PIKETTY: PERCHE’ IL POPOLO TRADISCE LA SINISTRA
I PARTITI DI CENTROSINISTRA NON DIFENDONO PIU’ I CETI POPOLARI
Perchè le classi popolari voltano sempre più le spalle ai partiti di Governo
E perchè voltano le spalle in particolare ai partiti di centrosinistra che sostengono di difenderle? Molto semplicemente perchè i partiti di centrosinistra non le difendono più ormai da tempo. Negli ultimi decenni le classi popolari hanno subito l’equivalente di una doppia condanna, prima economica e poi politica.
Le trasformazioni dell’economia non sono andate a vantaggio dei gruppi sociali più sfavoriti dei Paesi sviluppati: la fine dei trent’anni di crescita eccezionale seguita alla seconda guerra mondiale, la deindustrializzazione, l’ascesa dei Paesi emergenti, la distruzione di posti di lavoro poco o mediamente qualificati nel Nord del pianeta.
I gruppi meglio provvisti di capitale finanziario e culturale, al contrario, hanno beneficiato appieno della globalizzazione.
Il secondo problema è che le trasformazioni politiche non hanno fatto che accentuare ancora di più queste tendenze.
Ci si sarebbe potuti immaginare che le istituzioni pubbliche, i sistemi di protezione sociale, in generale le politiche seguite dai Governi si sarebbero adattati alla nuova realtà , pretendendo di più dai principali beneficiari delle trasformazioni in corso per concentrarsi maggiormente sui gruppi più penalizzati.
Invece è successo il contrario.
Anche a causa dell’intensificarsi della concorrenza fra Paesi, i Governi nazionali si sono concentrati sempre di più sui contribuenti più mobili (lavoratori dipendenti altamente qualificati e globalizzati, detentori di capitali) a scapito dei gruppi percepiti come “imprigionati” (le classi popolari e i ceti medi).
Tutto questo riguarda un insieme di politiche sociali e servizi pubblici: investimenti nei treni ad alta velocità contro pauperizzazione delle ferrovie regionali, filiere dell’istruzione per le èlite contro abbandono di scuole e università , e via discorrendo.
E riguarda naturalmente anche il finanziamento di tutto quanto: dagli anni 80 in poi, la progressività dei sistemi fiscali si è drasticamente ridotta, con una riduzione su vasta scala delle imposte applicabili ai redditi più elevati e un graduale aumento delle tasse indirette, che colpiscono i più poveri.
La deregolamentazione finanziaria e la liberalizzazione dei flussi di capitali, senza la minima contropartita, hanno accentuato queste evoluzioni.
Anche le istituzioni europee, consacrate interamente al principio di una concorrenza sempre più pura e sempre più perfetta fra territori e fra Paesi, senza una base fiscale e sociale comune, hanno rafforzato queste tendenze.
Lo si vede con estrema chiarezza nel caso dell’imposta sugli utili delle società , che in Europa si è dimezzata rispetto agli anni 80.
Inoltre, bisogna sottolineare che le società più grandi spesso riescono a eludere il tasso di imposizione ufficiale, com’è stato rivelato dal recente scandalo LuxLeaks.
In pratica, le piccole e medie imprese si ritrovano a pagare imposte sugli utili nettamente superiori a quelle che pagano i grandi gruppi con sede nelle capitali.
Più tasse e meno servizi pubblici: non c’è da stupirsi che le popolazioni colpite si sentano abbandonate.
Questo sentimento di abbandono alimenta il consenso per l’estrema destra e l’ascesa del tripartitismo, sia all’interno che all’esterno dell’Eurozona (per esempio in Svezia).
Che fare, allora?
Innanzitutto bisogna riconoscere che senza una rifondazione sociale e democratica radicale, la costruzione europea diventerà sempre più indifendibile agli occhi delle classi popolari.
La lettura del rapporto che i «quattro presidenti» (della Commissione, della Bce, del Consiglio e dell’Eurogruppo) hanno recentemente dedicato all’avvenire della zona euro è particolarmente deprimente in quest’ottica.
L’idea generale è che si sa già quali sono le «riforme strutturali» (meno rigidità sul mercato del lavoro e dei beni) che permetteranno di risolvere tutto, bisogna solo trovare gli strumenti per imporle.
La diagnosi è assurda: se la disoccupazione è schizzata alle stelle negli ultimi anni, mentre negli Stati Uniti diminuiva, è innanzitutto perchè gli Stati Uniti hanno dato prova di una maggiore flessibilità di bilancio per rilanciare la macchina economica.
Quello che blocca l’Europa sono soprattutto le pastoie antidemocratiche: la rigidità dei criteri di bilancio, la regola dell’unanimità sulle questioni fiscali.
E sopra ogni altra cosa l’assenza di investimenti nel futuro.
Esempio emblematico: il programma Erasmus ha il merito di esistere, ma è ridicolmente sottofinanziato (2 miliardi di euro l’anno contro 200 miliardi dedicati al pagamento degli interessi sul debito), mentre l’Europa dovrebbe investire massicciamente nell’innovazione, nei giovani e nelle università .
Se non si troverà nessun compromesso per rifondare l’Europa, i rischi di esplosione sono reali. Riguardo alla Grecia, è evidente che alcuni dirigenti cercano di spingere il Paese ellenico fuori dall’euro: tutti sanno benissimo che gli accordi del 2012 sono inapplicabili (passeranno decenni prima che la Grecia possa avere un avanzo primario del 4 per cento del Pil da destinare al rimborso del debito), eppure si rifiutano di rinegoziarli.
Thomas Piketty
(da “La Repubblica“)
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