SE GLI STUDENTI SONO RALLENTATI NON DATE COLPA ALLA DAD, LA SCUOLA NON FUNZIONA DA ANNI
E I PARTITI CONTINUANO A OCCUPARSI SOLO DEI CONCORSI
Che cosa c’è di più grave, per una comunità, del sapere che la metà dei suoi giovani sono dei ritardati? Che a diciotto anni hanno le conoscenze e le competenze di tredici? Che la loro incapacità di scrivere, comprendere un testo, organizzare un discorso, risolvere problemi condizionerà in maniera irreversibile le relazioni personali, la carriera, la stessa vita di una generazione?
Niente dovrebbe destare maggiore allarme di un’emergenza educativa come questa, senza precedenti nella storia repubblicana.
Eppure l’infausta diagnosi dei test Invalsi sul livello di apprendimento degli studenti italiani non trova più di uno strapuntino sulla prima pagina dei quotidiani. E nei giorni seguenti la notizia non suscita il dibattito che ti aspetteresti, anzi scompare dal radar. Perché?
La risposta è che una buona parte della classe dirigente del Paese, e tra questa non pochi giornalisti, pensa che quei dati siano falsi. Perché i figli di questa «società stretta», di cui già parlava Leopardi nel suo «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani», sono quasi tutti bravi, frequentano le tre o quattro migliori scuole di Roma e Milano, e mietono successi nelle università straniere, dove approdano con facilità.
Da questo circuito di relazioni e didattiche privilegiate, che riguarda il due per cento della popolazione, l’osservazione della realtà offre un quadro tutt’altro che drammatico. E, soprattutto, occulta la vista del disastro che sta a valle. Si aggiunga un’idiosincrasia o, se volete, un pregiudizio ideologico per una rilevazione oggettiva del sapere, quella dell’Invalsi, che viene bollata come una pratica neoliberista, e la frittata è fatta. Il Paese sprofonda, ignaro, nell’analfabetismo.
Se poi dai media il discorso si sposta sulla politica, la rimozione collettiva diventa depistaggio.
Sotto accusa finisce la didattica a distanza, rea di ogni gap cognitivo, relazionale, geografico e censitario. Perché, si dice, il computer riduce lo spirito critico, isola, discrimina i più periferici e i meno abbienti.
A prova di ciò si adducono le performance migliori dei test nella scuola elementare, dove le lezioni in presenza sono state meglio garantite durante la pandemia. Ma è una lettura parziale e mistificatoria.
Per capirlo basta guardare il trend delle prove Invalsi, dall’anno scolastico 2005-2006, in cui furono introdotte, ad oggi. La scuola primaria ha sempre dato risultati migliori: che poi questi derivino da una pedagogia innovativa è un’ipotesi. Ma è una certezza che nella media e nella superiore, dove si assiste da anni a un progressivo decadimento del sapere, la didattica è rimasta ancorata a un modello trasmissivo fondato sulla tradizionale lezione frontale: il professore che spiega, gli studenti che fingono di ascoltarlo
La tecnologia funziona quando è il mezzo di un insegnamento che punti su un apprendimento interattivo. Vuol dire confrontarsi, produrre contenuti culturali insieme, sviluppare pensiero critico sulla realtà.
Senza una pedagogia capace di valorizzare queste opportunità, la Dad enfatizza la tossicità di un metodo che richiede un’autodisciplina incompatibile con le nuove generazioni, produce esclusioni e apre nella società un’emergenza psichica. Ma condannare senz’appello lo smart learning può servire solo a mettere la testa sotto la sabbia e tornare a fare la vecchia e inadeguata scuola di sempre.
È l’impresa a cui si applicano in queste ore quasi tutte le forze politiche. In settima Commissione alla Camera si litiga per intestarsi l’allargamento della platea di precari da immettere. Oltre a quelli abilitati, i cosiddetti di prima fascia, si punta a garantire coloro che non hanno mai vinto un concorso, e che possono esibire come unico titolo il loro stesso precariato. È più facile negare la crisi dei saperi certificata dall’Invalsi, piuttosto che riconoscere che essa dipenda dalla lunghissima eclissi dei concorsi nella scuola italiana.
