Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
SECONDO IL NOTO GIORNALISTA TV “TSIPRAS HA SPRECATO TEMPO” MA ANCHE I CITTADINI HANNO COLPE: “I RAGAZZI NON VOGLIONO FARE LAVORI FATICOSI E HANNO LASCIATO I VECCHI MESTIERI AGLI IMMIGRATI”
Euro o dracma? Europa o Russia? Con la moneta unica “saremo pakistani per 50 anni, con la dracma torneremmo al dopoguerra ma forse ci salveremmo”, ammette con ilfattoquotidiano.it Makis Triantafilopoulos, uno dei volti più noti del giornalismo investigativo greco, creatore tra l’altro del programma tv Zougla e autore di numerose trasmissioni sugli scandali ellenici, che gli sono valse anche non poche denunce.
In un buon italiano, frutto degli anni trascorsi all’università di Bologna, Triantafilopoulos analizza vizi e virtù del governo di Alexis Tsipras accusandolo di aver “perso troppo tempo”.
Qual è la situazione sociale al momento in Grecia?
Dipende dalle condizioni economiche del Paese. Quindi se non ci sono soldi non c’è lavoro e se non c’è lavoro restano solo problemi. I cittadini sono divisi tra pro euro e pro dracma. Secondo me con la moneta unica saremo destinati ad essere pakistani per i prossimi cinquant’anni, invece senza l’euro torneremmo agli anni del dopoguerra e della fame. Sarà molto difficile.
Con la dracma come valuta interna che cosa cambierebbe?
Sarebbe dura, ma solo all’inizio. Dopo i primi due anni di difficoltà ci potranno essere margini di sviluppo con un’economia basata sul lavoro della gente e sulla possibilità di eliminare la vera disgrazia greca: la mafia politica.
Come giudica i primi centocinquanta giorni del governo Tsipras?
Il governo ha solo sprecato tempo perchè ha fatto un discorso politico mentre gli altri a Bruxelles portavano numeri e conti. L’unico risultato di Tsipras è stato di perdere giorni.
Con quali conseguenze per il paese e i cittadini?
Che il debito aumenta. Che senso ha per i poveri del sud Europa andare a discutere con i ricchi che comandano il continente? Di che cosa dovrebbero parlare, della loro ricchezza o della nostra povertà ? Credo sia la stessa cosa per l’Italia, che conosco bene. Voi vi salvate solo perchè avete l’industria pesante. La Grecia non ha più neanche l’agricoltura.
Perchè non si è riusciti a strutturare una politica industriale in settori favorevoli al Paese, come l’agricoltura o l’enogastronomia?
Moltissimi immigrati, come pakistani e indiani, sono giunti in Grecia per salvarsi e a loro i greci hanno lasciato tutti i mestieri di un tempo. Dove sono oggi i ragazzi greci? Preferiscono stare al caffè e non cercare lavori faticosi. Un mio amico albanese venuto in Grecia per cercare lavoro ha iniziato come operaio e oggi possiede due palazzi interi a Salonicco e tre in Albania. Sono cose pazzesche. Non so come, ma qui si è riusciti a rovinare tutto.
Quanti greci fanno il tifo per un nuovo accordo con i creditori, anche a costo di nuove misure?
La maggior parte aspetta una soluzione del genere perchè teme di tornare alla dracma. Il motivo? Tornare alla Grecia degli anni ’50 significherebbe rimettersi in discussione ed è molto difficile per quei greci che oggi sono abituati al benessere e alla globalizzazione. La gente qui è maleducata e pensa che nei campi debbano lavorare solo gli albanesi.
Quanto è verosimile un nuovo rapporto tra Grecia e Russia?
Non ci credo, anche se sono uno di sinistra. Ma sinistra alla bolognese e non alla greca, così come non ci ha creduto neanche Togliatti a Salerno. I russi guardano solo i propri confini e aiuteranno la Grecia solo se per loro è conveniente. Altrimenti la abbandoneranno: questo è poco ma sicuro.
Francesco De Palo
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
L’ESPERTO DEL MONDO ARABO: “MA LA NOSTRA VITA QUOTIDIANA RESTA SICURA”
«Ora hanno superato una linea rossa che non dovevano varcare. Oggi ero in una importante moschea di Tolosa: l’imam ha condannato con forza l’episodio di Grenoble ».
