“VI RACCONTO IL LAVORO DEI VOLONTARI”: INTERVISTA A ILEANA, OSTETRICA DI GUERRA PER SCELTA
HA 28 ANNI E OPERA PER MEDICI SENZA FRONTIERE: “SE QUELLI CHE CI ATTACCANO AVESSERO VISTO QUELLO CHE HO VISTO IO, NON AVREBBERO PIU’ PAROLE”
“Aiutiamoli a casa loro” è il mantra che viene ripetuto in questi anni, diventato una specie di scudo per chi vorrebbe impedire l’arrivo dei migranti.
Come dire: “Io non voglio che arrivino nel mio Paese, ma non sono razzista eh, non dico di non aiutarli, ma di aiutarli a casa loro”.
È una frase che di per sè non sarebbe negativa, in fondo stiamo parlando di dare aiuto. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi rimane una frase vuota, dietro a cui non c’è nulla.
E si riduce solo a un “tenetemi lontano il problema”. Aiutare significa collaborare, non allontanare; significa occuparsi della questione, non semplicemente non volerla sotto casa. Eppure le stesse persone che intonano il solito “aiutiamoli a casa loro” aggrediscono le Ong che, come Medici Senza Frontiere, nei territori di guerra sono unici luoghi di soccorso. Ho incontrato una persona che ha deciso concretamente di aiutare a casa loro. Si chiama Ileana Boneschi.
Perchè una ragazza italiana, di 28 anni, con una formazione da ballerina decide di diventare ostetrica in zone di guerra? Slancio mistico? Voglia di farla finita con una vita ordinaria? Nulla di tutto questo, ma per saperlo ho dovuto incontrarla Ileana che ha un corpo da danzatrice e un viso rinascimentale, con spigolosità nobili del mento e degli zigomi. Ileana è un’ostetrica di Medici Senza Frontiere e fa nascere bambini in zone di guerra, dove esistono emergenze sanitarie che non riusciamo nemmeno a immaginare, dove ogni parto è un miracolo. “Non si parla mai delle donne incinte quando si pensa a una guerra”, dice. Ed è proprio così. Ileana ha partecipato a due missioni in Sud Sudan dove è in atto una guerra etnica e ha assistito nel parto donne che quando non riescono a raggiungere gli ambulatori di Medici Senza Frontiere, partoriscono dove capita, in baracche, ma anche nelle paludi, se stanno scappando. “Ho visto clampare e tagliare i cordoni ombelicali con cose stranissime: fili di fieno, fili d’erba, piccoli pezzi di cotone per legarli; pezzi di vetro o di lamiera per tagliarlo, con il rischio consistente di infezione da tetano”.
Come hai deciso di diventare un’ostetrica? Hai detto che studiavi danza… poi cos’è successo?
“Ho studiato danza da quando ero piccina, dai tempi dell’asilo. Ero uno scricciolo… Mi piaceva da morire, era bellissimo. Poi sono cresciuta e ho fatto il liceo artistico. Tra le cose più importanti che l’artistico mi ha dato c’è l’aver allenato la mia sensibilità a meravigliarsi del mondo. Ricordo che in quegli anni, che erano già gli anni Duemila, la mia attenzione cadeva su storie che arrivavano da mondi lontani. Storie di sofferenza e ingiustizia. Ed è lì che ho cominciato a percepire questo stato di debito che avevo nei confronti della vita: da una parte io, più che fortunata, dall’altra gente che non aveva niente, nemmeno mezza delle fortune che avevo io, ogni giorno. E quel debito lo soffrivo, come lo soffro ora e quindi l’unico modo che ho trovato per riuscire a gestirlo è stato chiedermi: cosa faccio per combatterlo?”.
E cosa hai fatto?
“Sapevo che saldare quel debito era impossibile, però potevo fare qualcosa per bilanciare un po’ la fortuna che mi accompagna da sempre”.
