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ROMA: LE CASE DEL CAMPIDOGLIO IN AFFITTO A 7,7 EURO AL MESE

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

IL COMUNE POSSIEDE 42.000 IMMOBILI, MA SOLO 16 FRUTTANO PIU’ DI 1.000 EURO AL MESE

Il signor Gianpaolo Cuccari, un cittadino romano deciso a sapere ciò che evidentemente lassù in alto nessuno vuole sapere, si è piazzato per settimane davanti al computer e ha battuto a tappeto il database di 24.525 appartamenti di proprietà  del Comune di cui possiamo conoscere (evviva la trasparenza!) il canone incassato.
E ha scoperto che 7.066 di queste case, cioè quasi un terzo, sono affittate a 7 euro e 75 centesimi al mese.
Direte: è un errore di stampa.
Lo ripetiamo: sette euro e settantacinque centesimi al mese.
Il costo di una pizza Margherita (senza birra) in una bettola fuorimano.
Sul versante opposto, le abitazioni spesso di prestigio e collocate nei posti più esclusivi della città  eterna che sono affittati dal Campidoglio a più di mille euro al mese (andate online e cercate: nelle zone storiche di pregio si parte dai 1.500 in su…) sono in tutto 16: sedici! Lo 0,06 per cento.
Di più ancora: le case affittate a meno di 300 euro (solo topaie o quasi di periferia, sul libero mercato) sono il 95,1%.
Sbarrati gli occhi per l’indignazione, il solitario Sherlock Holmes ha preso carta e penna e ha denunciato il fatto alla Procura della Repubblica e alla Corte dei conti: «Nel corso del tempo il Comune di Roma non ha mai aggiornato i canoni e, in conseguenza dell’ingresso nell’euro, appare certo che si sia limitato a fare la conversione dell’importo nella nuova moneta. La documentazione allegata al presente esposto pone in evidenza, essendo gli importi dei canoni differenziati a seconda della colorazione utilizzata, il metodo con cui sono stati enucleati i dati sopra indicati».
La prova? «Nel medesimo immobile spesso è possibile rinvenire la situazione per cui la maggior parte delle persone paga canoni irrisori, mentre altri soggetti abitanti nel medesimo palazzo pagano canoni che, seppur affatto alti, sono notevolmente superiori agli altri».
Ovvio: chi era già  dentro ha continuato a pagare cifre risibili per decenni senza che alcuno si prendesse la briga di andare ad aggiornare l’affitto.
Di più ancora: «Sorge il fondato sospetto che nel corso del lungo tempo trascorso dal momento della prima assegnazione soggetti diversi dai legittimi assegnatari abbiano goduto degli immobili ad insaputa degli organi comunali competenti, colposamente inerti».
Immaginiamo la faccia del procuratore generale della Corte dei conti Salvatore Nottola: «Ma non c’è nessuno che controlli?».
Intendiamoci: in una metropoli come Roma, con tutti i problemi sociali che esistono e si sono aggravati negli ultimi anni, ci sta pure che alcune abitazioni pubbliche vengano assegnate a prezzi ultra-popolari.
Ma quelle case a 7,75 euro al mese son davvero occupate solo da vecchi pensionati impoveriti dalla crisi o da famiglie indigenti che non ce la fanno? Dubitiamo.
Prima Porta e i defunti abbandonati
Le denunce dei mesi scorsi da parte dell’opposizione che in consiglio comunale fa capo ad Alfio Marchini, del resto, hanno documentato casi assurdi.
Ad esempio l’appartamento di 70 metri quadrati in via dei Cappellari, a Campo de’ Fiori, affittato a 222 euro.
O la casa di 122 metri quadri in via Labicana, vicino al Colosseo: 174.
O il monolocale in piazza Navona: 22. O la sede Pd di via dei Giubbonari, dietro il ministero della Giustizia: 200.
Per non dire di alcuni sbalorditivi affitti commerciali, come quello di un bar in via dei Campi sportivi, oltre Villa Glori, che sborsa 26 euro mensili: ottantasei centesimi al giorno!
O di un ristorante in via Appia Antica: 258 euro al mese. Cioè 8 al giorno: il costo di un contorno, patate o cicoria.
Siete scandalizzati? Eppure è ancora peggio di come appare.
Perchè le prime denunce dell’andazzo, sulla gestione del patrimonio immobiliare capitolino, sono addirittura del 1977.
Quando Jimmy Carter entrava alla Casa Bianca, Renato Vallanzasca veniva catturato, i radicali chiedevano le dimissioni di Leone e in India si dimetteva Indira Gandhi.
Fu allora che, su denuncia dell’allora sindaco Giulio Carlo Argan, la magistratura mise sotto inchiesta l’assegnazione di 2002 case comunali. Finite in decine di casi a galoppini della Dc che non ne avevano alcun diritto
Da allora, è stato un continuo succedersi di inchieste, polemiche, promesse di svolte virtuose e definitive.
Inutile elencarle tutte. Basti ricordare che nel 1988, cioè 27 anni fa, l’allora assessore comunale al Demanio spiegava che il Campidoglio vantava crediti dagli inquilini morosi dei «26 mila appartamenti di edilizia economica e popolare» per 80 miliardi di lire dell’epoca: oltre 88 milioni di euro attuali.
Nonostante il canone fosse mediamente tra i 26 e i 32 euro di oggi.
E già  allora l’assessore, Antonio Gerace, confidava all’Ansa: «È difficile addirittura stabilire chi realmente occupa l’abitazione. Molti inquilini si sono installati abusivamente nelle case e vi risiedono da oltre 15 anni senza pagar alcun canone».
L’anno dopo, la Finanza rilevava una morosità  di 47 miliardi e mezzo di euro attuali «soltanto in relazione a 8.300 alloggi di edilizia residenziale pubblica».