Questo teneva a dire Gilles Kepel, politologo, accademico e grande esperto del mondo arabo. Che avvisa: «Non mi stupirei se ci fossero presto altri episodi».
Professor Kepel, abbiamo visto colpire in spiaggia, in una fabbrica, nell’auto di un uomo ucciso dal proprio dipendente. C’è un’immagine di grande fragilità .
«La nostra vita quotidiana resta ugualmente sicura. Però la fragilità è la rappresentazione mediatica che emerge. E l’Is vuole proprio questo, creare paura in Europa e mobilitare gli europei contro i musulmani, per provocare radicalizzazione fra i musulmani, una loro reazione e infine una guerra civile, come spiegava già nel 2004 l’”Appello alla resistenza islamica globale” che il portavoce di Bin Laden, nome di guerra Abu Mussab Al Suri, pubblicò su internet. Lì si teorizzava l’uso della minoranza di musulmani europei “non assimilabili” alla cultura occidentale. Mi lasci però dire che questi attentati sono nell’anniversario della nascita del Califfato e dimostrano sia la volontà di festeggiarlo che quella di farsi vedere capaci di colpire ovunque, in un momento nel quale hanno vari problemi».
Sta dicendo che si tratta anche di un segnale di paura?
«Hanno bisogno di non mostrarsi indeboliti. Il cosiddetto califfo Abu Bakr al Baghdadi e il suo portavoce Abu Mohammad al Adnani hanno detto più volte che avrebbero festeggiato in tutto il mondo. Volevano dimostrare la loro capacità competitiva fra le varie potenze sunnite. Dall’altro lato ci sono Arabia Saudita, Qatar, Turchia, che finanziano i gruppi di Jesh al Fatah contro Assad e mai vorrebbero che l’Is arrivasse a Damasco. Ma l’Is adesso è ferma a Palmira, mentre sul retro ha perso il controllo della frontiera turca, quindi molti guadagni del contrabbando. E i raid aerei hanno successo. Li guidano i microchip piazzati da spie che due giorni fa, in un video diffuso solo in arabo, venivano punite con immersioni in gabbia sottacqua o mozzando loro la testa con l’elettricità . E ora, oltre all’attacco sulla spiaggia tunisina, siamo davanti a una moschea sciita colpita in Kuwait- e alla prima decapitazione in Europa».
Con quale meccanismo si scatenano questi episodi?
«Questa organizzazione non è piramidale: non c’è una decisione presa dall’alto. Si tratta di un meccanismo che parte dal basso, autonomo. Un modo del tutto nuovo di essere da parte di quella che è la terza generazione di jihadisti. Facilmente indottrinabili, poco identificabili, mobilitati via social network a migliaia e con un terreno di guerra raggiungibile con un volo low cost via Istanbul».
C’è una componente sociale, di sentimenti di emarginazione?
«Anche, ma i 1600 francesi coinvolti con il jihadismo non sono certo tutti emarginati. Diciamo che al posto delle vecchie visioni alternative, di destra o sinistra, ora c’è l’islamismo radicale ».
Quale ruolo possono avere gli altri musulmani?
«Sono a Tolosa, il posto dove Mohammed Merah compì la strage della scuola ebraica. Oggi ero in una delle moschee più importanti della città , punto di riferimento dei salafiti. L’imam era sconvolto. Ha definito i fatti di Grenoble come “particolarmente orrendi” perchè compiuti durante il Ramadan. Si è detto “offeso” da quel che è accaduto: credo che l’Is ha passato un confine che non doveva superare.
E la grande sfida è stare tutti uniti, come nella manifestazione dopo gli attentati di Parigi».
Oltre a questo e ad aumentare la sicurezza, cos’altro si può fare?
«La cosa principale è essere in grado capire il fenomeno. Ma gli studiosi specializzati sono pochissimi e i servizi segreti sono incapaci di esaminare questo nuovo terrorismo, che è una vera rivoluzione culturale, fatta dall’effetto dei social media combinato con quello di un terreno di battaglia molto vicino».
Alessandra Baduel
(da “La Repubblica”)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
SECONDO UN SONDAGGIO DEI CONSULENTI DEL LAVORO, PER IL 70% I NUOVI CONTRATTI SONO TRASFORMAZIOMI DI CONTRATTI GIA’ IN ESSERE
Il Jobs Act ha incrementato il lavoro a tempo indeterminato ma nella gran parte dei casi si tratta di stabilizzazione di contratti precari e non di un incremento dell’occupazione.
