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PERCHE’ MUOIONO LE AZIENDE TOLTE ALLA MAFIA: L’85% FALLISCE

COLPA DELLA BUROCRAZIA E DELLE NORME DA RIVEDERE

Ce ne eravamo occupati due anni fa, Don Ciotti aveva lanciato l’allarme: “Così vincono loro”.
Ma niente da allora si è mosso, anzi, se possibile, le cose sono peggiorate.
Uno dei casi più recenti ha riguardato il gruppo 6Gdo di Castelvetrano, sequestrato nel 2007 a Giuseppe Grigoli (provvedimento confermato nel 2013), ritenuto il cassiere del capomafia Matteo Messina Denaro.
Dopo la confisca e ripetuti tentativi di rilancio, a fine maggio la società  è stata dichiarata fallita dal Tribunale di Marsala.
Così, adesso, i 250 dipendenti del gruppo sono oggetto di licenziamento collettivo da parte della Anbsc, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità  organizzata.
E le cose vanno ancora peggio al personale dell’indotto, privo di qualsiasi tutela.
La legge 109 del 1996 per il riutilizzo dei beni sequestrati alla criminalità  organizzata ha compiuto da poco 18 anni e il bilancio fa emergere diverse zone d’ombra.
La normativa ha consentito alla Stato di riprendersi migliaia di beni tra palazzi, appartamenti, terreni e aziende.
Ma su quest’ultimo punto i risultati sono stati al di sotto delle aspettative: quasi il 90% delle imprese confiscate ha chiuso i battenti.
Le vittime principali di questo sistema sono i lavoratori, costretti a fare i conti prima con il boicottaggio dei vecchi proprietari durante la fase del sequestro, poi con le lungaggini della giustizia e un rimpallo di competenze che durano anni e lasciano andare in malora le strutture e gli impianti.
Anche chi prova a costituire una cooperativa per rilevare l’attività  d’impresa, spesso impegnando il proprio Tfr, si scontra con un muro di gomma e lo sbocco è quasi sempre la liquidazione della società .
Un meccanismo che genera sfiducia verso le istituzioni e porta molti a rimpiangere le vecchie gestioni, “che, quanto meno, lo stipendio a fine mese lo garantivano”.
Perchè nelle terre martoriate dalla criminalità  organizzata, a maggior ragione in periodi di crisi come questo, è quasi impossibile trovare un’altra occupazione che possa garantire un’esistenza dignitosa.
Si salva solo il 15% delle aziende.
Transcrime, centro di ricerca che fa capo alla Cattolica di Milano e all’Università  di Trento, ha analizzato la situazione delle aziende confiscate dal 1983 a oggi.
Lo studio ha guardato sia il periodo prima del sequestro, quando ancora le imprese erano gestite dalle mafie, sia lo stato attuale di queste aziende.
I ricercatori ne hanno ricavato stime (per la presenza di informazioni spesso frammentarie) impietose: il 65-70% delle imprese è in liquidazione, il 15-20% è fallita, mentre ne restano attive il 15-20%.
Dati che si rivelano sostanzialmente omogenei per settori economici e territori di attività .
Un patrimonio da 1,8 miliardi
Occorre, dunque, prendere atto del fallimento? Per Michele Riccardi, docente alla Cattolica e tra gli autori dello studio, le ragioni sono essenzialmente due: “In molti casi le aziende mafiose non sono intrinsecamente competitive e quindi, una volta riportate sul mercato legale, faticano a sopravvivere”.
Dallo studio emerge che spesso queste imprese non nascono con finalità  imprenditoriali (massimizzare il profitto), ma per utilità  criminali (riciclare denaro, controllare il territorio).
Se restano sul mercato è solo grazie a mezzi illegali, dalla corruzione alle frodi negli appalti e contabili, dalle intimidazioni ai danni della concorrenza all’impiego di lavoratori in nero e materiali di scarsa qualità .
Inoltre si tratta di realtà  spesso piccole (nel 50% dei casi hanno un capitale medio tra 10 e 20 mila euro, per lo più Società  a responsabilità  limitata, Srl), giovani (in media dieci anni tra la costituzione e la confisca di prima istanza, ancora meno prendendo il sequestro), attive in settori a forte concorrenza (costruzioni, commercio al dettaglio, ristoranti e bar rappresentano circa il 60% di tutte le aziende confiscate) e in territori a basso sviluppo.
Con l’arrivo dello Stato le banche chiudono i rubinetti.
