USA, I DEMOCRATICI VOLTANO PAGINA: TRAMONTA IL PARTITO DEI CLAN E DELLE DINASTIE
L’UNITA’ PER ORA E’ GARANTITA DALL’INCUBO TRUMP, MA C’E’ UNA NUOVA LINFA: QUELLA DELLA SPERANZA E DELLA TOLLERANZA
Non solo il canto del cigno di Joe Biden col passaggio del testimone a Kamala Harris. I quattro magmatici, eccitatissimi giorni della United arena hanno disegnato un cambiamento più profondo del semplice commiato del leader troppo vecchio per affrontare un nuovo mandato. È tutta la gerontocrazia di un partito da sempre più complesso di quello repubblicano ad arrivare al crepuscolo. E con essa tramonta anche il partito dei clan e delle dinastie.
Avrebbe potuto provare a crearne un’altra — dopo quella dei Kennedy e dei Clinton — Michelle Obama. E molti, affascinati dal suo intervento — il più lucido, appassionato, trascinante di tutta la convention, intriso di umanità, orgoglio e passione civile — sono rammaricati dalla rinuncia della ex first lady. Ma Michelle ha sempre respinto l’idea di un ritorno alla Casa Bianca e l’altra sera, con l’energia che ha diffuso nell’arena di Chicago, ha fatto apparire Barack Obama, che ha parlato dopo di lei, un politico che non riesce più a scaldare i cuori: un leader consapevole dei mutamenti in atto che, dopo aver ironizzato sul suo rapido invecchiamento, ha pronunciato un discorso politicamente acuto ma non trascinante, sigillato dal tentativo un po’ patetico di riesumare gli slogan del 2008, declinati al femminile: «Yes she can».
Poi Bill Clinton che prova ancora una volta a essere mattatore: ignora in gran parte il testo del discorso scritto, parla per quasi mezz’ora invece dei 12 minuti previsti, ma ha un volto tirato, quasi irriconoscibile, e le battute più efficaci le pronuncia con un filo di voce. Nancy Pelosi sale sul palco poco dopo: è più vivace e dinamica di Clinton nonostante i suoi 84 anni. È stata la regista delle pressioni concentriche su Biden, rimane una ex speaker dal grande intuito politico, ma non riesce a regalare al popolo della convention molto più di un enfatico tentativo di ricucire col presidente, accompagnato dagli ampi gesti delle sue mani ossute.
E poi Hillary Clinton sorprendentemente calda, empatica, limpida, finalmente in pace con se stessa avendo accettato di essere arrivata al suo capolinea politico. E Bernie Sanders, lucidissimo a dispetto degli 82 anni: consapevole della sua trasformazione in icona di una sinistra radicale ormai guidata dalla generazione di Ocasio Cortez, sempre più adulta, avveduta, pragmatica.
È un cambiamento epocale: clan e dinastie hanno prodotto clientele, ma sono stati anche un collante prezioso per un partito da sempre obbligato a tenere insieme anime molto diverse. Quale sarà la struttura del nuovo fonte democratico? I leoni del «partito dei governatori» — il nero del Maryland Wes Moore, il bianco del Kentucky Andy Beshear che piace ai moderati dell’«America profonda», l’ebreo della Pennsylvania Josh Shapiro, la progressista del Michigan Gretchen Whitmer — riusciranno a fare squadra? E Kamala Harris, che ora vola sulle ali dell’entusiasmo, ma solo di recente ha cominciato a costruire una rete di alleanze nel partito soprattutto intorno alla libertà di procreazione, avrà la forza di tenere insieme una coalizione sempre più sfaccettata nel grande mix di etnie, culture, fedi religiose, identità di genere?
Karl Rove, stratega repubblicano delle vittorie di George Bush, avverte Trump: «Normalmente i democratici sono entusiasti, si innamorano, mentre i repubblicani sono disciplinati, si allineano. Stavolta la sinistra sembra tanto entusiasta quando disciplinata: se resta allineata dietro Kamala per la destra saranno guai». Quello della gioia, della speranza e della tolleranza potrebbe diventare il nuovo collante del partito di Kamala. Ma per ora a garantire l’unità c’è soprattutto lo spettro di Trump 2. E il sequel, come ha detto l’altra sera Barack Obama, è solitamente peggiore dell’originale.
(da Il Corriere della Sera)
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