse. La loro debolezza, così come è percepita dal patriarcato totalitario, in realtà è la loro più grande forza».
Ha intenzione di tornare in Bielorussia?
«Ufficialmente non potrò tornare per cinque anni. Quando sono stato rilasciato ho stretto la mano al commissario di polizia e l’ho guardato negli occhi e ho detto: “Ci vediamo tra cinque anni”. Stavo per aggiungere, “O anche prima”, ma poi mi sono tirato indietro. Ma ovviamente tornerò appena possibile. I media stranieri hanno un ruolo fondamentale: il fatto che il mio arresto e l’arresto dei miei colleghi siano stati immediatamente legati alle sanzioni contro il Paese è un segno che la libertà di stampa è ancora apprezzata, soprattutto nel mondo in cui viviamo, dove le fake news sono la testa d’ariete dei regimi totalitari».
(da Open)
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