C’è l’ok del Ministero dell’Economia a coprire 112mila posti vacanti entro il 31 luglio, dopo l’approvazione del decreto sostegni bis, per poi provvedere in agosto alle supplenze delle cattedre scoperte da trasferimenti e assegnazioni varie, e avere a settembre una copertura stabile degli insegnamenti.
È paradossale, ma non troppo, che siano Lega e Pd a spingere con unità d’intenti per scorrere più in basso possibile le graduatorie e stabilizzare tutti coloro che si può, e sia invece il Movimento Cinquestelle a frenare.
Lo scollamento grillino dal tessuto sociale del Paese si specchia in una sua ridotta rappresentanza di quegli interessi corporativi che si coagulano attorno a forze politiche più radicate nella società. Ma dalla ricerca del consenso, con cui si regola in Parlamento il futuro della scuola, non potrà che venire un nuovo patto a perdere. La cui utilità marginale sarà sempre inferiore alla quantità di risorse che è necessario distribuire ai gruppi di pressione per raggiungere l’intesa.
Nei due anni della pandemia la scuola italiana ha ricevuto qualcosa come tre miliardi. La giungla di un’autonomia non governata li ha dirottati verso gli usi più disparati: ci sono istituti che hanno cambiato volto e mezzi, altri che sono rimasti al palo. Ma niente è servito a migliorare nel complesso la qualità dell’offerta formativa.
E niente di significativo è accaduto dall’arrivo a Viale Trastevere di Patrizio Bianchi, uomo di bellissime idee ma fin qui incapace di mettere a terra un solo progetto concreto, come ormai si sussurra con preoccupazione nelle stanze di Palazzo Chigi.
Nel giorno dell’insediamento, Draghi disse che a scuola era ora di recuperare il tempo perduto, rimodulando il calendario in estate.
Ma convincere i sindacati di far lavorare gli insegnanti a luglio era impresa troppo ardua per chiunque. Così la strategia di recupero si è trasformata in un’opera di risocializzazione su base volontaria, che ha visto arrivare 150 milioni di contributi agli istituti ma senza alcun censibile ritorno sulla didattica.
Quanto ai concorsi, il ministro ha fin qui varato solo quello per seimila cattedre di scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Ma i candidati promossi all’orale sono appena la metà dei posti banditi, forse anche a riprova di come la carriera e lo stipendio del docente non siano un richiamo per i migliori talenti.
Se i risultati dell’Invalsi passano inosservati, o piuttosto vengono disconosciuti, è perché la priorità della scuola italiana è ancora una volta finita per coincidere con il destino dei precari, cioè con la garanzia di chi aspira a lavorare e non con la tutela dei fruitori del servizio pubblico.
Il rischio è che, in attesa della conferenza programmatica che il ministro Bianchi intende organizzare per novembre, il gabinetto Draghi sciupi l’agibilità politica concessale dalla crisi dei partiti. La gravità di un’emergenza, che da formativa si è fatta anche educativa, avrebbe richiesto interventi rapidissimi e procedure speciali, simili a quelli messi in campo nella campagna per i vaccini. Non il disegno politico, ancorché di ampie vedute, di un ministro che politico non è, e che non gode di una vera e propria maggioranza politica
C’è bisogno di tempo pieno in tutto il Paese, di formazione obbligatoria, non all’uso dei computer ma all’innovazione della didattica, di un piano mirato contro la dispersione e per l’inclusione in tutte le periferie del sistema, riutilizzando le sacche improduttive di insegnanti parcheggiati al Sud nei cosiddetti organici di potenziamento. Ma, a due mesi dall’avvio dalle lezioni, i ritardi, le incompiutezze e le incognite sono le stesse degli anni scorsi.
Con in più il disagio maturato nel lungo impasse della pandemia. E ora si scopre che oltre il 15 per cento degli insegnanti non ha ricevuto neanche una dose di vaccino e, a rigor di logica, non potrebbe garantire la didattica in presenza.
Nei risultati dei test Invalsi c’è, in controluce, la fotografia di questo universo condannato al declino.
Dalla massa di minorati intellettuali e morali che lo frequenta si stacca ancora qualche studente modello, che finirà a governare il Cern di Ginevra. E che autorizzerà i benpensanti a dire che i nostri ragazzi si fanno valere all’estero, perché l’istruzione italiana è ancora la migliore.
Salvo poi svegliarsi un giorno e scoprire che la Polonia ci ha sorpassato.
(da Huffingtonpost)
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