ZARZIS, FRONTE DEL PORTO: DA QUI SALPANO I BARCONI TUNISINI DELLA DISPERAZIONE
I GENITORI NON RIESCONO PIU’ A TRATTENERE I FIGLI CHE ASPIRANO A UN FUTURO MIGLIORE
Gli ultimi barconi, carichi di migranti, sono partiti la sera prima. Stamani sulla spiaggia di Hessi Jarbi restano solo bottiglie di plastica vuote: hanno bevuto acqua nell’attesa di salpare, aspettando il momento migliore.
Giovani dell’Africa subsahariana ma ormai sempre più di questa Tunisia in crisi, senza futuro apparente. La sabbia candida di Hessi Jarbi brilla sulla costa a nord di Zarzis, città tunisina di 75mila abitanti, a un’ottantina di km dalla Libia, tra una serie di albergoni: tanti sono relitti abbandonati, perché il turismo all inclusive non funziona più e il Covid è stato l’ultima mazzata.
A pochi chilometri, in campagna, iniziano i campi d’olivi, l’altra ricchezza di Zarzis, dai tempi degli antichi romani. Ma la siccità imperversa da quattro anni e i rendimenti sono in caduta libera.
Pure le risorse ittiche calano, come in tutto il Mediterraneo: la vita del pescatore è sempre più dura. Ieri sera sono fuggiti da tutto questo. In una zona un tempo prospera, oggi in decadenza, gli emigranti non sono più anime di passaggio ma i ragazzi del posto. Alcuni incidono con la punta del coltello il proprio nome sugli scogli. Karim e Nour sono passati da qui.
Nel centro della città, un gruppo di famiglie presidia la piazza del Municipio. Anche i loro figli se ne sono andati una sera, il 21 settembre scorso. Ma a Lampedusa, a 260 km da qui, non sono mai arrivati. “Io non sapevo neppure che Louay fosse partito”, racconta il padre, Karim Ben Abdelkelim, pescatore. Non sa dove abbia trovato i 7mila dinari (2200 euro), necessari per pagarsi un posto su un barcone, spesso scassato e sovraffollato: la tariffa dei “passeur” lievita perché la domanda cresce. Louay, 15 anni, studiava e faceva dei lavori stagionali. Quando non è rientrato a dormire, Karim ha capito.
Con gli altri genitori (erano 17 su quel barcone), ha chiesto alla guardia costiera di andarli a cercare, ma loro non si sono mossi. Dopo pochi giorni, hanno ritrovato un cadavere in mare, verso l’isola di Gerba. Altri sei corpi di quei naufraghi sono stati ripescati e identificati. Ma tre erano stati sotterrati in fretta al Jardin d’Afrique, tripudio di maioliche colorate, un cimitero voluto dall’artista algerino Rachid Koraichi, per accogliere i cadaveri dei migranti stranieri senza nome, sbattuti dalle onde sulle spiagge di Zarzis. Prima finivano alla discarica comunale.
Le famiglie dei 17 migranti di Zarzis, morti dopo il naufragio del loro barcone nella notte del 21 settembre, presidiano questa piazza con un sit-in e chiedono la verità allo Stato tunisino: perché i soccorsi non partirono subito? Dove sono finiti i corpi dei loro cari?
Si trova in pieno nella “zona turistica”, la costa che si allunga verso nord, con le sue spiagge e i grandi alberghi. Ma da Hessi Jerbi la notte partono i barconi dei migranti diretti a Lampedusa. Dietro si trova lo scheletro di un hotel abbandonato e vicino un villaggio di pescatori
A due km dal centro, qui si concentrano i pescherecci della città. Nel 2014, i pescatori di Zarzis hanno creato un’associazione per difendere la loro attività, sempre più a rischio, e per organizzare i soccorsi ai migranti in difficoltà in mare e recuperare i cadaveri di chi non ce l’ha fatta
Secondo le stime dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per i migranti (Oim), dal 2014 in 25mila sono scomparsi nel Mediterraneo. “I servizi comunali hanno portato i tre corpi al Jardin d’Afrique, senza neanche contattarci o fare il test del Dna”, ricorda Karim. Solo su insistenza dei genitori, si è scoperto l’errore. Il 7 novembre, alcuni familiari hanno fatto irruzione nel cimitero. Hanno scavato e tirato fuori cadaveri appena inumati, per controllare (ma invano) se fossero i loro figli: scene feroci e disperate. Da allora il Jardin d’Afrique è chiuso, mentre il Governo ha aperto un’inchiesta sul naufragio.