Dall’analisi di Transcrime emerge, inoltre, che la competitività  di queste aziende peggiora proprio negli anni precedenti il sequestro.
La sensazione è che l’imprenditore mafioso “annusi” l’imminente intervento dello Stato e cerchi di disinvestire il prima possibile: non è un caso che, in media, le imprese mafiose abbiano molto più circolante rispetto a quelle legali, non solo per il loro uso strumentale e non produttivo, ma anche per velocizzarne la liquidazione. Lo stesso fanno le banche, riducendo i prestiti già  diverso tempo prima del sequestro, come emerge dal paper “Aziende sequestrate alla criminalità  organizzata: le relazioni con il sistema bancario”, realizzato dalla Banca d’Italia.
Luigi Donato, Anna Saporito e Alessandro Scognamiglio, autori dello studio, fanno due ipotesi al riguardo: la prima è che gli istituti di credito, venuti a conoscenza dell’avvio di procedimenti penali o di prevenzione, procedano già  prima del provvedimento giudiziario – e proprio in vista dello stesso – a ridurre cautelativamente le proprie esposizioni.
Infatti gli intermediari possono venire a conoscenza dell’esistenza di procedimenti giudiziari in quanto destinatari – nell’ambito della cosiddetta “collaborazione passiva” – di richieste di accertamento penale disposte dalla magistratura inquirente per ricostruire la posizione bancaria degli inquisiti. Oppure sulla base di informazioni diffuse dagli organi di stampa. Un’altra ipotesi verosimile, ma non verificabile, è che la proprietà  criminale abbandoni o “svuoti le imprese oggetto di interesse da parte degli organi inquirenti”.
I costi della legalità .
Le vere difficoltà  nascono dopo. “Al momento del sequestro l’azienda – sia pure con le storture operative derivanti dall’infiltrazione mafiosa – è spesso una realtà  ancora vitale”, spiega lo studio della Banca d’Italia.
“In quel momento la rotta potrebbe forse ancora essere invertita, o perlomeno potrebbe essere assorbito il contraccolpo del provvedimento giudiziario”.
Ma dopo l’avvio dell’amministrazione giudiziaria, sottolinea Riccardi, “queste aziende si trovano a fare i conti con una serie di ostacoli (burocratici, legali, tecnici, economici, sociali) che complicano l’amministrazione ordinaria.
Spesso le imprese sottratte alle mafie devono confrontarsi con il boicottaggio da parte di clienti, fornitori e popolazione, nonchè con problemi di gestione e regolarizzazione del personale (spesso in sovrannumero e in nero)”.
Così, stare sul mercato in maniera competitiva diventa difficile, se non impossibile. Anche perchè di pari passo, secondo le rilevazioni del Cerved, si chiudono ulteriormente i rubinetti del credito: tra il 2009 e il 2012, i finanziamenti assegnati alle imprese in amministrazione giudiziaria sono diminuiti mediamente del 5,4% annuo, mentre quelli concessi all’insieme di imprese operanti negli stessi settori e nelle stesse aree geografiche sono cresciuti dell’1,6%.
Come cambiare rotta. “L’azienda mafiosa è florida e rimane sul mercato perchè è una diretta promanazione dell’organizzazione criminale, perchè ricicla danaro proveniente da traffici illeciti e non sconta i costi della legalità  (fatturazione, regolarizzazione retributiva e contributiva dei dipendenti). In pratica, opera in un mercato drogato, non concorrenziale”, sottolinea Maria Luisa Campise, segretario della commissione del disciolto Consiglio nazionale dei commercialisti in materia di amministrazione giudiziaria e neo eletto consigliere nazionale del Cndcec.
“Dopo aver a lungo operato come monopolista, in seguito al sequestro si trova a fare i conti con un mercato concorrenziale, senza averne gli strumenti”.
Tutto ciò impedisce a queste aziende di rimanere competitive e proseguire l’attività . “Basti pensare che, relativamente alle aziende confiscate in via definitiva, su 1.707 realtà  aziendali, soltanto 22 risultano attive con dipendenti e soltanto pochissime sono state riassegnate per usi sociali alle cooperative di dipendenti”.
Per invertire la tendenza, “innanzitutto i beni aziendali, così come quelli immobili, dovrebbero essere immediatamente assegnati, senza attendere la confisca definitiva”, sottolinea Campise.
