Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
PAROLA D’ORDINE, RICOSTRUIRE IL PD… ROSATO VICESEGRETARIO CON GUERINI CAPOGRUPPO ALLA CAMERA
“Dobbiamo ricostruire il Pd. La suggestione del Partito della Nazione mi pare superata da queste elezioni…”, spiega il ministro Andrea Orlando intervistato dal Corriere della Sera.
Una lettura tranchant sull’idea renziana di ‘big tent’, partito ‘acchiappa tutti’ lanciata dal segretario Matteo Renzi in una direzione nazionale del Pd a ottobre dell’anno scorso, sull’onda dell’euforia del 40,8 per cento delle europee.
Alla luce del voto delle regionali domenica scorsa, quel progetto non c’è più sulla carta, dice Orlando.
Il premier ufficialmente non lo dice. Ma si appresta a sviluppare lo stesso ragionamento. Ricostruire il Pd è la parola d’ordine di queste giornate post-elettorali. In cui, sì, Renzi rivendica la vittoria in 5 regioni su 7 (“I giornali stranieri ci riconoscono la vittoria, mi chiamano dall’estero per congratularsi”, si sfoga con i suoi) ma ammette che, più che piantare i paletti della ‘big tent’, c’è da mettere ordine in casa: il Pd.
A partire dalla testa per arrivare in periferia.
La prima mossa: Lorenzo Guerini via dalla vicesegreteria del partito e forse anche Debora Serracchiani. Il primo dovrebbe essere nominato capogruppo del Pd alla Camera, la seconda tornerebbe a dedicarsi a tempo pieno al governo della sua regione, il Friuli.
L’idea di Renzi per la vicesegreteria del partito è Ettore Rosato.
Rosato, origine politica Areadem, l’area di Dario Franceschini, ora praticamente renziano, tra i più fidati del premier, capogruppo vicario del Pd alla Camera: a lui è toccata la gestione del gruppo di Montecitorio dopo le dimissioni di Roberto Speranza, in protesta contro l’Italicum.
E infatti era in predicato di diventare il nuovo capogruppo a tutti gli effetti. Invece sembrerebbe che Renzi voglia spostarlo al partito, sulla base della sua maturata conoscenza dei meccanismi interni a questo strano ‘animale politico’ chiamato Pd. Ma di certo, ora che il numero dei voti al partito è calato, come tutti gli altri partiti tranne la Lega (analisi istituto Cattaneo), Renzi vuole guardare bene all’interno della creatura che si trova a gestire, rinnovare la sua classe dirigente locale, fare in modo di non subire candidature come quella di Raffaella Paita in Liguria o di Vincenzo De Luca in Campania, entrambi “non renziani”, sostiene il premier nei ragionamenti con i suoi.
E i suoi lo spiegano: “Paita, figlia del governo Burlando in regione. De Luca, origine politica bersaniana o comunque vecchia guardia Pd, padrone delle tessere al sud, inamovibile…”.
Tanto che nemmeno Renzi è stato capace di eliminarlo dalla corsa elettorale Dem. L’idea è di produrre una nuova classe dirigente che sul territorio applichi il verbo del rinnovamento avvenuto a livello centrale. E per tutto questo serve il cambio al vertice.
E anche con tempi abbastanza immediati.
Renzi potrebbe parlarne anche lunedì sera, alla direzione nazionale convocata per le 21, al ritorno dal G7 in Germania.
Al gruppo a Montecitorio, tra l’altro, Guerini andrebbe a gestire una fase complicata. Perchè d’ora in poi il premier è determinato ad applicare alla lettera il regolamento di gruppo che prevede il rispetto da parte di ogni parlamentare delle decisioni deliberate a maggioranza, pena l’espulsione dal gruppo.
Una scelta che, in caso di nuove tensioni con la minoranza interna, verrebbe operata dall’ufficio di presidenza del gruppo, Guerini appunto, d’accordo col premier, s’intende.
E invece Rosato al partito andrebbe a gestire un’impresa pure complessa: costruire il Pd renziano che ancora non esiste. E’ un rimescolamento di ruoli che — nei propositi renziani – non dovrebbe dare l’idea della caccia al capro espiatorio per via dei problemi evidenziati dalle regionali. Perchè comunque “abbiamo vinto”, insiste ufficialmente il premier.
Ma il disegno di partenza va quanto meno rivisto.
“Non è cambiato nulla”, dice Dario Parrini, deputato e segretario del Pd Toscana, renzianissimo e appassionato di modelli elettorali e modelli di partito.
“Mica immaginavamo il Partito della Nazione come partito che prendesse tutto, senza un avversario di centrodestra? Il Pd deve essere un partito di sinistra, ma aperto sennò non si vince”.
Ma il dato oggettivo che pure ammettono nei circoli renziani lontano dai taccuini è che a ottobre, quando Renzi lanciò la sua ‘big tent’, si prevedeva un disfacimento totale del centrodestra sull’onda della crisi del berlusconismo.
