TAGLI E NIENTE IMU, IL CRAC DEI COMUNI PER ACCONTENTARE LA LEGA E SILVIO
IL DISSESTO NON È SOLO COLPA DEI SINDACI, CON FONDI RIDOTTI ORA TOCCA ALLE AMMINISTRAZIONI ELIMINARE SERVIZI CHE NON SANNO COME PAGARE…. ABOLIRE LA TASSA SULLA PRIMA CASA HA INNESCATO IL CAOS
A Milano il buco è di 500 milioni. A Roma di 864, a Napoli di 861, a Catania di 528 milioni.
E questo per stare soltanto ai casi più noti, ricordati qualche giorno fa dal Sole24Ore. Ma ce ne sono mille altri, mezza Sicilia è praticamente in default, Taormina, per esempio, sta per crollare sotto il peso di 50 milioni di euro di debiti.
Che cosa sta succedendo? La spiegazione più classica sarebbe la più semplice e, tutto sommato, rassicurante: tutta colpa dei sindaci spendaccioni, come nel caso di Alessandria, dove da oltre un anno i commissari liquidatori gestiscono le conseguenze del dissesto (il sindaco Piercarlo Fabbio, Pdl, usava le casse comunali per acquisti come quello di un tartufo da 12 mila euro da donare a Silvio Berlusconi).
Purtroppo il fenomeno è più inquietante. Mentre lo spread calava, i governi Monti e Letta annunciavano la fine dell’emergenza, con l’Italia finalmente lontana dal rischio bancarotta, la crisi di finanza pubblica si è spostata a livello locale: i Comuni sono stati immolati per dare una parvenza di solidità alla Repubblica italiana e per concedere a Silvio Berlusconi e al suo Pdl il contentino della abolizione (per ora solo della prima rata) dell’Imu sulla prima casa.
Il groviglio di norme è ostico, ma la sintesi è lampante: i servizi dei Comuni — asili, assistenza sociale, trasporti — erano finanziati in gran parte da trasferimenti dal governo centrale di Roma, soldi che ora non arrivano più.
E i sindaci devono decidere se cancellare i servizi o andare incontro alla bancarotta spendendo soldi che non hanno, emettendo fatture che non salderanno mai.
In teoria, un Comune può spendere soltanto i soldi che ha in cassa, non emette debito pubblico.
Ma il 2013 è un anno particolare: siamo a metà ottobre e i Comuni italiani ancora non hanno approvato il bilancio di previsione per l’anno in corso che doveva essere pronto a fine 2012.
Non l’hanno fatto perchè il governo continua a cambiare le regole e a tagliare fondi, quindi i sindaci non sanno quanti soldi hanno a disposizione per il 2013.
Come hanno superato, quindi, questi dieci mesi? Hanno lavorato “in dodicesimi”, ogni mese spendono un dodicesimo della spesa complessiva del 2012.
Peccato che — quasi sempre — le risorse del 2013 saranno inferiori a quelle dello scorso anno, ma visto che ancora non è chiaro di quanto, i comuni continuano a spendere.
Tradotto: stanno spendendo soldi che non esistono, sono le basi per la bancarotta. E gli 864 milioni di euro di buco che il Comune di Roma non sa come coprire, sono dovuti in parte anche a questa condizione di precarietà contabile.
“I Comuni italiani vanno aiutati perchè non ce la fanno più a sopravvivere”, diceva in aprile la presidente della Camera Laura Boldrini.
Il federalismo alla base del disastro
Questo enorme pasticcio ha tanti padri, dal centrosinistra che negli anni Novanta ha fatto una riforma costituzionale federalista confusa, fino al governo Berlusconi che, spinto dalla Lega, ha imposto un federalismo fiscale lasciato a metà .
Ma i problemi seri cominciano con i tagli delle manovre di austerità di Mario Monti. Un passo indietro: lo scopo del federalismo fiscale era azzerare i trasferimenti dallo Stato centrale ai comuni e dare loro l’autonomia di imporre tributi in misura equivalente, nella convinzione che sindaci più responsabilizzati sarebbero stati molto attenti a spendere bene e a tenere basso il livello di pressione fiscale oppure non sarebbero stati rieletti.
Ma un comune come Cortina d’Ampezzo è pieno di seconde case che generano gettito e deve offrire pochi servizi, perchè i turisti ad alto reddito hanno poche esigenze.
