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PARTITI, FINO A 150.000 EURO PER UN SEGGIO: IL TARIFFARIO DELLA DEMOCRAZIA IN VENDITA

LE CHIAMANO “EROGAZIONI LIBERALI”, IN REALTA’ SONO OBBLIGATORI IN FORZA DI SCRITTURE PRIVATE E ATTI NOTARILI: SE VUOI CANDIDARTI DEVI PAGARE… BIANCONI: “SI TRATTA DI ESTORSIONE”

Con 150mila euro il Pd è quello che, a conti fatti, propone il seggio al prezzo più caro. Segue la Lega, che ai suoi candidati ne chiede 145mila, poi i Cinque Stelle, 114mila euro più quanto avanzato della diaria (che versano però allo Stato).
Forza Italia, ormai in declino, si accontenta di 70mila euro.
Ecco il “tariffario” della democrazia in Italia, dove dal 2008 —   complice il Porcellum e i listini bloccati — tutti i partiti impongono ai propri candidati ed eletti una tassa sullo scranno in Parlamento, nei consigli regionali e nei comuni.
Le chiamano “erogazioni liberali” ma di libero, in realtà , hanno ben poco: quei “contributi” sono tanto obbligati da fungere come condizione stessa della candidatura e della permanenza nelle Camere in forza di scritture private, atti notarili e contratti. Da corrispondere anche in comode rate.
Chi non sottoscrive l’impegno decade dalla lista. L’eletto che non versa viene deferito alle “commissioni di garanzia” e non ricandidato al prossimo giro, salvo conguaglio. Così i partiti, senza eccezioni, si vendono i seggi alla luce del sole, così li vincolano poi in forza di statuti, regolamenti finanziari e perfino di pretesi “codici etici”.
Un pratica che non fa scandalo e non tramonta mai. Tanto che già  si preparano i nuovi “contratti” in vista delle prossime amministrative.
Il commercio delle candidature passa sotto silenzio. Non come la famosa “multa” da 150mila euro con cui i Cinque Stelle pensano d’imporre ai propri eletti il vincolo di fedeltà  per arginare transfughi e dissenzienti.
Quel “patto di candidatura” che viene proposto — senza eccezioni — da quasi dieci anni a questa parte non è però migliore: si fonda sempre sulla preventiva sottoscrizione di obbligazioni patrimoniali della persona, con l’aggravante (semmai) di agire non sul vincolo di mandato quanto sull’accesso dei cittadini all’esercizio democratico dell’elezione.
“E’ una pratica estorsiva”, arriva a dire l’ex tesoriere del Pdl Maurizio Bianconi che all’ultima tornata delle politiche stracciò assegni e contratti in via dell’Umiltà .
Di sicuro è un veleno altrettanto fatale per la vita democratica che incrocia, non a caso, analoghi dubbi di incostituzionalità .
Ma mica per ragioni “alte”, come può essere l’insindacabilità  del mandato elettivo: per la pretesa dei partiti di esentare dal Fisco le “restituzioni” dei loro eletti.
Beneficio che, manco a dirlo, hanno prontamente concesso (a se stessi). Per legge.
PD
Il benefattore n. 1 del Pd è l’onorevole Giuditta Pini. Nel 2013, con i suoi 28 anni, ha contributo allo svecchiamento dei deputati dem.
L’anno dopo ha ricambiato la cortesia versando alle casse del Nazareno un assegno da 58mila euro, cifra che la proietta in cima alla lista dei contributi dem che, insieme, hanno versato quell’anno 7,5 milioni. Sempre di “erogazioni liberali” si tratta, secondo lo statuto e i tesorieri che si sono succeduti negli anni. Partiamo da qui perchè nella speciale “boutique della democrazia” il Pd è il partito che propone il seggio al prezzo più caro: 150mila euro.
Come funziona? Il candidato deve sottoscrivere due obbligazioni. Una tra 30 e 50mila euro in base alla posizione nel “listino” da corrispondere anche a rate entro il termine della legislatura.
I soldi andranno alle federazioni. Per un seggio sicuro, solitamente, il pagamento è anticipato. Poi ci sono 1.500 euro da versare alle casse del Nazareno ogni mese. In tutto, un seggio del Pd può costare 140-150mila euro.