Di certo nessuno, dentro e fuori il Pd, avrebbe scommesso sulla vittoria di Giovanni Toti in Liguria.
Dunque, la tentazione di stabilizzarsi come partito calamita per tutti e tutto pure fece gola al premier e ai suoi.
Ora lo scenario è cambiato. “Il centrodestra esce vivo da queste regionali, seppure in un’alleanza ancora non chiarita con la Lega”, dice un renziano di rango.
E poi c’è il M5s, che perde voti (sempre istituto Cattaneo) ma dimostra di essere in salute. Insomma, il Pd rischia di essere una specie di Colosseo: casa aperta a tutti ma con troppe correnti, ognuno che dice la sua anche in tv sul partito (è una delle accuse dei renziani alla minoranza) e tanti ‘capibastone’ sui territori che decidono più o meno in autonomia come e quando candidarsi. No, così non va.
E’ anche per questo che, pur annunciando il pugno di ferro nei confronti di chi in minoranza continuerà a ostacolare le scelte del governo e votare in dissenso dal gruppo, Renzi vuole invece rafforzare il rapporto con la parte dialogante dei non-renziani del Pd.
I cosiddetti ‘responsabili’ (anche se i diretti interessati odiano questo appellativo) capitanati dal ministro Maurizio Martina, ultra-stimato dal premier, e nati sull’onda delle polemiche sull’Italicum.
Sono Guglielmo Epifani (presidente della Commissione Attività produttive della Camera), Cesare Damiano (presidente della Commissione Lavoro della Camera) e tanti altri, in tutto una cinquantina.
Le loro presidenze (come anche quella del lettiano Francesco Boccia, Bilancio sempre a Montecitorio) non verranno toccate nell’imminente turn over degli incarichi istituzionali alla Camera.
Renzi ha promesso loro che cambierà solo le presidenze di Forza Italia per redistribuirle sempre tra la minoranza dialogante.
Anche con lo stesso Gianni Cuperlo, che non è uno dei responsabili ma uno dei deputati di minoranza che non hanno partecipato al voto sull’Italicum, Renzi mantiene un fitto rapporto di confronto.
Perchè ha apprezzato le sue parole di sostanziale ‘tregua’ pronunciate dopo l’approvazione della legge elettorale.
Mentre il premier non ha affatto gradito l’intervista di Pierluigi Bersani al Corriere della Sera proprio il giorno del voto, domenica. “Piena di livore”.
E infatti è proprio con l’ex segretario e i suoi più stretti che il filo di confronto potrebbe spezzarsi, si è già spezzato, forse definitivamente.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
BERLUSCONI CONTRATTACCA CON UNA CAMPAGNA ACQUISTI IN NCD… E ARRIVANO PURE I REPUBBLICANI DELLA DE GIROLAMO E DEL RESUSCITATO REGUZZONI
La linea ufficiale è tirare dritto come se nulla fosse. Anzi l’obiettivo è quello di accelerare sull’agenda di governo.
Ma per riuscirci, Matteo Renzi non potrà prescindere dal soccorso di Denis Verdini. Sì, proprio lui, il ras (quasi ex) azzurro della Toscana in procinto di lasciare Forza Italia per ravvivare il fuoco del mai sopito Patto del Nazareno e riabbracciare l’amico Rottamatore.
Una svolta ormai imminente e irrinunciabile per il presidente del Consiglio. Soprattutto dopo il risultato negativo delle Regionali. Che, rinsaldando le pretese della minoranza dem, rischia di minare il cammino della riforma costituzionale. Non solo.
C’è anche un’altra questione tutt’altro che marginale. Ed è quella che riguarda i numeri di una maggioranza sempre più risicata a Palazzo Madama.
Specie dopo lo smottamento causato dai Popolari per l’Italia (PI): Mario Mauro (approdato al Gal) e Tito Di Maggio (verso l’approdo tra i fittiani) hanno annunciato l’uscita dalla coalizione di governo. Mentre Angela D’Onghia, sottosegretario all’Istruzione, pur lasciando PI ha annunciato che non si dimetterà , continuando a sostenere l’esecutivo.
SOCCORSO AZZURRO
Un piccolo terremoto, ma sufficiente a far ballare la maggioranza proprio in vista del voto sulle riforme. Al Senato, dopo l’ultima transumanza, Renzi può infatti contare su appena 9 voti di scarto.
Un’incognita, insomma, in vista del nuovo braccio di ferro con l’opposizione interna, decisa più che mai a presentare il conto al premier-segretario dopo i 2 milioni di voti persi alle Regionali. Ed ecco, allora, il soccorso dell’amico Verdini.