“Vogliamo la verità – dice Karim -. Perché la guardia costiera non è partita subito? Cos’è successo alla barca? Il mare era calmo e noi sospettiamo che alcune unità già al largo per controllare abbiano voluto fermarli e li abbiano fatti rovesciare. E poi, dove sono finiti gli altri corpi? Sono stati ritrovati e sotterrati chissà dove?”. Souad Rjili l’ascolta. Lei è la mamma di Walid: coetaneo di Louay, erano come fratelli. Amavano il mare. “Erano sicuri di farcela”, dice la donna. “Walid era timido, un ragazzo carino – racconta -. Sapevo che voleva partire, ma non ero d’accordo. E lui rispondeva: mamma, se ne vanno tutti, che ci farò qui da solo?”. “Io ce l’ho con il mio Paese – aggiunge -, non con l’Italia, i nostri figli non vanno via: fuggono e noi non riusciamo a fermarli”.
È uno dei simboli del crollo del turismo di Zarzis: questo hotel, immerso nel verde, è chiuso da due anni. È lo stesso destino di altri “albergoni” della costa nord. Il turismo di massa, una scelta di tutta la Tunisia, è in crisi da dieci anni e il Covid l’ha definitivamente affossato
Chammakh
Intorno a questa località, si trova la maggiore concentrazione di olivi di Zarzis. Era già un’importante zona di produzione di olio d’oliva per gli antichi romani. Attualmente sono un milione e 300mila le piante presenti nel suo comune, ma la siccità che imperversa da quattro anni rappreenta una grossa ipoteca sull’attività
Ogni giorno a rincuorare i familiari dei naufraghi viene Chamseddine Bourassine, 49 anni, pescatore. Lo sguardo duro, “ma lui sa trovare le parole giuste”, dice Souad. È il piccolo-grande eroe di Zarzis; da una ventina d’anni in mare col suo peschereccio salva migranti di ogni colore e provenienza. Dal 2014 ha riunito i colleghi in un’associazione.
“Con Medici senza frontiere – spiega – abbiamo organizzato stage per spiegare ai pescatori come fornire il primo soccorso. Poi formiamo i giovani alla pesca, perché restino qui a lavorare e non emigrino. Io vado nelle scuole, spiego quello che vedo in mare, mostro foto terribili, ma non c’è molto da fare: se un giovane ha deciso di partire, lo farà”. Vorrebbe un’”immigrazione intelligente”: “L’Europa – aggiunge – ha bisogno di manodopera, dovrebbe dare visti alle persone qualificate, invece di spingere i giovani tunisini e gli altri verso questa corsa disperata attraverso il mare. Il blocco navale voluto da Meloni, comunque, è impossibile da realizzare e provocherebbe solo morti, ancora più morti”.
Pure Zeinab Mcharek, alla guida di Addci (l’Associazione per lo sviluppo sostenibile e la cooperazione internazionale) parla d’“immigrazione selettiva”, “come quella della Germania, che organizza anche corsi di formazione professionale in Tunisia per i lavoratori che qui hanno individuato. La Francia e l’Italia non lo fanno”.
Addci distribuisce fondi pubblici destinati dalla Francia ai progetti produttivi dei clandestini che decidono di rientrare a casa. Come Mohamed Ali Boussif, 47 anni, imbianchino di Zarzis.
Nel settembre 2020 si era imbarcato per Lampedusa. “Poi riuscii ad arrivare a Parigi – racconta -. Ero illegale e così certe volte mi pagavano e altre no, ne approfittavano. Non avevo diritto a niente. Facevo una brutta vita”. Si rivolse all’Ofii (l’Ufficio francese dell’immigrazione e dell’integrazione), che gli ha pagato il viaggio di ritorno, ma soprattutto finanziato la costituzione di una piccola società, con nuovi ponteggi e materiale. “Adesso posso lavorare più di prima, le cose vanno bene”. Potrebbe raccontare ai giovani della sua città che l’Europa non è sempre un paradiso. “Ma tanto non mi ascolterebbero”.
(da La Repubblica)
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