Di più, denunciava il Comune: «Almeno 5.000 inquilini non hanno un volto».
Va da sè che sul tema le polemiche erano roventi. Di qua il pentapartito che voleva affidare la gestione ai privati, di là  le sinistre, col Pci in testa, che si opponevano. Ed è andata avanti così per anni e anni. Ancora polemiche. Ancora risse. Ancora promesse. Ancora scandali, come quello vent’anni fa di Affittopoli quando saltò fuori che anche abitazioni comunali di prestigio erano finite a politici, amici di politici, parenti di politici…
Scrisse il Giornale , protagonista di una dura campagna stampa, che «su un patrimonio valutato sui 15.000 miliardi di lire il Comune ne attende 40 di incasso ogni anno, ma, a conti fatti, ne arrivano solo la metà ».
Tradotto in euro: da quel tesoro immobiliare del valore di 11 miliardi e mezzo d’oggi, il Campidoglio ricavava una quindicina di milioni.
Per spenderne contemporaneamente 106 per la manutenzione.
Una pazzia. Destinata negli anni non a essere superata. Ma a peggiorare addirittura.
Quei 17.930 immobili di cui nessuno sa più nulla
Quei 24.525 appartamenti di cui parlavamo all’inizio non sono nemmeno l’intero patrimonio capitolino.
Per arrivare alla cifra ufficiale degli immobili comunali di edilizia residenziale contenuta nell’esposto di Cuccari, ovvero 42.455, occorre aggiungerne 17.930. Dei quali, scrive il segugio ai giudici, nulla si sa.
Sappiamo però che dal suo sterminato patrimonio immobiliare, nel quale ci sono appunto anche molti alloggi esclusivi in pieno centro storico non assegnati a indigenti, il Comune ha ricavato nel 2013 circa 27,1 milioni di euro. Media ad appartamento: 52 euro al mese. Una miseria.
Ancora più indecente in confronto a quanto è stato speso nel 2014 per la gestione e le manutenzioni di ogni proprietà : 138,9. Quasi il triplo.
Chi controlla, allora?
C’è innanzitutto una società  privata. Per molto tempo, in cambio di un «modico» compenso di nove milioni annui, la Romeo gestioni si è occupata della gestione amministrativa e di alcune di quelle manutenzioni di cui dicevamo.
Poi c’è, ovvio, la politica. Ovvero il dipartimento del patrimonio. Ma non è mai cambiato nulla.
Ogni tanto il sindaco di turno proclama che la cose cambieranno: e le parole restano parole.
Nel settembre del 2012, tempi di spending review, uscì un’Ansa: «Contro le case e gli immobili pubblici dati in affitto per due soldi arriva a Roma l’Anagrafe pubblica degli immobili». Con tanto di esempi, come quello di un bar a Santa Maria in Trastevere: 52 euro mensili. Un cappuccino al giorno e il padrone si era già  rifatto.
Svolte epocali successive? Mah…
Anche Ignazio Marino, nel settembre 2014, ha detto di voler «avviare le attività  propedeutiche» (testuale) per adeguare i canoni.
E anche stavolta le buone intenzioni, che non mettiamo in dubbio, sono rimaste lì, appese come caciocavalli al trave. Per mesi.
Finchè a febbraio la Romeo gestioni, che aveva ricevuto l’incarico di studiare la cosa, ha lamentato per iscritto di non aver mai avuto dal Comune il via libera per chiedere gli aumenti agli inquilini…
Mentre affitta gli immobili propri a prezzi stracciati, il Campidoglio paga a peso d’oro quelli altrui.
Siccome evidentemente non bastano le case popolari, ha preso in affitto da costruttori ed eredi 4.801 appartamenti nelle aree periferiche per 21 milioni annui.
Canone medio mensile: 364 euro, sette volte di più di quanto incassa dai suoi.
Poi c’è l’emergenza abitativa: altri 42 milioni accompagnati da un fetore fastidioso, come dicono le inchieste su Mafia Capitale.
Anzi, è forse l’affare più succulento: per alcuni immobili i canoni pagati dalle casse capitoline sfiorano i 2.700 euro mensili. E l’emergenza dura da anni. Se non decenni.
Di nuovo la stessa domanda: chi controlla?
Nessuno, è evidente, ha mai controllato davvero. Perchè appena il Comune ha cominciato finalmente a fare le verifiche è saltato fuori di tutto. Su un campione di 96 famiglie assegnatarie di quelli alloggi messi a carico dei cittadini per l’emergenza abitativa 39 non ne avevano alcun diritto. Quattro su dieci. Ma votano…
La (cattiva) politica, qui, fornisce la spiegazione a ogni cosa.
Dietro ogni apparente sciatteria o apparente scivolone della burocrazia c’è sempre la (cattiva) politica. È un gioco delle parti, fra certi (cattivi) funzionari dell’amministrazione e i partiti. Ognuno ha il proprio tornaconto.
Si spiega così come mai i controlli, a Roma, siano un buco nero che inghiottisce tutto. E per cambiare le cose non bastano gli annunci nè la semplice buona volontà . Serve fare le cose più semplici. Però farle davvero .
L’eredità  dei palazzinari e le delibere sotto esame
Vi pare possibile che una signora con 1.048 (millequarantotto!) appartamenti affittati al Comune di Roma, Angiola Armellini, erede dell’impero del re dei palazzinari Renato, non paghi allo stesso Comune le tasse sulla casa?
E vi pare possibile che possa chiudere una pendenza come questa, nell’estate del 2014, grazie a un accordo con l’Agenzia delle Entrate che prevedeva 37 milioni di multa più 10 al Comune di Roma?
Briciole, in confronto ai due miliardi di euro volati in Lussemburgo. Briciole. Mentre i canoni pagati dal Campidoglio continuavano a correre…