Il custode del Patto del Nazareno, secondo quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, ha trascorso tutta la settimana scorsa a mettere a punto l’operazione che, a breve, dovrebbe portare alla nascita di un nuovo gruppo a Palazzo Madama, autonomo da Forza Italia e, ovviamente, gravitante nell’orbita renziana.
A comporlo, 4-5 senatori azzurri pronti a seguirlo, insieme a Sandro Bondi e signora, la senatrice Manuela Repetti. Il resto, per arrivare alla soglia dei 10 componenti necessari per dare vita ad un gruppo al Senato, reperito tra gli attuali iscritti al gruppo Gal.
Ed ecco che, come d’incanto, con 19 voti di scarto, la maggioranza tornerebbe a navigare su acque meno agitate.
INCOGNITA BERLUSCONI
Ma c’è un “ma”. Perchè per dieci verdiniani pronti ad accorrere alla corte di Renzi, potrebbero esserci altrettanti parlamentari, se non di più, disposti a lasciare la maggioranza per tornare con Silvio Berlusconi.
«L’ex Cavaliere vuole sentire uno a uno verdiniani, fittiani ma soprattutto i parlamentari del Ncd di Angelino Alfano», racconta una fonte ben informata sulle dinamiche del centrodestra.
A fare da sponda al progetto berlusconiano, c’è per esempio una nuova associazione, “I Repubblicani”, con il ritorno sulla scena dell’ex capogruppo leghista alla Camera, Marco Reguzzoni che, in tandem con Nunzia De Girolamo, ex presidente dei deputati del Nuovo Centrodestra e fortemente critica con la linea del presidente, ha annunciato l’impegno a riunire i partiti dell’area moderata.
Il battesimo del nuovo soggetto si è svolto a Milano e l’obiettivo dichiarato è quello di «formare una confederazione di forze politiche».
Che, tradotto, significa rimettere insieme Lega Nord, Forza Italia e un pezzo del Ncd, dove «sono al tutti contro tutti», racconta uno degli alfaniani delusi.
EFFETTO BERLUSCONI
Nel partito di Alfano, infatti, la situazione è tutt’altro che tranquilla, specie dopo il risultato delle Regionali: Area Popolare (Ncd più Udc) ha incassato percentuali poco rassicuranti in vista delle prossime politiche, tenuto conto della soglia di sbarramento introdotta con l’approvazione dell’Italicum (tre per cento).
E’ per questo che il coordinatore nazionale di Ncd, Gaetano Quagliariello, ha già minacciato la fuoriuscita dal governo, se non sarà modificata la legge elettorale appena approvata anche con il loro voto.
Senza contare che, ormai, dentro al partito, in molti non nascondono il malcontento per la difficoltà di «sostenere il governo Renzi dichiarandosi allo stesso tempo alternativi al Pd».
In questo “caos” il battesimo de “I Repubblicani”, benedetto anche da Antonio Martino, forzista della prima ora, che ha salutato i presenti con un videomessaggio, potrebbe catalizzare, a maggior ragione, lo scontento degli alfaniani traghettandolo di nuovo verso Forza Italia.
A testimonianza che l’operazione di ricucitura con Berlusconi è già in rampa di lancio e potrebbe finire per annullare l’effetto soccorso di Verdini all’amico Renzi.
Facendo così tornare a ballare la maggioranza di governo a Palazzo Madama.
Antonio Pitoni e Stefano Iannaccone
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
M5S STRIZZA L’OCCHIO ALLA CHIESA DI FRANCESCO
Nella campagna elettorale che ha preceduto le regionali di domenica molti parroci e missionari, in particolare al Sud, hanno fatto professione di fede politica per il M5S.
Nulla di eclatante, nessuna indicazione di voto esplicita, ma molti richiami all’etica pubblica, al voto consapevole, alla rottura dei legami di clientela che in alcune zone del paese costituiscono le sacche di consenso più rilevanti e decisive nell’elezione dei sindaci nei piccoli comuni.
Appelli che hanno sortito qualche effetto: se infatti il Movimento non è riuscito ad arrivare al ballottaggio in nessuno dei comuni capoluogo, in quelli di dimensioni più ridotte ha piazzato qualche candidato al secondo turno in alcune realtà difficili, come in Sicilia e a Quarto, in Campania, comune che arrivava al voto dopo uno scioglimento per infiltrazione mafiosa.
Il rapporto speciale tra il M5S e la Chiesa di Francesco è sempre più forte.
Una connessione che, prima dell’elezione al soglio pontificio di Bergoglio, era germogliata con i sacerdoti delle parrocchie in opposizione alle alte gerarchie vaticane.
Un argomento molto sentito, tanto che sul portale del Movimento, dove si discutono i progetti di legge, una delle proposte più discusse e votate è quella che abolisce il concordato tra Stato e Chiesa.
Poi, con l’elezione del Papa argentino, le cose sono cambiate e anche i rapporti col Vaticano hanno preso quota.