La politica, l’impegno sociale…
“Grandi pensieri, massimi sistemi… fuffa ai miei occhi. Tutti possono avere idee ma poi ciò che cambia è l’azione. Io ero per l’azione, per fare una cosa pratica, che avesse un impatto immediato, tangibile”.
E quindi…
“Pensai che diventare medico fosse il modo migliore per riuscire a fare questa cosa, e non un medico a caso, ma un chirurgo di guerra, proprio perchè la chirurgia non è solo di testa ma è anche di mani, di pratica, e io sentivo il bisogno di fare qualcosa. Quando ho compiuto i 18 anni i miei genitori mi regalarono Pappagalli verdi di Gino Strada e nella dedica mi scrissero: ‘Temiamo che ci stiamo facendo un autogol regalandoti questo libro’. Sapevano che mi avrebbe portato lontano da loro”.
Autogol realizzato.
“Avevano capito esattamente verso cosa mi stavo muovendo ma non hanno contrastato la mia inclinazione, anzi hanno incoraggiato la mia formazione”.
È l’unico modo per essere genitori liberi: non bloccare il talento dei figli ma impegnarsi per renderlo il più possibile consapevole. Ma non sei diventata chirurgo però.
“No! Feci il test per Medicina, ma non lo passai per un quarto di punto, un maledetto – o benedetto, chi lo sa? – quarto di punto. Però avevo provato anche l’ingresso al corso di laurea in Ostetricia, ed entrai. Avrei potuto ritentare il test per Medicina l’anno successivo, ma avevo troppa fretta di fare. Iniziai Ostetricia e presto mi appassionai perchè è un lavoro meraviglioso. Durante il corso di studio avevo bisogno di dirmi: ‘ho fatto questa scelta per poi lavorare là ‘”.
Là dove?
“Là in Africa, dove c’è bisogno”.
E sei andata in Africa.
“Alla fine del primo anno, d’estate, andai in Africa come volontaria. Facevo assistenza ad ex ragazzi di strada di Nairobi, una realtà molto pesante tuttora. Tornai dall’Africa ancora più carica. Quindi mi laureai in Ostetricia. Subito dopo la laurea partii per il Kenya come volontaria con altre due compagne di corso. Passammo 3-4 mesi in ospedali missionari”.
Tutto lavoro volontario?
“Certo. Ai tempi nessuno ancora ci avrebbe pagato: eravamo alle prime armi”.
Come andò?
“Non fu un’esperienza semplice, sia dal punto di vista professionale, perchè eravamo appena laureate, sia dal punto di vista personale. Poi tornai in Italia, e per quanto volessi ripartire presto, sapevo che se avessi voluto fare l’ostetrica professionista in un mondo a basse risorse, avrei dovuto prima diventare un professionista e migliorare lavorando in Italia”.
E quindi, lavorando in Italia, come ti sei formata sul campo? Quando trovavi il tempo?
“Durante le ferie”.
Le ferie?
“Sì, proprio così. Quando avevo delle ferie cercavo di ripartire anche solo per qualche settimana, per dare una mano in piccoli ospedali perchè il mio obiettivo era raggiungere i requisiti per fare l’application”.
Per Medici senza frontiere?
“Sì! Era il Ferragosto del 2013. Scelsi Msf perchè la sentivo assolutamente vicina alla mia idea di assistenza medica in certi contesti. Essendo un’associazione gigante non davo affatto per scontato che mi prendessero. Ma a ottobre 2013, mentre ero in reparto, mi arrivò una chiamata da Roma: ricordo la frase ‘Benvenuta in Msf!’, mi sciolsi”.
Sai che alla tua età molte tue coetanee userebbero questa espressione “mi sciolsi” per descrivere altre situazioni? Magari un mutuo accettato, un lavoro a tempo indeterminato, tu ti sei sciolta appena hai saputo che saresti andata a lavorare in territori di guerra?