Ne troviamo le tracce in una serie di «determinazioni dirigenziali» spedite qualche settimana fa dal Comune (evviva!) ai magistrati contabili. Contenute in un librone che porta scritto sul frontespizio «Allegato alla relazione sul controllo successivo di regolarità  amministrativa per la Procura generale della Corte dei conti».
È il risultato delle verifiche a campione fatte nel 2014 su una serie di provvedimenti dell’amministrazione. In tutto, 1.534.
E questi controlli hanno scovato anche delibere, contratti, decisioni discutibili: 222. Uno ogni sei documenti presi in esame. Scelte che davano da pensare. In qualche caso parecchio
Non è una coincidenza che molte di quelle determine finite sotto osservazione siano state sfornate dai dipartimenti delle politiche abitative (21) e del patrimonio (20).
Nel librone inviato alla Corte dei conti c’è per esempio l’autorizzazione al pagamento di circa un milione e mezzo per sei mesi di pigione di un immobile affittato al Comune di Roma dalla Farvem Real Esate, società  controllata al 50% da Massimo Ferrero, detto «Viperetta», il proprietario d’una catena di sale cinematografiche e presidente della Sampdoria, e da sua moglie Laura Simi.
E il pagamento di 1,2 milioni all’immobiliarista Sergio Scarpellini per un trimestre di affitto dell’immobile in via delle Vergini dove stanno alcuni uffici del consiglio comunale.
E la delibera relativa a un versamento di 274 mila euro alla società  «il Tiglio» che fa capo all’immobiliarista Domenico Bonifaci per l’affitto di un ufficio in via Flaminia.
Ufficio al centro di una storia curiosa.
L’immobile era infatti di proprietà  di una società  comunale, «Risorse per Roma», che lo vendette il 28 dicembre 2007 (mentre il Campidoglio era commissariato) a una società  costituita un mese prima da Bonifaci. Il quale lo riaffittò prontamente al Comune, ripagandosi il mutuo con il canone.
Un capolavoro… A spese dei cittadini .
Le politiche sociali e la coop di Mafia Capitale
Ma il record delle «determine» più contestate spetta, e forse non poteva essere diversamente dopo quanto si è letto nelle cronache, al dipartimento politiche sociali.
Per capirci, la struttura comunale interfaccia delle cooperative.
Gli atti impugnati sono 58 su 222. Fra questi le proroghe dei finanziamenti alla «Eriches 29» di Buzzi, l’uomo simbolo di Mafia Capitale insieme a Massimo Carminati, e all’altra cooperativa «Domus Caritas», per l’assistenza alle famiglie in «emergenza abitativa». Motivo dei rilievi?
Quei nuclei familiari non avevano diritto ai benefici, tanto da risultare destinatari di provvedimenti di sgombero.
Si tratta di tre delibere per un totale di 600 mila euro, adottate fra la fine di luglio e la fine di novembre 2014.
Ma Enrico Lamanna e Vito Tatò, i due ispettori della Ragioneria generale dello Stato spediti dal ministero dell’Economia a fare le pulci ai conti della Capitale in previsione del decreto «salva Roma», l’avevano già  messo nero su bianco molto ma molto tempo prima. Nel rapporto inviato al Comune di Roma il 16 gennaio 2014 denunciavano infatti che le continue proroghe alle società  citate, e per importi superiori alle soglie oltre cui per legge si devono bandire le gare, erano assolutamente illegittime.
Nero su bianco: «Gli enti pubblici possono stipulare convenzioni con le cooperative sociali per la fornitura di beni e servizi, diversi da quelli soci sanitari ed educativi, in deroga alle procedure, purchè detti affidamenti siano di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria. Nel caso in questione tale soglia è stata abbondantemente superata».
Di più: «La proroga d’un affidamento è espressamente vietata dall’art. 23 della Legge n. 62/2005…». Più chiaro di così… Non per gli uffici comunali, però. Sordi, ciechi. Muti. Fino allo scoppio dello scandalo Mafia Capitale
Micidiale, la relazione degli ispettori.
Non si limitava a sottolineare l’illegittimità  delle proroghe alle cooperative che sarebbero state coinvolte un anno dopo nelle inchieste.
Metteva anche il dito nella piaga delle municipalizzate e di tante altre storture. Come il cosiddetto salario accessorio di cui scrivevamo ieri.
E la giungla delle indennità  stratificate negli anni.
Indennità  per la presenza in servizio. Indennità  manutenzione uniforme. Indennità  attività  di sportello. Indennità  oraria pomeridiana (sic!). Indennità  annonaria. Indennità  decoro urbano. Indennità  disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti.
Eppure, quella relazione è stata di fatto, fino allo scoppio di Mafia Capitale, completamente ignorata.
Solo «dopo», ad esempio, è stata istituita una struttura interna con il compito di rafforzare i controlli così come era previsto un anno e mezzo prima (un anno e mezzo!) da un decreto Monti.
E solo un paio di mesi fa il pacco delle «determine» messe sotto esame, comprese quelle su Buzzi, è arrivato finalmente alla Corte dei conti: e c’è da domandarsi se non abbiano contribuito a questo le punzecchiature del rompiscatole di turno, il consigliere radicale Riccardo Magi, che per mesi ha tempestato di lettere e richieste gli uffici.
A proposito, e quelle 222 «determine» finite nel mirino?
Ne sono state annullate due e revocate sei.
Dei dirigenti che le avevano firmate, non ne è stato sanzionato uno.

