TRUMP HA DOVUTO FARE DIETROFRONT SUI DAZI, CON UNO STOP DI 90 GIORNI, PERCHE’ I TITOLI DI STATO AMERICANO ERANO FINITI SOTTO TIRO SUI MERCATI: IN POCHI GIORNI, I LORO RENDIMENTI SI SONO IMPENNATI DA MENO DEL 4% A UN PICCO DI QUASI IL 4,5%
“QUALCUNO STAVA VENDENDO LA CARTA SOVRANA DELL’AMERICA, IL CUI COSTO DEL DEBITO SALIVA. POTEVANO ESSERE FONDI A CACCIA DI DENARO DOPO LE PERDITE DI BORSA. O POTEVA ESSERE IL VIRUS DELLA SFIDUCIA VERSO L’IMMENSO DEBITO AMERICANO E VERSO UNA MONETA DI RISERVA MONDIALE NELLE MANI DI TRUMP. E POTEVA ANCHE ESSERE LA CINA… XI CONTA SUL FATTO CHE LA SOCIETÀ AMERICANA NON SIA CAPACE DI AFFRONTARE COESA UNA RECESSIONE PRODOTTA DALLE TENSIONI GEOPOLITICHE; MA SA CHE I CINESI ACCETTEREBBERO I SACRIFICI, IN NOME DELL’ONORE DELLA NAZIONE”
Dopo 18 mila miliardi di dollari di valore azionario spazzato via dal suo ingresso alla Casa Bianca, dopo 14.500 miliardi volatilizzati dalle borse mondiali solo nei cinque giorni lavorativi dall’annuncio dei dazi «reciproci» — perdite medie per oltre 50 mila dollari per ogni americano sul risparmio in azioni — Donald Trump tenta la prima marcia indietro. Quando ne ha dato l’annuncio lui stesso ieri, la capitalizzazione di mercato sparita nelle prime undici settimane della sua presidenza era simile al prodotto lordo della Cina: la prima (di gran lunga) economia al mondo per volumi di produzione
Avrà pesato il rischio concreto di una recessione americana autoinflitta e targata Trump. Ma dev’essere stata un’occhiata più ampia alla situazione, a far capire al presidente che non poteva tenere. Stavolta c’era un’anomalia in più a segnalare alla Casa Bianca che «non ha le carte». Di solito nelle tempeste gli investitori comprano prodotti americani quali beni rifugio sicuri: i titoli del Tesoro e dunque il dollaro. Entrambi tradizionalmente salgono di valore e scendono dunque in modo speculare i costi del crescente debito del governo americano.
In questa crisi, stranamente, accadeva al contrario. E poteva anche essere un sintomo della debolezza finanziaria dalla quale gli Stati Uniti stanno dichiarando la loro «guerra economica» al resto del mondo, nella definizione dell’investitore Warren Buffett
Dal Liberation Day dei dazi alla parziale ritirata di ieri, il dollaro aveva già perso il 2% sulla media delle altre principali valute: un’immensità, per il valore più liquido al mondo.
Quanto ai titoli di Stato Usa a dieci anni, i loro rendimenti si sono impennati da meno del 4% a un picco di quasi il 4,5%. Qualcuno stava vendendo pesantemente la carta sovrana dell’America, il cui costo del debito saliva. Potevano essere fondi a caccia di denaro dopo le perdite di borsa. O poteva essere la prima, minima comparsa del virus della sfiducia verso l’immenso debito americano e verso una moneta di riserva mondiale nelle mani di Donald Trump: quello status del biglietto verde non è più semplicemente scontato per il futuro.
E poteva anche essere, in parte, la Cina. Il debito pubblico americano detenuto nelle riserve di Pechino è sceso da 1.300 miliardi nel 2013 a 761 agli ultimi dati; la sua quota è più che dimezzata. Ora la banca centrale cinese sta limitando i rinnovi dei titoli Usa in scadenza e semmai indica agli operatori di accumulare oro.
Le misure della Casa Bianca di ieri puntano a isolare la Cina. Ma Xi Jinping dev’essersi convinto che ha le leve per piegare Trump e non solo grazie al debito Usa ancora nelle sue mani o per le potenziali ritorsioni contro gli impianti di Tesla e della Apple nella Repubblica popolare. C’è anche altro: Trump vuole smaniosamente il controllo (tramite capitalisti amici) della rete americana della cinese TikTok, a fini di propaganda politica, ma il negoziato per la sua vendita è bloccato.
E ora Xi è anche pronto a rinunciare a quel 14,6% di export della Cina che va negli Stati Uniti pur di segnare un punto nella rivalità fra potenze. Conta sul fatto che la società americana oggi non sia capace di affrontare coesa una recessione prodotta dalle tensioni geopolitiche; ma sa che i cinesi accetterebbero questo ed altri sacrifici, in nome dell’onore della nazione.
Federico Fubini
per il “Corriere della Sera”
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