“Per me essere dentro Msf era la felicità massima. Ho frequentato un corso di preparazione pre-partenza che ti fa fare proprio Msf in cui ti danno delle nozioni su come gestire lo stress in missione, perchè non siamo chiamati a fare solo lavoro di clinica, ma anche di selezione dello staff e di formazione. E nel frattempo da Roma cercano di matchare il tuo profilo con l’effettivo bisogno della missione”.
Dove ti mandarono?
“Sarei dovuta partire per il Myanmar, principalmente per dare assistenza ai Rohingya ma poi per problemi di sicurezza la missione viene ridotta e non partii più”.
Prima missione subito fallita. Ci sei rimasta male?
“No, capisco subito che in Msf il primo requisito è la flessibilità perchè come è naturale per territori dove c’è instabilità , i piani possono cambiare all’ultimo minuto. Poi però sono partita davvero”.
Per dove?
“Per il Sud Sudan dove l’unico modo per spostarsi sono questi piccoli aerei caravan di Msf. Arrivo a Nasir, nell’Upper Nile State e inizio a capire come vanno le cose. Dopo quarantott’ore mi dicono che la linea del fronte si sta spostando verso l’ospedale – noi eravamo in zona ribelle – e quindi era il caso di ridurre il numero di espatriati (gli espatriati, nelle missioni, sono le persone dello staff internazionale ndr) del progetto. Ero l’ultima arrivata e mi chiedono se posso tornare a Juba. Rientro successivamente a Nasir e abbiamo informazioni che i soldati stanno avanzando molto velocemente verso la zona dove si trova l’ospedale, quindi tutto il nostro team deve mettere in pratica il piano di evacuazione attraverso il fiume Sobat, direzione Etiopia. È buio, prendiamo la barca e percorriamo per un pezzo il fiume. Sbarchiamo e dormiamo nel nulla; nella direzione opposta vediamo uomini e ragazzi ubriachissimi che sfrecciavano verso il fronte sparando a salve per gasarsi”.
Che ne fu dell’ospedale a Nasir?
“Completamente distrutto. Le sacche di sangue strappate e il sangue versato ovunque. Un gesto barbaro per dire voglio ucciderti e voglio eliminare quei pochi strumenti che hai per curarti”.
Hai avuto paura?
“Può sembrare strano, ma mai. Msf ha una gestione della sicurezza che secondo me è fenomenale ed è lo strumento essenziale per fare missioni in posti remoti mettendoti nelle condizioni di sentirti sicuro. Se non sei protetto, non hai la condizione fisica e mentale per poterti dedicare alle persone per cui sei lì. C’è gente che si occupa della tua sicurezza in modo che tu possa occuparti dei tuoi pazienti”.
E qual è il tuo lavoro lì?
“Quando si fugge, quando la popolazione resta per settimane lontana dai villaggi la prima emergenza è la malnutrizione. Adulti e bambini sono tutti scheletri che camminano. In queste condizioni, per prima cosa bisogna farsi arrivare plumpynut, ovvero il cibo terapeutico che pesa moltissimo e per il quale servono molti voli, ma durante la stagione delle piogge le piste diventano un mare di fango e far arrivare ciò che serve è complicatissimo. Poi allestire una sala operatoria cosa fondamentale per salvare le donne, quando i tagli cesarei sono indispensabili. I trasferimenti all’ospedale di Bentiu a 130 km di distanza erano difficilissimi, questo vuol dire che le donne che non sono riuscita a trasferire le ho perse davanti ai miei occhi. E poi le trasfusioni: se c’è bisogno di una trasfusione trovare un donatore compatibile tra Hiv e malattie sessualmente trasmissibili è come vincere alla lotteria”.
Come non farsi dominare dallo sconforto?