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)

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LA RUSPA C’E’, I LEGHISTI DEL SUD NO: A PONTIDA SALVINI STRETTO TRA LE SUE CONTRADDIZIONI

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

BOSSI E CALDEROLI CONTRO IL PARTITO NAZIONALE, SCRITTE SECESSIONISTE CHE NESSUNO OSA FAR TOGLIERE, POCHI RAPPRESENTANTI DEL MERIDIONE DOVE LA LEGA HA PRESO LA FACCIATA

Tra salamelle e cornamuse, con 12 eurini potete comprarvi la nuova icona padagna in miniatura: una ruspina che può esservi utile per grattarvi la schiena in caso di scabbia.
Per il resto il solito folklore da osteria (“più rum meno rom”), facce dipinte, cornuti senza mogli al seguito, striscioni fecali (“I-talia di merda – secessione”), non più di 10.000 i presenti, nulla a che vedere coi tempi d’oro del Senatur.
Sono poi poche centinaia i neoacquisti di “Noi per Salvini”, immagine evidente del “bagno elettorale” che le liste leghiste hanno fatto in Meridione.
Basti dire che il pulman più a sud viene da San Benedetto del Tronto.
E’ un Salvini in difficoltà  quello che arringa il popolo padagno, non a caso fa un intervento ecumenico: la sua operazione “nazionale” è fallita e presta il fianco alle critiche interne, neanche più sotterranee, della base tradizionale.
Base di cui si fanno interpreti Bossi e Calderoli che si permette persino di dire “Piuttosto che scrivere uno statuto nazionale e centralista mi taglio una mano, mio nonno diceva Bergamo nazione e tutto il resto meridione…”.
Mentre Bossi dal palco stuzzica: “La Lega è nata per ridare libertà  al Nord, non si vince prendendo voti qui e là ”.
Insomma non proprio l’immagine di una famiglia unita, diciamo piuttosto di separati in casa, finchè più che la convivenza regge la convenienza (leggi poltrone).
Al di là  delle solite invettive, nel discorso di Salvini emergono solo tre proposte: l’abolizione della Saie, quella dei prefetti e il servizio civile obbligatorio.
Più che da statista, roba da settimana enigmistica, insomma.
Il problema è che martellare sulla xenofobia è facile e rende, per governare l’Italia bisognerebbe prima saper almeno far quadrare i conti del proprio partito.
E magari avere qualche idea propria, senza scopiazzarla qua e là .

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SENZA PELU’ SULLA LINGUA: “RUSPE? RADESSERO AL SUOLO LA SEDE DELLA LEGA”

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

E GASSMANN NON RISPARMIA GRILLO: “SUI PROFUGHI HA SBAGLIATO”

“Vorrei che qualche ruspa andasse alla sede della Lega per raderla al suolo. E anche a Radio Padania”.
Così il cantante Piero Pelù attacca il Carroccio dal palco del concerto per la Giornata del rifugiato, a Firenze.
Poi, dopo la visione di un reportage sui migranti, ha aggiunto: “Vorrei vedere Salvini che si riguarda questo filmato un milione di volte come nel film Arancia Meccanica”. Tra gli artisti arrivati nel capoluogo toscano sono molte le voci critiche verso il leader della Lega.
Come quella del cantante Erriquez (Bandabardò): “Il signor Salvini non merita neanche di esser chiamato uomo, non appartiene alla mia razza”.
Ma anche di Tommaso Zanello (in arte Piotta), che sul palco ha indossato una maglietta con la scritta “Nemici di Salvini”.
Dalla piazza che sta con i rifugiati sono arrivate critiche anche per il recente tweet di Beppe Grillo, nel quale diceva che Roma è sommersa da “topi e clandestini”.
L’attore Alessandro Gassmann commenta: “Un’uscita sbagliata“, mentre il cantante Enrico Ruggeri dice: “Una volta a livello di lingua italiana c’erano politici di spessore maggiore”

(da “il Fatto Quotidiano”)

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MATITA BLU PER SALVINI SU TWITTER: “ASILI NIDI PER TUTTI”

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

E I FOLLOWER LO MASSACRANO

Nella concordanza tra singolare e plurale ci era già  caduto Matteo Renzi.
Con l’attenuante che in quel caso si trattava di un termine inglese. “Leaders”, e non il corretto “leader”, in un cinguettio aveva scatenato le ironie del web.
Oggi tocca a Matteo Salvini.
Ma senza nessuna attenuante.
“Quando saremo al governo asili nidi gratuiti per tutti i bimbi fino a 2 anni, per aiutare a costruire nostro futuro”.
Ovviamente la formulazione corretta sarebbe “asili nido”. E lo svarione non è passato inosservato.
“Il candidato declini ‘asilo nido’: asila nida, asili nidi, asile nide”, ironizza Beatrice Dondi.
“Nido nidis nidis nidarum niderem nideron”, latinizza la faccenda Angela Vitaliano. “Mi sa che tu ti sei fermato agli ASILI NIDI dopo non hai continuato molto gli studi!”, chiosa Giuseppe Antoscia.
E per uno che è stato 15 anni fuoricorso all’università  senza riuscire a prendere uno straccio di laurea è il colpo finale.

(da “Huffingtonpost”)

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PAGNONCELLI IPSOS: PD CONTRO M5S 51,2% A 48,8%, PD CONTRO LEGA 61,5% A 38,5%, CENTRODESTRA UNITO CONTRO PD 53,5% A 46,5%

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

SONDATI GLI ITALIANI IN CASO DI BALLOTTAGGIO CON ITALICUM: RENZI VINCE DI MISURA SUI GRILLINI, STRAVINCE CONTRO SALVINI, PERDEREBBE CONTRO UN CENTRODESTRA UNITO

