MICHETTI, OCCHIO AL TRIBUNO FOLK NELL’ITALIA DEI PEGGIORI
LA SCELTA DEL CENTRODESTRA A ROMA E’ SEGNO DEI TEMPI, MA PARTE DAL 40%
Vasto programma “restituire a Roma l’orgoglio di Caput Mundi”. Perché Roma “era tutto”, Roma è Roma, come si dice nei bar, allo stadio, nello spazio eterno del luogo comune che si nutre del mito.
Già, il discreto fascino dell’Impero che è sempre piaciuto a una certa destra. Vuoi mettere: prima ancora che i treni arrivassero in orario, ai cittadini ci avevano pensato gli imperatori che “pensavano alle strade, ai punti, alle terme” mica come quei perditempo del superfluo come gli egizi che “costruivano piramidi”.
Se uno avesse gli occhi chiusi, penserebbe di assistere a un remake di SPQR, con un novello Massimo Boldi, intonacato come un imperatore, che si candida a sindaco. E invece è la conferenza stampa di presentazione del candidato sindaco del centrodestra.
Il folklore della romanità è il programma di Enrico Michetti, “folgorato” dall’incontro con la pro-sindaca Simonetta Matone, che invece qualche idea concreta di programma già la espone, e con “Matteo” e “Giorgia”, che si sente “civis romanus” come San Paolo, folgorato anch’esso sulla via di Damasco.
Candidato sindaco e prosindaco, come console e proconsole, ma che ama definirsi “tribuno”, il “massimo” che si può dire perché “rappresenta il popolo sacro e inviolabile”.
Ma Michetti non è estremista, nostalgico, missino, ce n’erano di più in giro nella giunta di Alemanno, non faceva a botte con i rossi nella Roma negli anni Settanta, non ha un passato di militanza.
E poi, “chi sono gli altri per giudicare?” dice Giorgia, già in modalità campagna elettorale se Paolo Gentiloni lo ha proposto come Cavaliere al merito per la Repubblica, e Mattarella, mica pizza e fichi, ce lo ha nominato.
È Cavaliere, avvocato, professore, certo a Cassino, non in quelle università dove incontravi Carnelutti e Cassese, ma insomma se scrive le sigle su una targa fa una certa scena, come fa mezza Italia, quelli che si sentono arrivati da qualche parte.
Come fai a darle torto, almeno su questo, nell’Italia populista dove al governo è andata gente che non ha letto un libro e il Parlamento è pieno di gente senza mestiere, e infatti è impossibile scioglierlo perché in parecchi non lo ritrovano.
Guardate che la questione è più complicata di quel che sembra, perché in giro di Petroselli e Argan non ce ne sono da nessuno parte, in fondo le stesse piazze che si affidarono ai tribuni pentastellati cinque anni fa avevano lo steso linguaggio delle radio romane di Michetti, culla del rifiuto della politica che è “tutta un magna magna” e dei partiti che pensano solo agli affari loro, a cui aggiungere, di questi tempi, un certo scetticismo su scienza, vaccini e tutto ciò che è ufficiale.
Insomma, questo per dire che il folklore non è detto che sia debolezza, magari non è neanche forza ma semplicemente il segno dei tempi – per una coalizione che parte dal 40 per cento e, a meno di clamorosi disastri, dovrebbe avere il ballottaggio in tasca. Perché, appunto, Roma è Roma, lo sanno anche loro.
La Meloni che qui si gioca la ghirba, le ambizioni, l’egemonia a destra, perché novella Caligola che ha sbattuto in pugni sul tavolo per imporre il suo cavallo, se perde, ha perso solo lei.
E infatti ha già fatto capire che ci metterà la faccia, fianco a fianco col candidato, casa per casa, porta a porta. E Salvini, che voleva candidare la pro-sindaca che Porta a Porta lo ha fatto da dieci anni, deve reggere la sfida a destra. E per questo ha precettato pure gli europarlamentari: “Candidatevi, correte e macinate voti”. Se tira uno e tira l’altro, tirano le liste con gran beneficio del candidato.
E poi attenzione al vento dei tempi, all’aria che tira, la stessa che ha incoronato reginetta di Madrid la Ayuso, in nome del diritto alla birretta che diventa più in generale diritto alla libertà, di uscire, muoversi, fare impresa, rifiuto delle regole.
Prima grande capitale ad essersi affidata nel post Covid al centrodestra, in un’Europa dove a Monaco, Berlino, Francoforte e pure Parigi, nonostante i socialisti francesi siano mal messi, governa ovunque la sinistra.
Rispetto alla destra romana, che non ha mai brillato per innovazione, cultura di governo, capacità di liberarsi dal passato, quello della Meloni è un esperimento che va oltre il ceto politico del suo partito (e questo contiene già un giudizio di valore), ma tecnicamente populista: della società civile, sceglie il più populista: il “tribuno folk”, non il classico rappresentante – Confindustria, Confcommercio, boiardo di Stato, imprenditore – riconducibile, nella sua narrazione, all’establishment.
Se la politica fosse solo arte di governo, non ci sarebbe storia, basterebbe leggere le schede di Calenda che ha già pronti i primi provvedimenti di giunta o quelle di Gualtieri, altro che chiacchiere sulla romanità.
Ma scagli la prima pietra chi non ha contribuito a quell’impoverimento della classe dirigente che ha portato alcuni studiosi a parlare di kakistocrazia, governo dei peggiori, dopo la fine dei partiti che, comunque la si veda, sono stati una grande fucina di classe dirigente.
L’ultima volta che ci siamo trovati a raccontare le amministrative, proprio il Pd ha vinto grazie a due tribuni, Emiliano e De Luca, con liste infarcite di tutto, ben oltre la destra e la sinistra. Hanno vinto, come governano è altro discorso.
(da “Huffingtonpost)
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