“Imparo da loro. I sudsudanesi sono forti sin dalla nascita. Spesso arrivano bambini di uno o due giorni di vita con gravi infezioni in atto che con due dosi di antibiotico generico e un po’ di ossigeno riescono a riprendersi. La notte la situazione sembrava persa, ma al mattino li trovavo attaccati al seno e dopo pochi giorni li dimettevamo. La loro forza è incredibile ai miei occhi”.
Poi sei rientrata in Italia…
“Sì, ma poi di nuovo in Sud Sudan e questa volta a Bentiu dove c’è un campo rifugiati che ospita circa 110mila persone ed è sotto la protezione delle Nazioni Unite. Lì Msf ha un grande ospedale con una piccola sala operatoria”.
Come gestite gli aiuti in situazioni di tale affollamento?
“Una cosa che ci tengo a dire è che lo staff di Msf si basa sugli espatriati internazionali, quindi su chi va e viene, ma lo staff è soprattutto locale, quindi persone che danno un contributo fondamentale, stanno vivendo sulla propria pelle le tragedie dei loro paesi, persone vulnerabili perchè stanno soffrendo moltissimo. Eppure ogni mattina hanno la forza di presentarsi nel nostro ospedale e fare i loro turni. Questa cosa io la trovo eroica”.
Come vedi la situazione in Sud Sudan
“Drammatica. Se si pensa, ad esempio che la violenza sessuale è una realtà estremamente diffusa ed è usata come arma di guerra. Io avevo a che fare con vittime abusate da gruppi rivali ma il giorno dopo poteva accadere il contrario. Il Sud Sudan è un paese che vive di aiuti umanitari e la situazione non è in via di miglioramento quindi resterà dipendente dalle ong per molto tempo”.
Qui non si fanno più figli, invece là se ne fanno moltissimi
“La differenza credo risieda nella possibilità di poter fare delle scelte. Se non vedi alternative riproduci i modelli che hai. L’hai visto fare a tua nonna, a tua madre, a tua sorella… Non avere mezzi di comunicazione, l’essere nata e cresciuta nel bel mezzo del niente ti conduce a fare ciò che hai visto fare. Qui per quanto le donne spesso non siano libere di scegliere quello che vorrebbero fare in un determinato momento, almeno sono a conoscenza di come la questione di fare bambini si possa affrontare in modi diversi. Secondo me questa è la chiave. Se poi penso al Sud Sudan, in quel contesto le cose semplicemente succedono alle persone, soprattutto alle donne. A loro succede anche di partorire nelle paludi, un parto in acqua un po’ diverso da come lo intendiamo noi”.
Nelle paludi?
“Sì. Quando sono tornata in Sud Sudan, a Bentiu, ebbi modo di lavorare con lo stesso staff con cui avevo lavorato due anni prima, perchè nel frattempo loro avevano dovuto lasciare Leer. Mi raccontarono quella che era stata la fuga della popolazione dai soldati. Per mesi uomini, donne, bambini e anziani si erano dovuti nascondere di notte nelle paludi. Le ostetriche mi raccontavano di parti che avevano assistito con grande ansia perchè lì non avevano veramente nulla. Nulla con cui aiutare con le donne, non un paio di guanti, non un posto dove metterle al pulito, niente per scaldare il bambino dopo la nascita”.
Ma la contraccezione?
“Anche chi conosce i metodi contraccettivi fa molti figli perchè considerano i bambini sempre un dono e perchè sanno che un’alta percentuale di loro non sopravvivrà . È difficile far passare il messaggio che se potessero distanziare un po’ di più le gravidanze e investire più risorse sui piccoli che hanno potrebbero invece far sì che tutti i bimbi riescano ad arrivare all’età adulta”.
Essere madre in Sudan, in Iraq, ed essere madre in Italia. Sembra che faccia più paura alle donne europee partorire che a quelle africane.