Ai risultati delle recenti elezioni regionali e comunali è stato attribuito un significato «nazionale», nonostante abbiano coinvolto meno della metà  del corpo elettorale.
È una tendenza comprensibile ma che porta spesso ad analisi inappropriate, anche in considerazione dell’elevato tasso di astensione che si è verificato e che difficilmente potrebbe confermarsi in occasione di elezioni legislative.
Il sondaggio odierno intende fotografare gli orientamenti di voto degli elettori nel caso di elezioni politiche con la nuova legge elettorale, l’Italicum.
Ancora una volta è opportuno sottolineare che si tratta di una fotografia istantanea che misura lo stato di salute dei partiti e non la previsione di quanto potrà  avvenire quando si terranno le elezioni, nel 2018 o prima.
Alla luce delle intenzioni di voto abbiamo testato le preferenze degli elettori al secondo turno che prevede il ballottaggio tra le prime due forze in campo se nessuna, come accadrebbe oggi, supera quota 40% dei consensi.
Al momento si tratta di Partito democratico e Movimento 5 Stelle e il primo si affermerebbe di misura: 51,2% a 48,8%.
È interessante osservare il comportamento degli elettori dei partiti esclusi dal ballottaggio.
Oltre la metà  dei leghisti (55%) voterebbe per il movimento di Grillo, il 37% sarebbe propenso ad astenersi e l’8% sceglierebbe il Pd.
Diverso il comportamento degli elettori di Forza Italia, il 60% dei quali si asterrebbe, uno su quattro voterebbe per il M5S e il 15% per il Pd.
Sembrano davvero lontani i tempi in cui, grazie anche al patto del Nazareno, i berlusconiani risultavano attratti da Renzi.
L’elettorato di sinistra si divide quasi a metà : 50% per il Pd e 45% per il M5S; Area popolare per il 70% voterebbe per il Pd mentre Fratelli d’Italia si dividerebbe tra il M5S (50%) e l’astensione (42%).
Da ultimo, gli indecise e astensionisti al primo turno si riducono e propenderebbero in misura leggermente superiore per il movimento di Grillo (23%) rispetto al Pd (20%).
Rispetto all’attuale composizione della Camera dei deputati il Pd grazie al premio di maggioranza aumenterebbe i propri seggi, come pure il M5S, la Lega e Fratelli d’Italia.
Al contrario si ridurrebbe il numero di deputati di Forza Italia, di Area popolare e della lista di sinistra (raffrontata a Sel).
Ma cosa potrebbe succedere se al ballottaggio il Pd incontrasse la Lega o il centrodestra unito in una sola lista?
Si tratta di due simulazioni del tutto ipotetiche, dato che al momento la distanza della Lega dal M5S è ragguardevole e il progetto di un’alleanza di tutte le formazioni di destra e centrodestra stenta a decollare.
Nel primo caso il Pd si affermerebbe in misura molto netta sulla Lega: 61,5% contro 38,5%.
I grillini opterebbero, nell’ordine, per l’astensione (42%), Lega (33%) e Pd (25%); gli elettori di Forza Italia voterebbero prevalentemente, ma non in modo compatto, per la Lega (60%), come pure gli elettori di Fratelli d’Italia (68%), mentre quelli di sinistra e di Area popolare – i primi prevedibilmente, i secondi un po’ meno – propenderebbero in misura massiccia per il Pd (rispettivamente 95% e 75%).
Nel secondo caso il centrodestra risulterebbe vincente sul Pd 53,5% a 46,5%, in virtù di un voto molto coeso (tra l’85 e il 95%) degli elettori di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia.
Al contrario i sostenitori di Area popolare voterebbero più per il Pd (60%) che per il centrodestra unito (35%).
Anche in questo caso la maggioranza dei grillini (55%) si asterrebbe mentre gli altri privilegerebbero sia pure di poco il Pd (25%) sul centrodestra (20%).
Riassumendo: al ballottaggio il Pd si affermerebbe di misura sul M5S, in modo largo sulla Lega Nord e perderebbe contro il centrodestra unito in un’unica lista.
Le ipotesi sul possibile ballottaggio dipendono dalle ultime intenzioni di voto. Iniziamo dalla partecipazione: la quota di astensionisti ed indecisi si attesta al 35,5% e lascia presagire una crescita dell’astensione rispetto alle Politiche del 2013 (è stata pari al 27,5%, considerando anche le schede bianche e nulle), ma più contenuta rispetto alle Europee del 2014 (44,4%).
Quanto ai partiti, rispetto ai mesi scorsi lo scenario che emerge non presenta novità  nella graduatoria ma fa registrare cambiamenti di rilievo nei rapporti di forza. Il Pd si conferma il primo partito con il 31,5% ma risulta in significativa flessione rispetto alle elezioni europee.
Si è fortemente ridotto il divario con il Movimento 5 Stelle (ora di 4%) che si mantiene al secondo posto ed è in notevole crescita con il 27,5% dei consensi, soprattutto – ma non solo – dopo le inchieste giudiziarie degli ultimi mesi, dalle grandi opere, a Ischia e, soprattutto, Mafia Capitale.
A seguire la Lega Nord (14,7%) e Forza Italia (12,4%).
Infine, tra i partiti al di sopra della soglia del 3%, si registrano un’ipotetica lista nella quale potrebbero confluire le formazioni a sinistra del Pd (4,4%), Area popolare (4,3%) e Fratelli d’Italia (4,2%).
L’infinita transizione che caratterizza la politica italiana non sembra affatto destinata a terminare.
Indubbiamente l’Italicum può accelerare processi di cambiamento e la riconfigurazione delle proposte politiche, in termini di liste e programmi. Ma non è un processo facile.
Ne è un esempio la situazione del centrodestra: se da un lato il clima sociale sembra più favorevole a quest’area politica, dall’altro appare difficile individuare un progetto in grado in grado di aggregare le diverse anime che la compongono.
E la storia recente del nostro Paese ci insegna che unire formazioni politiche talora consente di vincere ma non sempre di governare.

Nando Pagnoncelli
(da “il Corriere della Sera”)

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IL GEN. GRAZIANO: “NO AL BLOCCO NAVALE IN LIBIA”, FINALMENTE UNO CHE RAGIONE COL CERVELLO

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

INTERVISTA AL CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA: “SENZA UNA RISOLUZIONE DELL’ONU SAREBBE UN’AZIONE DI GUERRA”

