SAID E GLI ALTRI, MILLE STORIE DI NAUFRAGHI E CRIMINALI DEL MARE
SOMMERSI E SALVATI
È la cronaca di centinaia di naufragi. Uno per ogni vittima. Ma soltanto i pochi sopravvissuti possono raccontarlo.
Bastano poche parole, quelle di S., con il suo sorriso e tutta la sua solitudine dinanzi al budino offerto sul molo di Catania, appena sbarcato dalla nave Gregoretti: “Sono rimasto solo”, dice a Simona Migliore, della Croce Rossa, “eravamo in tanti, partiti dal Gambia, forse in cento. Sono rimasto soltanto io”.
E se ogni viaggio passa da una carretta nel Mediterraneo, ogni viaggio inizia in modo diverso, e quello di Said inizia nell’estate del 2014.
Il piccolo Said e il sogno svedese
Ha appena 16 anni, è nato in Somalia, cinque sorelle e tre fratelli. “La mia destinazione è la Svezia. Devo raggiungere le mie zie”, racconta nel centro per minori Mascalucia, dove lo segue Save the Children.
“La mia famiglia mi ha affidato a un trafficante sudanese — racconta — e dopo mesi sono arrivato a Jdabiya in Libia”.
Prima di naufragare, deve affrontare altri traumi. “Sono rimasto in un carcere, recluso dai trafficanti per ben nove mesi”.
Il tempo necessario perchè la sua famiglia pagasse un riscatto.
“In quel carcere — continua — c’erano molti altri ragazzi. E in molti sono morti davanti ai miei occhi. Mangiavamo pochissimo, poca acqua e poco cibo, diventavamo sempre più deboli, ci si ammalava facilmente. E chi si ammalava spesso moriva”.
Lasciato il carcere, dopo il pagamento del riscatto, Said raggiunge Tripoli.
“Ci ho impiegato sei giorni per raggiungerla”. Di lì, finalmente, la partenza.
“I trafficanti mi hanno fatto salire su un gommone”, continua, “poi da lì siamo stati trasportati su un peschereccio a 3 piani, ormeggiato poco distante dalla costa”
Said è ridotto a merce all’ammasso: “Noi adolescenti eravamo una sessantina”.
Oggi se ne contano, vivi, appena quattro. “Sentivo i trafficanti parlare, dicevano che volevano imbarcare 1.200 persone, ci picchiavano per farci salire. Secondo me si sono fermati a 800 passeggeri”.
È l’inizio della fine: non tutti viaggiano allo stesso modo. I destini si incrociano. Chiusi a chiave nella stiva “Quelli al piano più basso”, continua Said, “sono stati chiusi a chiave”.
Per loro, di lì a poco, non ci sarà più speranza. Said resta in coperta. Ed è la sua salvezza: “Era notte quando è stato lanciato l’allarme e la richiesta di soccorso. Quando abbiamo visto le luci, ci siamo accalcati tutti su un lato, l’i mbarcazione si è inclinata fino a ribaltarsi. Sono svenuto, poi ho capito d’essermi salvato”.
Ieri — anche per l’intervento dell’e uroparlamentare Pd Michela Giuffrida — è riuscito a chiamare casa: “Pensavano fossi morto”.
C’è chi racconta di essere stato per un mese, prima di partire, in una sorta di fattoria. Recluso, minacciato e bastonato, anche solo per essersi allontanato a fare pipì.
C’è chi dice di aver pagato 500 o 1000 dinari libici per la traversata, cioè poche centinaia di euro, altri parlano di migliaia di euro.
“Per due anni — racconta un ragazzino bangladese — ho lavorato duro come meccanico in Libia per potere comprare il biglietto di sola andata per l’Italia. Su quella barca eravamo in tre bengalesi, siamo riusciti a salvarci perchè eravamo sul ponte più alto”. Quelli del ponte più alto: ”Preghiamo per gli altri”
La posizione sul peschereccio, questione di vita o di morte, probabilmente dipendeva del prezzo pagato. E chi si è salvato ora prega: “Dio ha voluto che mi salvassi, ora posso solo pregare per chi non ce l’ha fatta”.
E ancora: “Ero con mio padre e mio fratello, non li ho visti più, non so dove siano”, si dispera un ventenne maliano nel Cara (Centro di accoglienza per i richiedenti asilo) di Mineo (Catania), tristemente noto per i guai giudiziari, fino all’inchiesta palermitana che ne fa il quartier generale di uno dei presunti trafficanti di esseri umani.
Sono tutti maschi, quasi tutti ventenni o poco più: maliani, eritrei, sierraleonesi, zambiani, ghanesi e tre bangladesi.
Ogni sguardo una tragedia: un minore ha perso la sorella diciannovenne, chiusa nella stiva come le altre donne e i bambini, e se il relitto non sarà ripescato non sapremo mai neanche quante tragedie contare.
Se 950, come riferisce il primo superstite, o 400.
Resta la più feroce delle storie in questo fazzoletto di mare.
Alessandro Mantovani e Antonio Massari
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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