SULL’UCRAINA PARTITA INTERNA AL CREMLINO, L’ALA DURA E PURA VUOLE LA GUERRA MA GLI OLIGARCHI NO: PERDEREBBERO TROPPO DALLE SANZIONI
ZAR VLAD VUOLE USARE LA CRISI CON KIEV PER ERGERSI A LEADER INSOSTITUIBILE IN VISTA DELLE ELEZIONI DEL 2024, PERÒ PERFINO I SUOI ELETTORI APPAIONO NEI SONDAGGI TERRORIZZATI DA UN’IPOTESI DI GUERRA
Il “niet” russo alle proposte negoziali americane fa tremare la Borsa di Mosca, che torna a precipitare con i nuovi segnali di guerra, per poi sparire subito – letteralmente – dalla circolazione, con il sito del ministero degli Esteri russo che collassa immediatamente dopo e rimane inaccessibile per ore.
Dal grattacielo staliniano sulla piazza Smolenskaya arrivano sommesse giustificazioni su un «inconveniente tecnico», senza nemmeno tirare in ballo ipotesi di cyberwar e hacker ucraini.
Un momento imbarazzante per le ambizioni di un Paese che vuole tornare a venire riconosciuto superpotenza, che fa pensare a un disguido del server provvidenziale per prendere tempo: quando il sito della diplomazia russa torna online, ore dopo, il documento della «risposta» scende in basso nella lista delle notizie, e soprattutto cambia titolo: diventa un anonimo «Comunicato per i media», declassato da quello della risposta ufficiale a un commento su un testo ancora da pubblicare.
Forse una correzione «tecnica»: molti osservatori infatti erano rimasti subito colpiti da un linguaggio molto polemico, più giornalistico che diplomatico, con accuse agli Usa come quelle di aver «rigirato» (tra virgolette nel testo) le proposte russe per renderle più «comode».
O forse un tentativo di rimediare a una cartuccia sparata troppo presto, in una giornata che abbonda di segnali contraddittori provenienti dal Cremlino, dall’espulsione del viceambasciatore americano alle nuove accuse di «genocidio» dei russi contro gli ucraini, alla pioggia di mortai e bombe lungo la linea del fronte nel Donbass.
Casuale o voluto, il giallo del sito della diplomazia russa è sintomatico di questa guerra combattuto sul terreno mediatico ancora prima che nella neve e nel fango al confine con l’Ucraina. I canali russi mostrano carri armati portati via dalla Crimea e treni carichi di blindati che riprendono la strada di ritorno, a voler smentire le accuse del Pentagono sull’assenza di segni tangibili della ritirata promessa da Vladimir Putin.
Una promessa fatta anche quella dagli schermi della televisione, così come la scenografia meticolosamente organizzata dei preparativi: prima il ministro degli Esteri Sergey Lavrov che suggerisce di dare una chance al negoziato, e poi quello della Difesa Sergey Shoigu che comunica il rientro delle truppe alla base dalle «esercitazioni» a Ovest.
Il presidente russo si mostra preoccupato e dubbioso, esige rassicurazioni dai ministri, prima di rassicurare a sua volta – sempre davanti alle telecamere – Olaf Scholz, garantendo di «non volere una guerra in Europa».
Un’esibizione che non può occultare il segnale che, almeno a livello di escalation mediatica, è stato Putin a dover rassicurare e smentire, proprio il giorno prima della data dell’invasione dell’Ucraina annunciata ai giornali americani da «fonti occidentali bene informate». Non c’è dubbio che i suoi cortigiani l’hanno notato.
La «campagna ucraina» era infatti in buona parte diretta proprio a loro, per riproporre il leader russo come insostituibile in tempi di scontro «geopolitico», in vista delle elezioni del 2024. Infatti non è casuale che l’ultimatum sullo stop alla Nato era stato pubblicato sul solito sito del ministero degli Esteri in forma di bozza di trattato da firmare o respingere, un documento pensato per venire rifiutato, offrendo il pretesto per una di quelle escalation dalle quali il capo del Cremlino finora ha sempre guadagnato.
Oggi però perfino i suoi elettori appaiono nei sondaggi terrorizzati da un’ipotesi di guerra, mentre nei sondaggi ucraini i sostenitori dell’adesione alla Nato aumentano al 62%, un risultato opposto a quello che speravano a Mosca.
Il dilemma di Putin resta dunque irrisolvibile: la sua visione del mondo postimperiale non gli concede di rassegnarsi a un’Ucraina che fugge dalla Russia tra le braccia dell’Occidente, ma l’invasione ha un prezzo troppo alto per tutti, in primo luogo i suoi stessi seguaci.
Anche il testo pubblicato dal ministero degli Esteri ieri porta i segni della stessa ambivalenza: plaude al «potenziale per un accordo» con gli Stati Uniti sul disarmo, ma nello stesso tempo ribadisce testardamente tutte le posizioni russe su Crimea, Donbass e Nato.
Potrebbe essere un discorso fatto alla suocera perché nuora intenda, ma l’esistenza di un eventuale scontro all’interno del Cremlino si può intuire soltanto da segnali indiretti ancora più ambigui di quelli mandati dal Politburò dei tempi di Brezhnev. Il compromesso non è mai stato un’arte in cui il putinismo ha brillato. Raggiungerlo e/o imporlo non sarà facile.
(da “La Stampa”)
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