Al contrario, Napoli ha poche opportunità di fare cassa e deve garantire servizi a centinaia di migliaia di persone a basso reddito che non pagano imposte.
Quindi serve comunque un intervento dal centro che sposti risorse dai comuni che hanno molti soldi e poche esigenze a quelli bisognosi.
La legge sul federalismo del 2009 prevede quindi questo schema: una Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff) fissa i costi standard dei servizi e il loro livello minimo — quanto bisogna spendere per avere una corsa di autobus ogni 30 minuti tra periferia e centro? — cosicchè si possano stabilire le esigenze finanziarie di ogni comune.
Se poi un sindaco è privo di risorse per garantire il livello minimo di servizi ha diritto ad accedere a un “fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante”, lo dice l’articolo 119 della Costituzione.
Se ci sono pochi soldi, bisognerebbe avere il coraggio di abbassare il livello dei servizi giudicati essenziali fino al livello che ci possiamo permettere.
Invece Mario Monti ha seguito un’altra linea: ha svuotato il fondo perequativo, sul 2012 ha tagliato 500 milioni di euro e per il 2013 2 miliardi.
Morale: i Comuni hanno perso trasferimenti per 12 miliardi circa, ma nel 2011 hanno ricevuto dal fondo perequativo (cioè sempre da Roma, di fatto) 11,4 miliardi di euro. Nel 2012 soltanto 6,8 e nel 2013 dovevano essere 4,8 miliardi, poi la cancellazione della prima rata dell’Imu (2 miliardi compensati da altri 2,4 la cui distribuzione è da definire) ha reso ancora più incerta la somma.
Non parliamo poi delle incognite sulla seconda rata che vale 2,4 miliardi.
Il governo ha detto ai Comuni che non dovranno riscuoterla, ma nulla si sa su come e dove lo Stato troverà i soldi per compensare il mancato gettito.
Detto in altro modo: i trasferimenti dal governo centrale agli enti locali sono stati ridotti, tra il 2010 e il 2012, del 19 per cento, le tasse locali sono cresciute dell’11.
Ma la spesa finale degli enti locali è calata solo del 5 per cento (e gran parte di questo taglio è dovuto a una drastica riduzione del 22 per cento degli investimenti).
Il conto non è in pareggio e quindi i comuni vanno in default.
Perchè, come ha comunicato la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff) al Fondo monetario internazionale lo scorso 3 luglio, nella finanza regionale “tutte le principali misure di attuazione sono mancanti”.
I debiti che non compaiono nei bilanci ufficiali
Per complicare ancora le cose, il governo Letta ha sostituito il fondo perequativo con un nuovo “fondo di solidarietà comunale”: il 16 settembre il governo ha comunicato di aver erogato — dal ministero dell’Interno — 2,5 miliardi di euro.
Pochini per coprire tutte le esigenze, quale sarà la somma finale non è dato sapere.
Per avere il quadro complessivo bisogna aggiungere due dati.
Ci sono comuni che sono riusciti a evitare il dissesto finanziario, e il conseguente arrivo di un commissario al posto del sindaco, grazie alla legge salva-Napoli del 2012, approvata da Monti, che introduce lo “stato di pre-dissesto” per le città quasi-fallite. Questi Comuni (da Napoli a Campione d’Italia) possono ottenere un prestito di 100 euro per abitante da restituire in 10 anni da un “fondo rotativo”.
Che ruota nel senso che dei 270 milioni ricevuti, ogni anno Napoli dovrebbe rimetterne nel fondo 27, cosicchè altri Comuni possano beneficiare di analogo supporto.
Peccato che, con il calo dei trasferimenti, la crisi e tutto il resto, per le città in pre-dissesto sia sempre più difficile restituire il dovuto.
Secondo dato da ricordare: i debiti fuori bilancio. Per anni i Comuni hanno accumulato passività mai registrate, fatture emesse ma non contabilizzate, soldi da pagare che però non risultavano nel bilancio ufficiale: erano 494 milioni di euro nel 2003, sono arrivati a 1,2 miliardi nel 2012 (ammesso che questa cifra sia definitiva visto che, come ovvio, finchè restano fuori bilancio i debiti sono difficili da contare). Il buco, insomma, è ancora più vasto di quanto sembra.
Stefano Feltri
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