Per ripagare la sua elezione la giovane Pini, dunque, si è portata avanti: nel 2014 ha ricevuto 98.471 euro di competenze parlamentari e più della metà  le ha “girate” al partito che gliel’ha permesso. Di tasca sua, per quello scranno, aveva sborsato 196 euro in “spese di propaganda”.
“Questo è il punto”, dice Antonio Misiani, tesoriere dal 2009 al 2013, che non vuol sentir parlare di “commercio delle candidature”. Con il Porcellum, sostiene, sono venute meno le preferenze e le campagne elettorali “vengono fatte solo dal partito, non dai singoli candidati. Per questo chiediamo loro di contribuire, come fanno gli altri partiti. E’ un impegno politico verso la comunità  di cui l’eletto fa parte”. Tuttavia tutti i partiti hanno ricevuto dallo Stato fior di rimborsi a refusione di quelle spese, in forma di cinque euro per ogni voto espresso dagli elettori.
L’ultima volta, a fine 2015, si sono concessi altri 10 milioni aggirando anche, con la famosa legge Boccadutri (Pd), il visto di regolarità  della Commissione di vigilanza.
LEGA NORD
Cambiamo partito, la Lega Nord. Il Porcellum l’han scritto loro, va da sè che siano i più esperti in materia di “tassa sul seggio”.
Gli eletti tra le fila del Carroccio sono tenuti a versare nel salvadanaio di via Bellerio poco più del 40% del loro stipendio, tra i 2.000 e i 2.400 euro.
Non si paga, invece, il contributo una tantum per la campagna elettorale. Un seggio del Carroccio vale dunque 145mila euro. L’impegno viene sancito davanti a un notaio con una scrittura che vale come riconoscimento di “debito” e costituisce anche titolo per l’emissione di un decreto ingiuntivo, in caso di inadempimento.
Lo spiegò ai magistrati di Forlì l’ex segretaria della Lega Nadia Dagrada che insieme a Francesco Belsito custodiva la cassaforte del Carroccio. Si urlò alla scandalo, ci furono le note condanne su diamanti e quant’altro, ma la vicenda ebbe anche uno strascico a livello tributario e normativo tutt’ora pendente.
Gli onorevoli che contribuivano alla causa, bontà  loro, trovavano ingiusto pagare le tasse su quei versamenti. Il problema fu risolto allora alla radice, con un colpo di spugna in Parlamento benedetto da tutti i partiti.
Gli onorevoli Calderoli e Bisinella proposero un emendamento ad hoc alla legge che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti — governo Letta, fine del 2013 — che dall’anno di imposta 2007 disponeva retroattivamente la “detraibilità  delle erogazioni in favore dei partiti”.
Il marchingegno aveva lo scopo dichiarato di sottrarre la generalità  dei parlamentari dal fare i conti col Fisco, facendo passare come “donazioni” e atti di liberalità  versamenti che in realtà  sono il prezzo di una candidatura certa. Inutile dire che passò a pieni voti.
La faccenda, come detto, non è chiusa. Alcuni senatori, nel frattempo, erano stati chiamati in giudizio di fronte alle commissioni tributarie provinciali e nei loro ricorsi hanno preteso di far valere il “salvacondotto” attrezzato per loro dai colleghi.
Alcune commissioni, in Piemonte ad esempio, hanno però ravvisato nella decisione del legislatore di allora una “contraddizione irragionevole” che hanno rimesso poi alla Corte Costituzionale. Il ragionamento: volendo abolire il finanziamento pubblico e regolare in modo trasparente le donazioni ai partiti, quella norma finiva di fatto per creare “un illegittimo privilegio che dovrà  essere rimosso dalla Corte, perchè non corroborato da ragioni oggettive che ne giustifichino la sussistenza”.
Detto altrimenti: quel decreto partito dai partiti (e destinato ai partiti) “non tutela esigenze di carattere generale bensì interessi del tutto particolari e personali”. Per questo, a settembre, la commissione tributaria di Biella ha rimesso la questione alla Corte, dove pende tutt’ora. Se un domani passasse quella linea, per i donatori forzati del Parlamento sarebbero dolori.
FORZA ITALIA
Sono passati quasi tre anni, lui ancora s’incazza. “Salgo le scale di via dell’Umiltà , al quarto piano vedo un impiegato con un banchetto. Con una mano fa firmare contratti ai candidati, con l’altra incassa assegni o contanti. Lo fermo, li prendo uno a uno e li faccio restituire. Nossignori, la democrazia non si vende!”.