Spesso Grillo, parlando del M5S, fa riferimento a una sorta di francescanesimo politico.
E il messaggio del santo di Assisi è presente anche negli sporadici e stringati discorsi pubblici di Casaleggio.
Nell’aprile di quest’anno una delegazione del M5S, guidata da Roberta Lombardi, si è recata in Vaticano per chiedere un Giubileo dell’onestà , ottenendo parole di apertura da parte di Rino Fisichella, il vescovo che ha ricevuto dal Papa l’incarico di organizzare l’anno giubilare.
Un miglioramento progressivo delle relazioni, tanto veloce che il 21 maggio, durante la conferenza stampa conclusiva dell’assemblea dei vescovi, il presidente della Cei Bagnasco si è espresso pubblicamente in favore dell’adozione del reddito minimo, forse la più riconoscibile tra le proposte del M5S.
«Così come il M5S è contrario all’assistenzialismo — esultava la senatrice Nunzia Catalfo — lo è anche il cardinale Bagnasco. Quando abbiamo scritto il nostro disegno di legge, abbiamo ritenuto necessario condizionare il sostegno delle persone in difficoltà , al reinserimento delle medesime non solo nella società , ma soprattutto nel mondo del lavoro».
Francesco Maesano
(da “La Stampa”)
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
SI ERANO DOVUTI DIMETTERE PER LA VICENDA COMMISSIONI: 1.133 SEDUTE TEORICHE NEL 2014 PER UN COSTO DI 285.000 EURO…MA SE POI LI RIVOTATE CHE LI CONTESTATE A FARE?
Quattro mesi fa si erano dovuti dimettere dall’incarico, perchè erano assediati dalle proteste della popolazione: oggi tornano nuovamente ad occupare uno scranno al consiglio comunale di Agrigento, dopo aver raccolto centinaia di voti.
Sono otto i consiglieri comunali rieletti nella città dei Templi, dopo essere stati coinvolti nello scandalo delle commissioni: 1.133 sedute soltanto nel 2014, e cioè tre al giorno, festivi inclusi, al costo di 285mila euro.
Numeri che avevano affibbiato al consiglio comunale agrigentino il marchio di “Gettonopoli” (subito esteso anche ad altri consigli comunali siciliani), finiti al vaglio della Guardia di Finanza, e che alla fine avevano portato alle dimissioni del consiglio comunale.
Passata la bufera, però, 20 dei 30 ex consiglieri comunali avevano deciso di riprovarci: 12 sono stati bocciati dalle urne, mentre 8 sono stati riconfermati.
E nonostante il caso Gettonopoli avesse attirato ad Agrigento la curiosità delle televisioni nazionali (da L’Arena su Rai Uno a La Gabbia su La7), gli otto consiglieri rieletti sono stati comunque in grado di ottenere centinaia di preferenze.
Il primo degli eletti è Marco Vullo, del Pd, ex consigliere comunale riconfermato grazie a 774 voti, seguito da Gerlando Gibilaro, rieletto dal Nuovo Centro Destra con 604 preferenze.
Il partito di Angelino Alfano riporta in consiglio anche Alfonso Mirotta (532 voti) e Alessandro Sollano (489), mentre il Pd rielegge anche Angela Galvano (336).
Tornano a furor di popolo in consiglio comunale anche Angelo Vaccarello e Antonino Amato, ex Udc, eletto con 550 preferenze: faranno tutti parte della maggioranza di centro sinistra che ha sostenuto l’elezione a sindaco di Calogero Firetto, vincitore al primo turno col 59% dei voti.
Soltanto uno, invece, è il consigliere comunale rieletto da Silvio Alessi, il candidato sindaco vincitore delle primarie pasticcio, poi abbandonato dal Pd e quindi sconfitto sonoramente al primo turno: si tratta di Gianluca Urso, ex del Movimento per l’Autonomia, rieletto con 403 voti.
E se tra i consiglieri di Gettonopoli sono ben sette quelli eletti nella maggioranza di Firetto, il nuovo sindaco di Agrigento ha marcato più volte le distanze dallo scandalo delle commissioni: in campagna elettorale le liste civiche in suo sostegno avevano lanciato l’iniziativa “consigliere a gettone zero”, cioè un impegno scritto per rinunciare al rimborso in caso di elezione.
E in attesa di capire quanti siano i consiglieri eletti ad aver rinunciato per iscritto al gettone, Firetto ha designato tra gli assessori in pectore anche Beniamino Biondi, eletto a sua volta in consiglio comunale, che nei mesi scorsi era stato tra i promotori della protesta popolare contro Gettonopoli: in pratica siederà accanto agli ex consiglieri che aveva duramente contestato.
Nel frattempo a Raffadali, in provincia di Agrigento, il nuovo sindaco è Silvio Cuffaro, fratello di Totò, l’ex governatore della Sicilia detenuto nel carcere di Rebibbia dopo una condanna a sette anni per favoreggiamento a Cosa Nostra.
