MUOIA SANSONE MA CHE FANNO I FILISTEI?
LO SMARRIMENTO DELLA DESTRA…. LE ANALOGIE TRA LA VITTORIA DI FINI AL PRIMO TURNO A ROMA NEL 1993 E QUELLA ATTUALE DI PISAPIA A MILANO…LA CERTIFICAZIONE DELLA DISPERAZIONE DI CHI METTE IN ATTO LA CACCIA ALLE STREGHE
Lo stato confusionale in cui è precipitato il centrodestra dopo la vittoria di Pisapia a Milano, ex Berluscoland, è del tutto comprensibile, così come l’afasia del Cavaliere.
Meno logico lo smarrimento della destra dentro e fuori al Pdl, perchè la destra un evento così lo ha già visto e dovrebbe essere capace di riconoscerlo. Successe nel ’93.
Allora l’outsider che stupì tutti con il successo al primo turno era Gianfranco Fini. E il potere che si sgretolò tra il primo e il secondo turno a Roma fu quello della Democrazia cristiana, assai più antico e radicato di quello del patron del Milan.
In molti hanno rimosso il fatto che il famoso endorsement berlusconiano in favore di Fini arrivò dopo la vittoria al primo turno, quando un Cavaliere sicuramente più giovane e intuitivo fiutò l’aria di disfacimento della Balena Bianca.
Le stesse, identiche accuse su cui oggi il Pdl imbastisce la sua campagna contro Pisapia — amico dei violenti e dei centri sociali, ex-estremista convertito al doppiopetto — erano all’epoca rivolte ai missini, giudicati dal sistema di potere del tutto impresentabili in un contesto democratico.
E lo stesso slogan che oggi i milanesi hanno visto su tutti i muri sopra al simbolo del Pdl (“Non lasciamo la nostra città in mano alla sinistra”) all’epoca impiastrava la Capitale, tale e quale ma rovesciato di segno: “Non lasciamo la nostra città in mano alla destra”.
Oggi come ieri, una strategia risibile e di retroguardia, che anzichè creare improbabili mobilitazioni contro i “nuovi barbari” certifica la disperazione di chi l’ha messa in atto.
E allora è davvero singolare che la destra non riconosca il dèjà vu che si sta dipanando sotto i suoi occhi.
Possibile che i La Russa, gli Alemanno, gli Storace, i Matteoli, i Ronchi, che quella stagione l’hanno vissuta da protagonisti, non ne annusino la simmetria con l’attuale?
Possibile che non vedano le analogie tra il crollo dell’impero democristiano e la rapidissima decadenza del berlusconismo?
Possibile che gli sfugga la nemesi del “fuori casta” Giuliano Pisapia arrivato a chiudere il ciclo dell’ex fuori casta Silvio Berlusconi?
Al di là degli esiti del ballottaggio, c’è una frana sociale e culturale mai evidente come adesso, che passa persino per gli ascolti televisivi, uno dei termometri più osservati in questi anni di videocrazia: il crollo del tg di Minzolini, lo scarso successo della striscia di Ferrara, il disastro del programma di Sgarbi ci dicono che il milieu berlusconiano ha smesso di essere attrattivo persino per l’elettorato che ancora segue il Cavaliere.
Non ascoltano, non guardano, non sentono?
Forse è vero, come ha scritto ieri Marco Tarchi sul Foglio, che il limite di Gianfranco Fini e dei finiani in questa fase è “non saper accoppiare la spregiudicatezza tattica e il senso dell’opportunità , che per un politico di professione sono doti importanti, alla sagacia strategica”.
Ma il resto della destra, quella che da mesi immagina una “fase due” del Cavaliere fondata a turno sul miraggio delle riforme economiche o del rilancio delle grandi opere, sui Responsabili o sulla riconquista del voto cattolico tramite il testamento biologico comincia a somigliare alle classi dirigenti scudocrociate che nei primi otto mesi del ’93 credevano di tenere insieme la baracca dando pieni poteri a Mino Martinazzoli, rilanciando la polemica anticomunista e alzando i toni contro i complotti della magistratura.
Insomma, il berlusconismo “muore democristiano” trascinando con sè chi avrebbe in teoria la sensibilità e gli anticorpi per capire ciò che sta accadendo, con due significative differenze rispetto al ’93.
La prima è che nè da Casalecchio di Reno nè da altri centri commerciali arriveranno endorsement “rivoluzionari” a suggerire possibili soluzioni alla crisi.
La seconda è che non si potrà rubricare questo finale di stagione sotto la voce del “golpe giudiziario”, come si è fatto venticinque anni fa azzerando l’analisi sul fallimento della Prima Repubblica in favore della sbrigativa lettura sulla “manovra dei pm”, visto che stavolta sono stati gli elettori a punire con un verdetto chiarissimo un sistema di potere orgogliosamente impermeabile ai cosiddetti attacchi della magistratura.
Così, a differenza che in passato, toccherà alla politica immaginare e costruire i nuovi scenari, ammesso che ne sia ancora capace dopo un ventennio di animazione sospesa.
Incrociamo le dita.
Flavia Perina
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