Maurizio Bianconi è l’ex tesoriere del Pdl, una vita al fianco di Silvio Berlusconi e nel centro nevralgico del partito. Finchè, in occasione delle ultime politiche, s’è messo di traverso al commercio delle candidature.
Forse anche per questo siede oggi tra i banchi dei Conservatori riformisti, ma non ha cambiato idea. “Capite che questa roba è un’estorsione?”, urlò allora attirandosi attenzioni poco benevole in chi era arrivato coi soldi in mano a comprarsi il seggio e chi tenendo il cappello in mano già  faceva i conti dell’incasso.
“Ho fatto l’avvocato per 40 anni, so benissimo che questa cosa di pretendere soldi per una candidatura rasenta l’estorsione. Molti poi girarono i soldi direttamente, so anche di qualche bischero che lo fece senza poi essere eletto”.
Parliamo di quotazioni. Un seggio alle politiche 2013 veniva via per circa 25mila euro (Verdini ne chiedeva però 50 per un posto sicuro nel listino di Fi).
A differenza del Pd, devono essere versati immediatamente, all’atto della candidatura. Più un impegno, previsto dalla statuto, a versare 800 euro al mese al partito. Comprarsi lo scranno con Forza Italia, alla fine, costa circa 70mila euro.
Ciò nonostante non tutti pagarono, anzi.
Chi aggirò Bianconi alla fine raggirò Berlusconi. Ciclicamente, in questi tre anni, è venuto fuori il bubbone dei parlamentari inadempienti.
Quando il Pdl si è sciolto in Forza Italia si è aperto un buco nei conti da quasi 70 milioni, in parte dovuto proprio ai mancati “contributi” dei suoi parlamentari. Nelle casse dovevano arrivare circa 800mila euro al mese, ma il 40% degli eletti non aveva versato l’obolo.
CINQUESTELLE
I Cinque Stelle fanno delle “restituzioni” materia di vanto e un tratto distintivo. Ma anche queste sono imposte come vincolo a chi vuole esser “democraticamente eletto”. L’impegno, a conti fatti, vale almeno 114mila euro, una cifra non molto diversa dagli altri partiti ma con una differenza non da poco: gli altri versano la quota al partito, il M5S la restituisce allo Stato. Ecco i conti.
Ogni mese i parlamentari grillini possono percepire 5mila euro lordi, più gli altri benefit. E’ quanto prevede il “Regolamento” o codice di comportamento dei futuri parlamentari a Cinque Stelle comparso in occasione delle politiche 2013 sul blog di Grillo.
A conti fatti rinunciano quindi a 2.500 euro lordi, circa 1.900 netti. Più quanto riescono a non spendere della diaria da 8mila euro circa.
In un anno, mediamente, siamo intorno ai 114-130mila euro. Una cifra non così lontana dai candidati della Lega, un po’ inferiore di quella versata al Pd dai democratici. Anche in questo caso si parla di “contributi volontari” che in realtà  sono obblighi imposti dal codice di partito. In caso di mancanto versamento, infatti, scatta l’espulsione.
Danilo Puliani è il fiscalista che si occupa di compensi e restituzioni per i gruppi (e di circa il 70% dei parlamentari a Cinque Stelle).
Spiega che poco dopo l’elezione, tra fine aprile e inizio marzo 2013, ci furono diverse assemblee aventi ad oggetto il tema delle restituzioni.
Tra i più sentiti, il fatto che le tasse sul reddito dei parlamentari dovessero essere pagate per intero, pur percependo loro una parte soltanto dei compensi.
“Allora, di comune accordo, si decise di stabilire una sorta di agio per chi ha figli a carico o condizioni economiche più svantaggiate, consentendogli in via straordinaria di trattenere qualcosa di più dello stipendio in busta paga. Ma parliamo di piccole cifre”.
Quanto ai rapporti con il Fisco per le restituzioni “il problema non esiste”. Quei soldi vengono versati direttamente su un conto Tesoro per il microcredito. “Per questo ai parlamentari del M5S non si è mai posto il problema di fare un versamento e poi farlo rientrare sotto forma di detrazione”.

Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)

This entry was posted on giovedì, Febbraio 25th, 2016 at 14:11 and is filed under Parlamento. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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