Il fratello minore di Totò Vasa Vasa, già sindaco fino al 2012, si è imposto con 3.768 voti, appena cinque in più rispetto a quelli conquistati da Piero Giglione, candidato del centro sinistra.
Giuseppe Pipitone
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
IL GRUPPO DI PI CONTA TRE SENATORI E SI SPACCA: D’ONGHIA RESTA, DI MAGGIO VERSO FITTO, MAURO IN GAL
I Popolari per l’Italia lasciano la maggioranza di governo. Niente paura, la forza di questa decisione non è tale da aprire una crisi nell’esecutivo guidato da Matteo Renzi.
Sulla carta gli scissionisti ex Scelta Civica sono 3 al Senato e 2 alla Camera. Ma uno dei senatori ha già annunciato che rinuncia all’esperienza nel mini-partito per tenersi il posto da sottosegretario.
Ad ogni modo se a Montecitorio la maggioranza è molto ampia, come al solito i numeri che ballano sono proprio a Palazzo Madama.
Qui il governo ha una decina di voti di margine. Da oggi, senza i Popolari per l’Italia, Renzi potrà così contare su 174 sì (su 161): i 36 del Nuovo Centrodestra, i 113 del Partito Democratico, i 19 del gruppo Autonomie (Svp, Patt, Union Valdotaine e Upt, oltre ad alcuni senatori a vita) e 5 del gruppo misto, Sandro Bondi, Benedetto Della Vedova, Salvatore Margiotta (ex Pd, uscito dal gruppo dopo una condanna), Mario Monti e Manuela Repetti.
Chi fa parte del gruppo dei Popolari?
Al Senato sono Mario Mauro (ex Forza Italia, ex montiano, guida del partitino), Tito Di Maggio (da sempre scatenato contro Renzi e infatti si è iscritto al nuovo gruppo dei fittiani) e Angela D’Onghia.
Ma subito dopo l’annuncio di Mauro (“Riforme non condivise e esaltazione del monocolore dell’esecutivo”) il gruppo che già si trovava all’interno del frittatone Gal (Grandi Autonomie e Libertà ) si è scisso in tre: tre senatori, tre direzioni.
Mauro, infatti, resta nel Gal e passa all’opposizione. Sempre opposizione è, ma passa al gruppo nascente dei fittiani Di Maggio.
La D’Onghia, invece, è sottosegretaria all’Istruzione e — in tempo zero — e ha deciso di abbandonare il partito mignon e restare in maggioranza “per il bene del Paese”.
Da capire cosa farà , invece, Domenico Rossi, ex generale ora sottosegretario alla Difesa. Rossi è uno dei deputati popolari. L’altro è Mario Caruso.
Tutto questo che sembra solo un gioco di sedie e nomi in realtà ha un peso politico sulla sorte del disegno di legge sulle riforme istituzionali e del ddl Buona Scuola che proprio al Senato devono arrivare nelle prossime settimane.
Qui il problema non è tanto dovuto all’ampiezza variabile della maggioranza, quanto alla battaglia annunciata da settimane dalla minoranza Pd e in queste ore anche dal Nuovo Centrodestra che intende rompere la serenità della maggioranza per spingere i democratici a modificare l’Italicum, peraltro già approvato definitivamente.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
IN CASO DI CONDANNA IN PRIMO GRADO ANCHE PER LUI LA LEGGE SEVERINO PREVEDE LA SOSPENSIONE DALLA CARICA
Poco meno di un anno fa l’inchiesta: “Pressioni del governatore della Lombardia per far ottenere contratti a due fedelissime”.
A 11 mesi dall’avviso di garanzia il pm di Milano Eugenio Fusco ha chiuso le indagini nei confronti di Roberto Maroni.
Al leghista, che siede sulla poltrona di presidente della Giunta della Lombardia, viene contestato il reato di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e induzione indebita per presunte spinte per far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a due sue ex collaboratrici al Viminale.
Nel settembre del 2014 l’inchiesta si allargò anche ad Andrea Gibelli, già segretario generale della Regione Lombardiai.
Tra gli indagati c’è Expo, in base alla legge 231 per la responsabilità amministrativa delle società , e il suo direttore generale Christian Malangone.
Le due ex fedelissime dell’allora ministro
A far finire nei guai l’ex segretario del Carroccio sono state Mara Carluccio e Maria Grazia Paturzo, che non erano state inserite nello staff del presidente per timore che la Corte dei conti potesse fare dei controlli e contestare le assunzioni.
A compensazione, però, le due signore avevano ottenuto due contratti, uno da Eupolis e l’altro da Expo 2015.
La Carluccio era stata già in passato collaboratrice del leghista quando era ministro dell’Interno e in passato aveva ottenuto incarichi di consulenza.
