UNGHERIA, POLONIA, REP. CECA, BIELORUSSIA, RUSSIA, SLOVENIA: DOVE LA LIBERTA’ DI STAMPA VUOL DIRE PRIGIONE
TRA DITTATURE SOVRANISTE E DEMOCRAZIE ILLIBERALI
Non è stata ancora ufficialmente tracciata, ma esiste una mappa nel territorio compreso tra Varsavia e Mosca, dove stampa vuol dire solo propaganda e la libertà di parola equivale alla prigione.
Tra Budapest, Varsavia, Praga — e all’elenco si aggiunge in fila anche Lubiana — fiorisce, come in una capsula di petri, il soggetto ibrido delle democrazie illiberali dell’est, con un perimetro che va allargandosi, senza argine che possa contenerlo all’orizzonte.
Se nella Bielorussia di Lukashenko, dove sono state appena condannate a due anni di galera due giornaliste ventenni della tv Belsat, “vediamo un approccio dittatoriale tradizionale, quello classico dei regimi, verso reporter arrestati arbitrariamente, nella zona centro-orientale gli attacchi ai media sono più sofisticati, mirati a distorcere il mercato editoriale e dividere la comunità di giornalisti”.
Con immediatezza, dagli uffici dell’organizzazione European Centre for Press and Media Freedom risponde il responsabile Laurens Hueting: “l’Europa ha fallito nell’intervenire nei momenti più cruciali per mancanza di riconoscimento del problema, composto, nell’area centro-orientale, da un complesso sistema di leggi ed abusi legislativi, sfruttamento degli aiuti di Stato, distorsione del mercato pubblicitario, il tutto inserito in un’atmosfera in cui il giornalismo indipendente è soggetto a molestie digitali quanto reali”.
Alcuni Paesi in cui la stampa libera è minacciata sono membri d’Europa e Nato, ma fino a ieri orbitavano nella sfera del Cremlino sovietico: “più che un paradosso, una vergogna che la lezione sull’assenza di libertà non sia stata appresa, un peccato che non abbiano capito quanto sia importante il giornalismo indipendente e l’hanno represso invece di rafforzarlo”.
Tra tutte è l’Ungheria il più antico e primario esempio di democrazia illiberale: a Budapest “un sistema mediatico allineato al potere è stato costruito mentre contemporaneamente quello indipendente veniva eliminato, o comprato o messo al bando, o comunque buttato fuori dal mercato”.
A Varsavia le pagine di giornali e siti sono rimaste oscurate, nere come il lutto e come il futuro che attende i media nazionali, dopo la decisione del governo di tassare del 5% le pubblicità , che andranno a finanziare contenuti nazionalistici e allineati alla narrazione del Pis, partito al potere Diritto e Giustizia.
Per distogliere l’attenzione dall’inettitudine e dalla corruzione ormai endogena del suo sistema, letteralmente e metaforicamente, a Budapest, regna il silenzio: sono stati chiusi o comprati, uno dopo l’altro, i giornali non vicini alle politiche del governo, e non trasmette più dallo scorso 14 febbraio nemmeno Klubradio, l’ultimo radio libera di criticare il governo sovranista di Orban.
Come a domino, una dopo l’altra, le Capitali dell’est sono cadute tutte tra le mani di leader repressivi: “un Paese che è divenuto esempio da manuale delle democrazie illiberali, il primo Stato che ha smantellando i media in maniera sistematica e minatoria è l’Ungheria”, testa d’ariete del gruppo di Visegrad, unitosi all’Unione nel 2004. Le piccole Budapest che si replicano da Lubiana a Praga “guardano tutte al modello Orban o quello del Pis polacco: usano quelle tattiche adattandole ai territori in cui operano”. È quella che Laurens chiama “morte per un migliaio di tagli”.
Sempre schierate e pronte nelle dichiarazioni, ma inermi nelle azioni incisive che tardano a intraprendere, le istituzioni europee assistono mute mentre cresce e si allarga la piccola Unione di illiberali all’interno dell’Unione più estesa. Zitta come i giornalisti nelle piccole patrie europee dell’est, sta anche la “vecchia” Europa, però avvolta da un silenzio diverso, quello asfittico degli stanchi, dei rassegnati, che la storia chiamerà complici.
Se Bruxelles non si muove, l’ultima generazione centro-orientale invece continua a farlo, e per le strade dove si affacciano le finestre delle autorità , marcia per sfidarle, spesso a temperature che scendono sotto lo zero del meteo e dei diritti umani.
Accade in Bielorussia come in Polonia, dove trascinati dalle ragazze e dal movimento Straik Kobiet, “sciopero delle donne”, anche gli uomini sono finiti in piazza nonostante manganelli, arresti e idranti per avere diritto di scelta, di parola e opposizione, civile e politica.
Non si prescinde dalla forza delle immagini, quando diventano icone: l’ultima di Bratislava porta il volto dell’impavido e giovanissimo reporter anti-corruzione Jan Kuciak, assassinato nel 2018 insieme alla sua fidanzata Martina. L’anniversario della sua morte verrà celebrato domenica prossima come esempio di lotta estrema per ottenere giustizia. L’omicidio più vergognoso della storia della Slovacchia indipendente ha portato alla caduta del governo vicino alla criminalità organizzata e alle più partecipate manifestazioni dalle marce contro Mosca del 1989, perchè, infine, la storia centro-orientale, sta dimostrando che è vero anche quello che scrisse Holdering: “dove c’è pericolo, cresce anche ciò che lo salva”.
(da Open)
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