RIFORMA DEL LAVORO: NIENTE DECRETO, IL GOVERNO SCEGLIE LA LINEA MORBIDA
IL MINISTRO DEL WELFARE FORNERO RIVEDRA’ ANCORA LE PARTI SOCIALI
I contraccolpi del mancato accordo sul lavoro stanno mettendo sotto duro stress il governo.
Per la prima volta dal Pd arrivano esplicite prese di distanze, insieme con l’avvertimento che andare avanti così proprio non si può.
Manco a dirlo, dall’altra parte si schierano con Monti e contro la Cgil.
Cosicchè il passaggio delle prossime ore si annuncia alquanto stretto.
Il presidente del Consiglio ufficialmente non ha rinunciato a varare domani la sua riforma (sebbene il tam-tam politico-sindacale ipotizzi un rinvio a quando tornerà dal lungo viaggio in Estremo Oriente).
Però un conto è se presenterà questa riforma alle Camere come un «prendere o lasciare», altra cosa se il Professore si farà umile e terrà conto del futuro dibattito in Parlamento.
Dal Pd un po’ gli intimano un po’ lo scongiurano di imboccare questa seconda strada, in modo da apportare con calma le correzioni necessarie, specie sull’articolo 18. Diversi segnali lasciano intendere che alla fine sarà proprio questa la scelta di Monti.
Dunque niente decreto legge, che verrebbe interpretato a sinistra come una inaccettabile forzatura (lo stesso Napolitano negherebbe la controfirma).
E con ogni probabilità Monti non opterà nemmeno per un disegno di legge, dove comunque andrebbe subito inserito nero su bianco il pomo della discordia legato alla cosiddetta «flessibilità in uscita» (leggi: meno vincoli ai licenziamenti).
Il presidente del Consiglio sembra al momento orientato verso una legge delega. In altre parole, il governo sottoporrà al Parlamento alcuni criteri di riforma molto generali, altamente condivisibili e politicamente inoffensivi, riservandosi di definire i dettagli concreti attraverso, appunto, i decreti delegati.
Che potranno arrivare in un momento successivo, per esempio una volta scavallate le elezioni amministrative di maggio.
Capiremo meglio stasera, dopo la riunione tra Monti, Fornero e parti sociali.
Il Capo dello Stato fa intendere che, tra tutte le soluzioni sul tavolo, lui preferisce la più dialogante.
L’assedio nei confronti del premier è tale che perfino il ministro Barca (Coesione territoriale) esprime dubbi sulla nuova formulazione dell’articolo 18.
Dal Pd è in atto un vero e proprio martellamento.
Di prima mattina sono scesi in campo i capigruppo Finocchiaro e Franceschini per sbarrare la strada all’eventuale decreto.
Più tardi ha fatto rumore uno sfogo a voce alta, in modo che i giornalisti lo udissero, del segretario Bersani con l’ex-ministro Damiano:
«Se devo concludere la vita dando il via libera alla monetizzazione del lavoro, non lo faccio… Per me sarebbe inconcepibile».
Più tardi il segretario è andato da Vespa a spiegare che ci sarebbero ancora margini di intesa con Cgil, qualora per i licenziamenti dettati da ragioni economiche si usasse lo stesso metro di quelli disciplinari (intervento del giudice).
Ma il vero colpo di avvertimento l’ha sparato a sera Rosy Bindi, presidente del partito: «Il governo e il presidente del Consiglio vanno avanti se rispettano la dignità di tutte le forze politiche» (altrimenti di strada se ne fa poca, è il sottinteso).
E il Pdl? Con Alfano difende la riforma, «si è trovato un buon punto di equilibrio dal quale non si dovrà arretrare in Parlamento».
Tuttavia nessuno pretende un decreto, al massimo viene auspicato.
E quasi tutti al vertice Pdl sono ormai rassegnati alla legge delega che, sotto sotto, evita pericolose radicalizzazioni.
Ugo Magri
(da “La Stampa”)
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