“Sarebbe poi auspicabile l’istituzione di un fondo di rotazione, a disposizione delle autorità  giudiziarie, per finanziare le aziende che presentano concrete possibilità  di rimanere sul mercato. In terzo luogo, per scongiurare l’azzeramento degli ordini, sarebbe utile prevedere una sinergia tra le aziende sequestrate e confiscate per la rotazione delle commesse, assieme a una rete virtuosa che, coinvolgendo le associazioni rappresentative degli imprenditori, faccia rientrare l’azienda mafiosa in un circuito virtuoso”.
Campise auspica anche “una completa rivisitazione della natura e delle funzioni dell’Agenzia nazionale che, per come oggi è strutturata, non funziona e necessita di un rigoroso restyling sia relativamente alle risorse umane impiegate, sia in materia di competenze attribuite, che andrebbero limitate alla gestione dei beni confiscati in via definitiva, ferma restando la fondamentale funzione di ausilio alla magistratura durante la fase giudiziaria”.
Per Riccardi la prima cosa da fare, anche se dolorosa, è invece evitare di salvare tutte le aziende sequestrate. “Alcune non lo meritano; anzi, i concorrenti legali avrebbero solo vantaggi dalla loro scomparsa. Altre sono in condizioni di bilancio tali da non poter essere salvate: in questi casi vanno liquidate il prima possibile, in modo da minimizzare i costi (compresi quelli dell’amministrazione giudiziaria) e liberare risorse, da concentrare sulle aziende meritevoli”. Gli sforzi andrebbero, dunque, puntati solo su un numero ristretto di aziende.
Albo degli amministratori in standby
Va segnalato poi che non è ancora partito l’Albo degli amministratori giudiziari, anche se il termine inizialmente previsto era di 90 giorni dall’entrata in vigore del DLgs. 4 febbraio 2010 n. 14.
“L’attesa continua”, lamenta Domenico Posca, presidente dell’Istituto nazionale degli amministratori giudiziari, che ricorda i compiti spettanti a questa particolare figura professionale: “Non si tratta di un normale amministratore privatistico.
La sua funzione deriva direttamente dall’autorità  giudiziaria, con la quale si interfaccia. Per questo motivo non è chiamato solo ad amministrare l’azienda, ma contestualmente svolge un ruolo volto a ripristinare la legalità , anche attraverso attività  informative”.
Dunque un ruolo vicino più a quello di un manager, che al generico incarico giudiziario da condurre attraverso lo studio di una controversia o di una perizia.
“Il dato di fatto è che fin quando le aziende sono nella fase del sequestro penale preventivo o di prevenzione, riescono a restare sul mercato, malgrado le difficoltà  finanziarie e organizzative. Ma spesso il passaggio di mano delle stesse aziende nella fase della confisca comporta una perdita di efficienza nella gestione, che inevitabilmente le porta alla scomparsa dal mercato con perdita di posti di lavoro e di asset importanti”.
L’anomalia
Posca sottolinea un’anomalia. “L’inventario dei beni confiscati da parte dell’Anbsc risale al gennaio 2013”. Del resto, la stessa Agenzia, più volte sollecitata in merito, non ha voluto contribuire a questa inchiesta giornalistica.
“Per affrontare i problemi, occorre quanto meno conoscerli, ma il direttore dell’Agenzia – in audizione al Parlamento – non ha saputo nemmeno dare una stima di massima del valore di quelle confiscate”.
Per Posca non resta che selezionare, tra le aziende in amministrazione giudiziaria, “quelle attive e profittevoli sulle quali investire risorse e alle quali riservare trattamenti fiscali/previdenziali privilegiati da quelle per le quali non conviene che liquidare immediatamente con una procedura speciale”.
Reperire risorse in una fase di spending review non sarà  tuttavia facile. “Ma questa strada è praticabile sotto il profilo fiscale se si considera che la durata del sequestro rappresenta un unico periodo d’imposta con la determinazione finale del dovuto, a seconda della confisca definitiva o della restituzione”, ribatte Posca.
“Tanto più se si pensa che al termine del procedimento dovrebbe intervenire la confisca, quindi per lo Stato non vi sarebbe nessuna perdita, anzi un saldo attivo se l’azienda sopravvive”. Interventi ai quali il presidente dell’Istituto chiede di abbinare una sanatoria delle sanzioni previdenziali ante-sequestro e il riconoscimento di sgravi contributivi per l’intera durata della procedura, oltre all’impegno del sistema bancario a mantenere inalterate le linee di credito.

Luigi dell’Oglio

This entry was posted on giovedì, Settembre 25th, 2014 at 21:15 and is filed under mafia. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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