“Noi in Italia, in linea di massima a 30 anni cominciamo a pensare di voler avere un bambino, e come esperienza, quando accade, ci si presenta come totalmente nuova, complicata, lontana persino estranea. Mentre se sei sudsudanese, un bambino che nasce e che cresce è così frequente nella tua vita che, nonostante le difficoltà , è molto più ‘semplice’ da affrontare. Per una madre italiana – lo vedo dalle donne che assisto – nonostante ci siano molti più mezzi per sostenere il figlio e proteggere il parto, tutto è molto più complicato. Le donne tutte le notti si nascondono nella palude, un parto in acqua un po’ diverso. In Iraq i mariti noleggiano taxi per accompagnare le mogli in ospedale e la nostra difficoltà maggiore avviene quando, dopo il parto, non riusciamo a trattenere in ospedale sotto osservazione madre e figlio nemmeno per due ore, considerando che le linee guida impongono un’osservazione di almeno 24 ore. Vanno via, per ridurre i costi del noleggio delle auto e non c’è nulla che noi possiamo fare per impedirlo”.
Qual è la differenza di mezzi disponibili tra una sala parto di un Paese a basse risorse e una sala parto di un Paese sviluppato?
“Msf è molto forte nel voler garantire degli standard alti, sopra la sufficienza: quando apre una maternità si assicura che tutti gli strumenti essenziali siano presenti. Ad esempio la sterilizzazione dei ferri, senza questo la maternità non apre. Ovviamente deve essere tutto manuale, nulla è elettrico, perchè la nostra capacità elettrica nei vari progetti può essere molto varia, quindi dobbiamo essere sicuri del funzionamento dei macchinari anche in assenza di corrente”.
Hai detto che, nonostante le difficoltà che queste mamme sono costrette a vivere in guerra, dopo il parto una volta superata la fatica fisica, la prima sensazione che senti in loro è la gioia.
“La prima espressione è sempre di stanchezza totale, il corpo ha sperimentato un dolore gigante. Però quando la mamma prende in braccio il bambino c’è tantissima gioia. Le donne sanno che il percorso di nascita presenta molti rischi quindi quando partoriscono e vedono che il bambino piange, è vivo e sta bene e che anche loro sono vive e stanno bene, sono meravigliate e felici”.
Ileana in queste storie misura la resistenza delle donne.
“Ricordo il caso di una ragazza molto giovane in Sud Sudan, rimasta incinta dopo una violenza sessuale da parte di un soldato durante un attacco alla popolazione civile. Era al suo primo bambino, e venne al nostro presidio maternità accompagnata dal fratello (cosa strana perchè di solito sono le donne a fare assistenza, gli uomini normalmente in sala parto non entrano): iniziò il suo travaglio, ma il bambino non aveva più battito, era morto in utero per una malformazione fetale. Tra l’altro il bambino era podalico, quindi un parto difficile… Lei è stata in travaglio tutta la notte senza emettere il minimo suono di lamento, con una forza incredibile, fino al momento del parto, senza nemmeno aver vicina una mamma o una sorella che le potesse dire una parola di conforto. È quella secondo me la forza, una forza che sembra dire: ‘Nonostante ne abbia passate di tutti i colori adesso sono qui e lotto per liberarmi da questa situazione'”.
Che ne pensi delle polemiche di questi giorni sulle ong? Ti sei fatta un’idea del perchè siano partite e quale sia il loro scopo?
“Se tutti quelli che commentano e alimentano questa polemica avessero visto una mamma o un bambino in difficoltà , nessuno avrebbe più parole, ma tutti si metterebbero a fare”.
Ileana è una delle moltissime anime di Msf che come altre Ong organizza la solidarietà non rendendola una parola vuota o sospetta.
Ho voluto che si raccontasse perchè il racconto è la migliore risposta, forse l’unica, alle insinuazioni di questi giorni.
Persone come Ileana hanno trasformato l’aiutiamoli a casa loro nella più umana delle declinazioni: aiutiamoci.
(da “La Repubblica”)
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