Il generale Claudio Graziano, 61 anni, piemontese di Villanova d’Asti, si è insediato tre mesi fa come capo di stato maggiore della Difesa, e si ritrova con l’Isis in Libia, gli sbarchi sulle coste, 4 mila uomini nei luoghi più pericolosi della terra – Iraq, Afghanistan, Somalia, Libano – e ovviamente il bilancio da tagliare.
Questa è la sua prima intervista.
Generale Graziano, l’Italia è davvero preparata a fare la sua parte nel Mediterraneo? O siamo del tutto alieni all’idea della guerra, o comunque della difesa?
«L’Italia è stata coinvolta in molte missioni, ha avuto molti caduti, ma non ha mai avuto un disertore. Altri Paesi ne hanno avuti. In questi anni, mai un soldato italiano ha abbandonato il suo posto. A nessuno è mai mancato il coraggio di fronte agli attacchi»
Non mi riferisco al valore delle forze armate, ma alla cultura politica del Paese.
«Guardi che la percezione dell’Italia in Europa è cambiata moltissimo in questo tempo. E anche la percezione delle forze armate in Italia: ogni anno 80 mila giovani chiedono di entrare; cercano lavoro, certo, ma sono animati dalla spinta di aiutare gli altri. Tutto cominciò con la missione in Libano guidata dal generale Angioni: fu una sorpresa per tutti. Oggi noi in Libano abbiamo il comando in una regione delicatissima, dove si incrociano i due grandi archi di crisi: quello Sud, che sale dall’Africa, e quello Est, che scende dall’Ucraina».
Oggi nella percezione degli italiani l’emergenza è legata alla Libia, e agli sbarchi incontrollati sulle nostre coste. Il suo predecessore, ammiraglio Binelli Mantelli, in un’intervista a Fabrizio Caccia del «Corriere della Sera» ha detto in sostanza che l’operazione Mare Nostrum consentiva di padroneggiare la situazione meglio di Triton.
«Non mi permetto di commentare parole del mio predecessore. Oggi noi siamo impegnati nell’operazione Mare Sicuro, un’azione aeronavale per la sicurezza e il controllo che impiega quattro navi e aerei senza pilota, e si aggiunge al lavoro di Triton per il controllo delle frontiere. Credo che possiamo dirci soddisfatti».
Ma gli sbarchi continuano. Si invoca un blocco navale. Cosa ne pensa?
«Un blocco navale, in assenza di una risoluzione Onu o della richiesta del Paese interessato, è un’azione di guerra. Si fa contro un nemico. Sarebbe controproducente. Siccome in nessun caso viene meno il dovere di salvare le vite dei naufraghi, i barconi punterebbero contro le navi del blocco».
Ora l’Europa prepara una nuova missione, che dovrebbe avere un mandato Onu. Ma secondo lei è possibile chiudere la rotta di Lampedusa?
«Attendiamo di conoscere i contorni della missione. Credo sia possibile un’operazione di contrasto che punti a inabilitare i barconi e a perseguire i criminali. Si può assumere il controllo della situazione. Certo, quella che vediamo è l’avanguardia di un fenomeno epocale, che riguarda decine di milioni di uomini in fuga da carestia e guerra. Non è più un problema militare ma globale. La Libia è il collo di bottiglia di flussi che partono dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Ciad, dalle Repubbliche centrafricane, dal Kenya. E dalla Siria».
Cominciamo dal collo di bottiglia. Ci sarà  un intervento occidentale in Libia?
«In Libia l’Italia ha sempre svolto un ruolo di leadership, per interesse nazionale, per vicinanza culturale, per ruolo storico. Avevamo pure addestrato forze libiche, a Cassino. Anche oggi non abdichiamo alle responsabilità . Ma l’esperienza ci insegna che, per essere credibile e avere consenso, l’attività  dev’essere sviluppata dalle forze locali; altrimenti si è all’anticamera dell’insuccesso. Prima ci deve essere un accordo tra le varie fazioni. Noi possiamo aiutare i libici a stabilizzare la Libia, sia con l’azione diplomatica, sia fornendo il supporto necessario».
Gli Stati usciti dalla fine dell’era coloniale non esistono più. L’Isis controlla vasti territori tra Siria e Iraq. Prima o poi bisognerà  intervenire.
«Stiamo già  intervenendo. L’Italia è in Iraq. Facciamo parte della coalizione internazionale anti Isis. Abbiamo 500 uomini tra il Kuwait, dove c’è l’aviazione, Erbil e Bagdad, dove siamo impegnati in un’azione di advice and assist : contribuiamo ad addestrare le forze irachene. Il problema deve essere risolto a terra dagli iracheni: noi dobbiamo metterli in condizione di poterlo fare. In Afghanistan è accaduto: le forze afghane dieci anni fa erano deboli e disorganizzate; oggi contano su 350 mila uomini tra soldati e poliziotti».
In Siria il nemico dell’Isis è Assad, dobbiamo sostenerlo?
«Noi non siamo in Siria. Le speranze sono affidate alla politica e alla diplomazia. E le regole della diplomazia inducono talora a considerare il nemico amico. Le organizzazioni internazionali devono dare una risposta globale alla crisi del Medio Oriente, perchè tutto è intrecciato: collasso degli Stati; flussi migratori; terrorismo».
Gli sbarchi possono portare in Italia militanti dell’Isis?
«Come ha detto il capo della polizia Pansa, non ci sono evidenze che ci siano terroristi sui barconi. Un’organizzazione può infiltrare i suoi uomini in molti modi, anche senza i migranti. Il terrorismo c’è: l’Isis è in Iraq, in Siria, in Libia, in Algeria, nel Sinai. Il fatto che tenda a insediarsi stabilmente piuttosto che colpire ovunque, come faceva Al Qaeda, non deve indurci ad abbassare la guardia. Ma dobbiamo tener conto della loro abilità  nell’usare le strategie di comunicazione, senza farcene troppo condizionare».
Maroni propone di mettere i soldati sui treni, «pronti a sparare». Lei che ne pensa?
«Non commento la proposta del presidente Maroni. Noi abbiamo già  settemila uomini impegnati nell’operazione Strade Sicure: siamo pronti a intervenire in ogni situazione in cui lo richieda il Paese, compatibile con la nostra professionalità . La sicurezza sui treni è però legata alla professionalità  della polizia ferroviaria, che ha una preparazione specifica».
Come vivono i militari la vicenda dei due marò?
«La solidità  della risposta dei fucilieri di marina Girone e La Torre è un esempio per tutti. Lo è il loro orgoglio, la loro dignità . La soluzione dev’essere politico-diplomatica».
L’esercito manterrà  la stessa efficienza malgrado i tagli?
«Sì. Il ministero della Difesa ha promosso il libro bianco, un documento essenziale, che dispone in modo coerente i diversi elementi della questione sicurezza: le possibili minacce, l’evoluzione degli scenari, le risorse disponibili, le lezioni apprese nei vari teatri, le nuove esigenze di personale; da qui vengono individuate le aree di prioritario interesse del Paese. In questo modo si risparmia e si ottiene uno strumento interforze. Il nostro personale è straordinario, ma tenuto conto che c’è stata una professionalizzazione accelerata tende a risultare un pochino più anziano delle medie internazionali».
Dobbiamo ringiovanire l’esercito?
«Sì, tenendo conto dell’esigenza del personale e delle sue aspettative. E dobbiamo aumentare il rapporto con il mondo sociale. Le forze armate devono operare in sinergia con il resto del Paese, di cui rappresentano un ottimo biglietto da visita».
Gli F35 vi sono proprio indispensabili? Tutti e 90?
«Sono già  stati ridotti. Sono un’arma molto evoluta, indispensabile in alcuni scenari. Quando ti sparano addosso, un conto è rispondere con un mortaio da 120, un conto con una bomba sganciata da un aereo. Il numero finale sarà  il frutto del processo di revisione strategica intrapreso dalla Difesa in base agli indirizzi del libro bianco».
È il centenario della Grande Guerra. Sono stati messi sullo stesso piano disertori e combattenti?
«No. L’Italia non ha messo sullo stesso piano i disertori e gli eroi che sul Piave hanno salvato la patria. È in atto una discussione per restituire dignità  a chi l’aveva persa. Nella Grande Guerra abbiamo avuto oltre 600 mila morti, la metà  in cento chilometri quadrati: era inevitabile che si creassero situazioni di disperazione. Cent’anni fa nessun esercito le avrebbe perdonate; ora è diverso».
Alla maturità  solo il 2,5% degli studenti ha fatto il tema sulla Resistenza, impostato sul testamento del generale Fenulli. È rimasto deluso?
«Il tema storico viene tradizionalmente evitato: alla scuola di guerra l’abbiamo fatto in tre su duecento. Mi ha colpito semmai un altro dato. Accanto ai partigiani, nella Resistenza ci sono i militari. La caduta di prestigio, seguita alla gestione superficiale dell’armistizio, non ha fatto venire alla luce storie e sacrifici di cui oggi, con la nuova considerazione di cui godono le forze armate, possiamo andare orgogliosi».