A lei era finito, secondo quando si leggeva nel capo di imputazione, un contratto di Eupolis Lombardia l’Istituto superiore per la ricerca, la statistica e la formazione del Pirellone.
Un contratto da 29.500 euro annui, somma “fissata” dalla stessa “per proprie esigenze fiscali”. Più importante il secondo contratto: alla Paturzo, già collaboratrice di Isabella Votino portavoce di Maroni, dovevano arrivare 5417 euro mensili per due anni. In questo caso, era stato ipotizzato all’inizio dell’inchiesta, a essere concussi sarebbero stati esponenti di Expo 2015 e esponenti di “Obiettivo lavoro temporary manager”.
La “relazione affettiva” e l’sms che inguaia Maroni
Secondo la procura di Milano potrebbe essere stato un legame più che professionale, “una relazione affettiva” — come si legge nel capo di imputazione e come riporta il Corriere della Sera — a indurre Maroni a fare pressioni affinchè Expo pagasse la missione a Tokyo della signora Paturzo.
È stato un sms del capo della segreteria del presidente, Giacomo Ciriello, che ha di fatto inguaiato Maroni.
Il messaggino inviato a Malangone il 27 maggio dell’anno scorso che recitava: “Christian, il Pres. ci tiene acchè la delegazione per Tokyo comprenda anche la società Expo attraverso la dottoressa Paturzo e voleva” che anche lei “viaggiasse” in business class e alloggiasse in albergo di lusso.
Nel registro degli indagati sono infatti finiti i protagonisti del messaggino: Maroni che chiedeva, e Ciriello, che, secondo la tesi della Procura, avrebbe indotto Malangone a garantire l’esborso di 6mila euro per le spese del volo e dell’alloggio della Paturzo in Giappone come invocato dal governatore lombardo.
Il viaggio però fu cancellato e i biglietti vennero utilizzati da un’altra delegazione: il danno finale fu molto minore, ma questo cambia poco per il codice penale perchè la fattispecie del 319 quater punisce già la “promessa indebita di utilità “.
Le pressioni per il viaggio a Tokyo e il no di Sala
Malangone, secondo l’ipotesi del pm, avrebbe agito salvaguardare la posizione dell’ad Giuseppe Sala, estraneo all’inchiesta, e rafforzare la sua rispetto ai vertici dell Pirellone. In questa ottica, dopo l’sms, il dg incontra Ciriello spiegandogli che per la missione Tokyo deve chiedere a Sala ricordando che in passato alla Paturzo era stata negata una trasferta a Barcellona.
E Sala poi aveva risposto no. Successivamente il via libera sembra arrivare perchè Ciriello scrive a Malangone e quest’ultimo attiva la pratica, volo e albergo.
A un certo punto Malangone scrive al capo di comunicazione Expo: “Ok, capo allineato” volendo forse intendere che Sala ne era stato informato. Il tour nel Paese del Sol Levante salta, una nuova squadra viene allestita per Tokyo dove andrà Mantovani.
Il contratto per Mara Carluccio e il ruolo di Gibelli
Maroni condivide l’altra contestazione, in concorso sempre con Ciriello, con Gibelli.
In questo caso le pressioni portarono ad assegnare a un’altra ex fedelissima dei tempi del Viminale l’incarico in Eupolis. Tranche d’inchiesta per cui l’allora direttore generale di Eupolis, Alberto Brugnoli ha già patteggiato 8 mesi. I fatti risalgono a fine 2013, come la Paturzo anche la Carluccio non può essere inserita nello staff di Maroni. Gibelli, secondo la ricostruzione della Procura, su indicazione di Maroni, contatta Brugnoli, all’epoca dei fatti direttore generale di Eupolis, e gli consegna il curriculum vitae di Mara Carluccio e gli preannuncia che sarà contattato da Ciriello.
Cosa che avviene e il capo segreteria di Maroni chiede a Brugnoli di essere aggiornato sull’iter dell’assunzione. A inizio novembre 2013, Brugnoli contatta a sua volta Mara Carluccio (che era stata già allertata da Ciriello su questa eventualità ) e i due concordato un incontro per il 13 nella sede di Eupolis.
Il bando ad hoc e la consulenza conferita
Qualche giorno dopo, Mara Carluccio invia un sms a Brugnoli: “Gentile dottor Brugnoli, ho parlato con il mio commercialista che, per evitare di pagare troppe tasse, mi ha consigliato di prevedere una retribuzione che non superi 29.500 euro“.
E proprio questa somma sarà quella inserita nel bando di gara di Eupolis, poi assegnato a Mara Carluccio.
Ma prima di arrivare alla gara, il 25 novembre Brugnoli inserisce il nome della Carluccio nella lista dei consulenti accreditati presso la società e il 3 dicembre i due si incontrano di nuovo per concordare l’oggetto della consulenza che può offrire alla Eupolis.