Aldo Cazzullo
(da “il Corriere della Sera”)

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EMIGRAZIONE ITALIANA: LE BALIE DI CATANZARO, REGINE DI TUNISI

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

QUANDO 230.000 ITALIANI   ANDARONO A LAVORARE SULLE COSTE DEL’AFRICA

Su 14 milioni di emigrati che partirono dall’Italia fra il 1876 e il 1914, una piccola ma consistente percentuale di 230 mila lavoratori sbarcò sulle coste settentrionali dell’Africa.
Le mete predilette erano l’Egitto, l’Algeria e la Tunisia, tanto che il nostro capo del governo Francesco Crispi, irritato dall’iniziativa di Parigi che vi istituì un protettorato, definì quest’ultimo Paese «una nazione italiana occupata dalla Francia».
A raccontare questo aspetto della nostra emigrazione, anche sulla scorta di nuove fonti, è Francesca Fauri nel saggio L’emigrazione italiana nell’Africa mediterranea 1876-1914, pubblicato nel nuovo numero della rivista «Italia contemporanea» (Franco Angeli).
Le partenze dall’Italia erano cospicue già  prima dell’Unità , a giudicare dall’attivismo nei centri costieri dei consolati toscano, ligure, veneto, siciliano, campano.
E poi la cifra di 230 mila sottostima molto il nostro contributo di manodopera in Nord Africa, perchè molti, soprattutto provenienti dalla Sicilia, dalla Sardegna e dalla Calabria, erano stagionali.
Agricoltori, in particolare viticoltori molto richiesti dagli imprenditori francesi, ma anche minatori, pescatori di corallo e… balie.
Molto richieste quelle di alcuni paesi della provincia di Catanzaro, rinomate per l’affidabilità  e la bellezza.
La motivazione principale era la paga, tre o quattro volte superiore a quella percepita in patria.
Un operaio agricolo, che in Sicilia prendeva da una lira a una e mezza a giornata, in un vigneto tunisino partiva da una base di 3,5 lire.
Mentre le balie potevano addirittura decuplicare la paga mensile, passando da dieci a cento lire.
Questi lavoratori spesso partivano a bordo di navi di linea (la compagnia di Raffaele Rubattino per un certo periodo istituì un viaggio bimensile) o a bordo delle «bilancelle», piccole imbarcazioni che offrivano il passaggio per 5 o 10 lire.
Molti da stagionali divennero stanziali e riuscirono a realizzare il sogno di comprare un pezzo di terra (piccole proprietà  da cinque a dieci ettari).

Dino Messina
(da “il Corriere della Sera”)

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COME TI COSTRUISCO IL CLIMA DI ALLARME

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

I PROFESSIONISTI DELL’ANTI-IMMIGRAZIONE E DELLE BALLE

Frotte di immigrati con la scabbia si aggirano per i lidi romagnoli e toscani, servono i vigilantes per tutelare l’incolumità  dei bravi italiani. Anche questo si scrive su certi giornali.
Panico scabbia tra i gestori dei lidi e gli albergatori.
Perchè sti immigrati non si accontentano di una baracca: vogliono un hotel a 5 stelle, tre pasti, idromassaggio .. non è vero, ma a furia di ripeterlo…
Per la cronaca, a Cesenatico sono arrivati solo 70 profughi.
Salvini ci fa sapere che si è ora circondato di professori universitari per il suo programma.
Pare anche che, oltre alle immagini, ci sarà  anche dello scritto.
Il ministro Alfano vuole chiudere (speriamo non con le ruspe) i campi rom.
Tanto viene criticato in Italia perchè troppo tenero, tanto criticato in Europa perchè sarebbe un intervento su base etnica.
Prendeteveli a casa vostra, ti dicono quelli che non vogliono spendere un euro (o un baiocco, o un calderolo..) per dare una sistemazione dignitosa ai profughi.
E io rispondo, andando oltre a quello che dice Cecilia Strada: prendetevi voi a casa vostra gli evasori e pagate le tasse per loro.
Prendetevi a casa vostra i Buzzi e i Carminati.
E tutti i tangentari attorno ad Expo e Mose.
Perchè sono anche stanco di ripeterlo: se non abbiamo le case per gli italiani, per quelli che hanno perso un lavoro e non riescono a pagare il mutuo o l’affitto pensate veramente che sia colpa dei profughi dalla Siria, dall’Eritrea, dal Ghana, dalla Nigeria?
Se li sono rubati loro i soldi di mafia capitale (il 2% della spesa del comune di roma capitale)? Le tasse che si perdono per gli evasori   parziali e totali (1 italiano su 4 guadagnerebbe meno di 10mila euro) ?
I soldi sprecati a Venezia dal consorzio del Mose (e perfino la buonuscita a Mazzacurati)?
I costi extra per Expo che non rientreranno mai coi biglietti?
Ieri era la giornata del rifugiato. Quello che quando arriva da solo fastidio a vederlo.
Aiutiamoli a casa loro, dicono.
Magari sarebbe sufficiente non sfruttarli o non vendere armi ai signori della guerra.
Perchè anche noi italiani quando abbiamo avuto bisogno, siamo andati all’estero. E non sempre ci siamo comportati bene.
Se non ci fossero, questi immigrati, quante carriere politiche ci saremmo persi?
Se fosse vivo Sciascia oggi scriverebbe dei professionisti dell’anti-immigrato.