Il 13 dicembre viene attivata la procedura comparativa, il 17 dicembre emanato il bando e individuata la commissione, il 18 dicembre viene messo l’avviso della procedura sul sito di Eupolis e lo stesso giorno la commissione esamina i curricula dei candidati, così si arriva al 19 dicembre, quando viene conferito l’incarico di consulenza alla signora a decorrere dal 2 gennaio 2014.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
DAL 2,2% IN PUGLIA AL 2.08% DI CHIETI E ALL’1,3% DI COLLEFERRO FINO ALLO 0,6% DI MATERA…IN SICILIA IL RISULTATO MIGLIORE E’ AD AGRIGENTO CON IL 3,4% CON L’APPOGGIO DI EX MPA, MA A MILAZZO RACCOGLIE SOLO L’1,2% E A GELA L’1,05%
A guastare la festa a Salvini sono ancora una volta “i meridionali che puzzano” che, nonostante la sua recente, interessata conversione, hanno pensato bene di rimandarlo in padagna in brache di tela o meglio in canottiera.
Al Sud il cambio di felpa non ha funzionato, sotto le Marche il grande stratega Volpi ha fatto flop dimostrando tutti i limiti di un leader che nazionale non sarà mai, nonostante i falliti e i manutengoli destrorsi che localmente hanno cercato di riciclarsi dietro la sigla “Noi con Salvini”.
In Puglia, dove «Noi con Salvini» si è presentata alla regionali, il risultato è stato un disastro: appena 38.000 voti, pari al 2,2%.
Si era lamentato Rossano Sasso, coordinatore pugliese del movimento salviniano, quando era uscito ad aprile scorso un sondaggio Swg che stimava il partito appunto al 4%: «Siamo infuriati, altro che contenti! – tuonò il leghista barese – Il dato è sottostimato. Difficilmente un intervistato dirà che vota Lega».
Racconta Paolo Mieli (in tv a Piazza Pulita) che in un dibattito pubblico lo stesso leader della Lega si disse certo di prendere in Puglia «tra il 6 e il 9%, ma forse anche di più».
La botta è stata forte anche in Abruzzo: a Chieti la lista «Noi con Salvini» ha raccolto solo 508 voti, pari al 2,08%. Anche nel Lazio si fatica. A Colleferro non va oltre l’1,3% (in coalizione per il candidato sindaco Silvano Moffa)
In Basilicata un disastro, a Matera prossima capitale europea della cultura, la versione sudista della Lega si ferma allo 0,60%.
Ancora in Puglia ma per le comunali, a Manfredonia «Noi con Salvini» arriva allo 0,9%, tra gli ulivi e i trulli di Carovigno acciuffa l’1,6, senza eleggere sindaci neppure lì.
In Sicilia farnetica di «risultato eccezionale» il segretario nazionale di «Noi con Salvini», il catanese Angelo Attaguile, deputato della Lega che indovinate da dove viene. Dal Mpa di Lombardo (il padre Gioacchino è stato ministro Dc), ancora sotto processo per i rapporti con la mafia.
Ad Agrigento il partito di Salvini in versione meridionale arriva al 3,4%, a Milazzo, si ferma all’1,26%, a Gela non va oltre l’1,05%., in altri centri non pervenuto.
Per uan volta i clandestini sono stati respinti.
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
FORMALIZZATA LA NASCITA DI “CONSERVATORI E RIFORMISTI” A PALAZZO MADAMA… RIUNIONE IN CORSO TRA I DEPUTATI
Fitto va anche lui veloce: dopo l’addio a Forza Italia e la scelta di correre in Puglia con una sua lista civica a sostegno di Francesco Schittulli, oggi ha ufficializzato la costituzione gruppo dei ‘Conservatori riformisti’ al Senato.
A pranzo, l’ex ministro pugliese ha convocato i suoi senatori avviare il percorso politico annunciato prima delle regionali che porterà alla costruzione di un nuovo contenitore moderato di centrodestra alternativo a Matteo Renzi.
Con una nota diffusa intorno alle 16.30 l’eurodeputato ha sancito la nascita del suo gruppo (previa comunicazione al presidente dell’assemblea di palazzo Madama Pietro Grasso): è formato da 12 componenti e sarà guidato dal presidente Cinzia Bonfrisco.
L’ultima new entry è quella del deputato Massimo Corsaro, ex Fdi.
Sono 12, dunque, i senatori che hanno aderito al nuovo movimento politico di Fitto: gli stessi che firmarono una nota congiunta il il 26 maggio scorso, il giorno del ‘battesimo’ alla Camera dei ‘Conservatori e riformisti’ dell’ex ministro pugliese con i vertici del gruppo Conservatore e Riformista europeo, Syed Kamall e Geoffrey Van Orden.
Si tratta dei parlamentari Bonfrisco, Francesco Bruni, Luigi D’Ambrosio Lettieri, Tito Di Maggio, Pietro Liuzzi, i campani Ciro Falanga, Eva Longo e Antonio Milo, Lionello Pagnoncelli, Luigi Perrone, Lucio Tarquinio, Vittorio Zizza.
Ora è in corso una riunione con i deputati a lui strettamente vicini che sarebbero attualmente 18 (ne servono 20 per costituire il gruppo, salvo deroghe, peraltro già concesse in passato).
Il problema in realtà non sarebbe tanto che ne mancano due, quanto l’esame delle molte richieste di adesione che si stanno valutando con attenzione, onde evitare di accogliere personaggi inaffidabili nel tempo (provenienze varie, dal gruppo Misto ad Area Popolare, da ex aennini a ex pentastellati).
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Giugno 3rd, 2015 Riccardo Fucile
CINQUE ANNI FA NE RACCOLSE IN CAMPANIA OLTRE 15.000 CONTRO LE 60.000 DELLA CARFAGNA… E’ ORA DI CALARE IL SIPARIO
Probabilmente non le hanno portato fortuna le dichiarazioni proferite quando al voto mancava ancora un annetto. Era il 24 giugno 2014 e, mentre l’ipotesi di una Francesca Pascale candidata governatrice in Campania scuoteva il centrodestra, Alessandra Mussolini commentava: «Ne avrebbe tutte le capacità . Lei ha il quid, a differenza di Caldoro».
Insomma, vedere la nipote del Duce in campagna elettorale fianco a fianco con il governatore uscente deve aver disorientato un po’ l’elettorato.
E non è bastato per recuperare sentirla definire l’esponente ex socialista un politico «pacato, sobrio, responsabile», che «ha governato bene, ha risanato lo sfascio lasciato dal centrosinistra e ora deve avviare la fase della crescita e dello sviluppo».
E così, per la Mussolini è stato impossibile replicare il risultato ottenuto cinque anni fa nella stessa competizione.
Allora si fermò a 15.486 voti, e già si parlò di mezzo flop, considerato che Mara Carfagna ne aveva raccolti quasi sessantamila.
Stavolta, invece, la nipote del Duce si è fermata poco sopra le duemila preferenze. Poche, decisamente troppo poche per chi in passato aveva persino sfidato Antonio Bassolino per la poltrona di sindaco di Napoli.
Eppure Alessandra in campagna elettorale non si è risparminata. Ha indossato una maglietta bianca con scritto «jamm’a vota’» (andiamo a votare) e si è spesa fino in fondo per la causa di Forza Italia: «È stata una scelta di cuore» disse dopo aver accettato la proposta di Berlusconi di guidare le liste azzurre.
«Mi ha chiamato il presidente, come sempre è stato gentile e affettuoso, mi ha chiesto di affrontare questa battaglia per Napoli. Sono una militante, sono stata felice di dirgli di sì». «Il mio amore per Napoli è vero e forte – chiosava – se sia corrisposto non lo so, non lo devo dire io, lo devono dire i napoletani. Ma ho sempre ricevuto rispetto e simpatia. Poi sa, la politica è ondivaga, ci sono le mode…».
Ecco, appunto. Si direbbe che la moda del momento non sia proprio quella di votare Mussolini, per lo meno in Campania.
E qualche sospetto lo deve aver avuto la stessa Alessandra, se è vero che non ha pensato neanche per un attimo di dimettersi da parlamentare europea. A Strasburgo, un anno fa, arrivò sull’onda di 84mila preferenze. Ma fu candidata nella circoscrizione Centro, non nel sud. Presagi?
Come che sia, il risultato delle elezioni campane è destinato a causare un piccolo terremoto in Forza Italia, per lo meno a livello locale.
La ricandidatura di Stefano Caldoro non era ben vista da larghe fette del partito, al punto che era stato lo stesso governatore uscente a porre un ultimatum alla coalizione. «O sono tutti con me, o non mi ricandido».
E a quel punto gli azzurri gli erano andati dietro, probabilmente anche per mancanza di alternative, vista la ritrosia di Mara Carfagna a scendere direttamente in campo.
Ora sono in tanti a pensare che altri candidati avrebbero avuto più chance di trionfare. Anche perchè un’occasione simile, con un avversario mezzo appiedato dalla legge Severino e per giunta «impresentabile» per la commissione parlamentare Antimafia, difficilmente si ripresenterà .
E così, a pagare la debacle in una delle regioni chiave del cerchio magico (oltre alla Carfagna, ha dato i natali anche alla fidanzata di Berlusconi Francesca Pascale) potrebbe essere proprio il governatore uscente.
Secondo Dagospia, infatti, Caldoro sarebbe stato già estromesso dall’ufficio di presidenza di Forza Italia, nel quale si trovava addirittura nella prima cerchia, tra i membri con diritto di voto.
Da governatore a soldato semplice in una notte.
(da “il Tempo”)
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