(da unoenessuno.blogspot.it)

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IL KILLER DEL TRIBUNALE: “CHIEDO PERDONO, IN CELLA SOPRAVVIVO MA HO UN VUOTO DENTRO”

Giugno 21st, 2015 Riccardo Fucile

L’INCONTRO IN CARCERE CON CLAUDIO GIARDIELLO, L’IMPRENDITORE CHE IL 9 APRILE UCCISE TRE PERSONE A MILANO

Sono passati due mesi e mezzo da quella mattina di sangue e terrore al Palazzo di giusitizia di Milano, quando Claudio Giardiello scaricò un intero caricatore e tutta la rabbia contro chi pensava fosse la «causa di tutte le ingiustizie subite».
Oggi la porta della cella 312 del carcere di Monza si apre di fronte a un uomo che da quel 9 aprile appare ancora svuotato dall’enorme tragedia che ha messo in atto. Assente, confuso, con gli occhi che guardano nel vuoto. Spenti.
«Sono pieno di pensieri», dice al consigliere regionale della Lombardia che ieri è andato a trovarlo. «Ho un vuoto grande qui», e si batte lentamente il petto.
Dopo due mesi di isolamento, da quattordici giorni il killer del tribunale condivide una piccola cella al terzo piano del carcere con un altro detenuto.
Quattro mura color argento, un lavandino, il water, un letto a castello. Giardiello dorme su quello più basso, dove tiene i pochi libri che si è fatto portare dai familiari, ma che non ha mai aperto.
«I miei due figli e la mia compagna vengono spesso a trovarmi», dice. Ed è l’unico momento in cui il viso sembra distendersi e la sua mente riconnettersi con il mondo. «Chiedo sempre perdono – continua sempre, ogni volta che li vedo».
E alle famiglie delle vittime?, chiede chi lo ha incontrato.
«Anche a loro» risponde. E muove la testa dall’altro verso il basso, in senso affermativo.
Dal giorno della strage, Giardiello non ha mai spiegato come sia riuscito a entrare in Tribunale armato, come abbia beffato i controlli all’ingresso e sia arrivato indisturbato nell’aula dove si sarebbe celebrata l’udienza del processo in cui è imputato per la bancarotta della sua società , l’Immobiliare Magenta.
Interrogato dalla procura, prima di Milano e poi di Brescia, dove è stata trasferita l’indagine, non ha mai aiutato pm e carabinieri del Nucleo investigativo di Milano a ricostruire la dinamica di quella mattina.
Comparso nei fotogrammi delle telecamere dell’ingresso posteriore di via San Barnaba, presidiato dal metal-detector, Giardiello entra in tribunale già  alle 8.40.
Chi dovrebbe fermarlo non si accorge di quell’uomo in caduta libera, precipitato da un passato di milioni facili nella “Milano da bere” a un presente in cui elemosina – fino a pochi giorni prima della strage – un lavoro e una casa popolare al comune di Garbagnate Milanese.
Il 9 aprile, dopo aver vagato tra i corridoi, raggiuge l’udienza.
In aula litiga col suo avvocato, il legale annuncia davanti a tutti la rinuncia al mandato, ma la Corte lo invita a continuare nella difesa.
È in questi secondi che qualcosa scatta nella mente del killer e scatena la sua furia omicida.Giardiello estrae la sua Beretta semiautomatica e fa fuoco contro il suo ex legale, il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani, 37 anni, chiamato a testimoniare proprio su insistenza dell’imputato, come nella pianificazione di una trappola. Appiani viene colpito a morte quando è ancora in piedi davanti al banco dei testimoni. Poi la sete di vendetta si sposta contro gli altri ex soci coimputati.
Giardiello spara prima contro il nipote, Davide Limoncelli, 40 anni, che rimane ferito; poi ancora contro Giorgio Erba, 60 anni, centrato al petto e ucciso.
Ma nella paranoica lista di morte, c’è anche il giudice fallimentare Ferdinando Ciampi: Giardiello, in un palazzo già  sprofondato nel panico, scende di un piano e lo fredda con due colpi nel suo ufficio.
Mentre scappa, incontra per caso il commericalista Stefano Verna, e lo gambizza sulle scale.
Infine, ricercato in tutta la provincia, Giardiello va in scooter a caccia di un altro ex socio, salvo solo perchè i carabinieri lo bloccano prima.
Di questo killer, spietato pianificatore di morte, oggi non c’è più traccia.
Vestito con un paio di jeans, camicia a righe e scarpe da ginnastica, con barba e capelli in ordine, Giardiello appare come un uomo disconnesso dal mondo, immerso solo nei suoi pensieri.
Non esce per le ore d’aria, non guarda la tv, non legge, parla poco con gli assistenti sociali di questo carcere organizzato ed efficiente, non ha preso libri in biblioteca e non legge quelli che gli hanno portato i figli.
«Non faccio niente, non me la sento di uscire, di parlare con qualcuno» dice agli agenti che hanno una stanza proprio di fronte alla cella.
Disinteressato all’inchiesta che potrebbe costargli l’ergastolo e al processo sulla bancarotta, teatro della strage.
E per il quale la Cassazione, il mese prossimo, deciderà  sulla richiesta di trasferimento a Brescia.

Sandro De Riccardis
(da “La Repubblica”)

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