Il dato emerge dal sondaggio “Il Jobs Act a 4 mesi dall’entrata in vigore” della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro realizzato in occasione della sesta edizione del Festival del lavoro secondo cui solo il 40% degli intervistati pensa che il Jobs Act abbia ricadute economicamente e socialmente significative sul proprio territorio.
E alla richiesta di assegnare un voto il risultato è un risicato 5.
Oltre il 70% del campione ritiene che non siano aumentate le assunzioni ma si tratti di trasformazone di contratti già in essere.
Appena il 10% dei datori di lavoro si ritiene pienamente soddisfatto dei contenuti del Jobs Act, tanto da definirlo uno strumento essenziale per lo sviluppo dell’impresa.
Un terzo afferma invece che avrebbe preferito un’altra tipologia di intervento o addirittura lo trova inutile.
La preoccupazione maggiore degli intervistati riguarda cosa accadrà alla scadenza degli incentivi previsti dalla legge di stabilità 2015 e che consente ai datori di lavoro di non pagare i contributi Inps per tre anni fino a poco più di 8 mila euro.
Il 71% del campione ritiene che alla fine del periodo si tornerà ai livelli, anche perchè ben il 73% degli intervistati non vede alcun segnale di ripresa economica.
Il 29% del campione stima invece che nel prossimo futuro potranno aumentare le assunzioni, ma, nella quasi totalità , chi ha una percezione positiva del futuro (miglioramento economico generale e quindi aumento dell’occupazione) appartiene alle aree del centro-Nord.
Il 75% del campione infine non ha notato particolari cambiamenti nello svolgimento delle proprie attività professionali dal momento dell’entrata in vigore del provvedimento.
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
OBIETTIVO RIFONDARE IL PARTITO
“Il Pd non è solo Matteo Renzi, e non può essere il megafono di palazzo Chigi. Tocca a noi rispondere a chi ci chiede un altro Pd, un’altra visione del centrosinistra”. Roberto Speranza scalda la platea della minoranza dem riunita a Roma a due passi da via Margutta.
Cinquanta minuti di relazione in cui l’ex capogruppo alla Camera demolisce 18 mesi di renzismo e s’incarica di prendere sulle spalle quel che resta della sinistra nel Partito Democratico.
Non alza i toni, il mite Speranza, però è molto duro su un partito “diventato somma di comitati elettorali, che s’illude di potersi affidare a un leader, che ha asfaltato tutte le forze intorno e infatti ai ballottaggi i nostri voti non aumentano”.
Dal lavoro all’Italicum, dalla scuola alle riforme istituzionali, passando per l’idea di un nuovo centrosinistra, Speranza s’intesta la leadership della minoranza.
Alla fine del suo intervento molti delegati si alzano in piedi, lui viene colto in contropiede, si rialza e saluta con la mano, visibilmente emozionato.
In prima fila Bersani annuisce, “relazione perfetta, io non ho nulla da aggiungere”. C’è un patto di ferro tra il vecchio leader e il suo delfino, la famosa “ruota che gira”. “E’ il giorno di Roberto”, commenta Bersani, soddisfatto del suo (per ora mezzo) passo indietro.
Speranza ha appena finito di demolire il Pd renziano, “basta picchiare sui corpi intermedi, non esiste un modello con un leader e una moltitudine informe di cittadini”.
Usa parole sconosciute all’altro Pd, come “umiltà ”, ricorda che oltre a Fassina e Civati “nei territori il fenomeno della scissione è molto più profondo”, lancia a Renzi un avvertimento sui prossimi appuntamenti parlamentari: “Non si può abusare all’infinito del nostro senso di responsabilità , non si può governare dividendo il Paese”.
Nelle prime file Gianni Cuperlo, l’ex sfidante di Renzi alle primarie.
Con Speranza sta costruendo una partnership sempre più forte, fino a immaginare un grande evento in autunno per dar vita a una nuova area unificata della minoranza.
Un processo ancora in corso, per ora le due correnti non si sciolgono, Cuperlo ipotizza un “patto di coordinamento tra i parlamentari”, poi si vedrà . “Ma il tempo stringe”, avverte.
Per entrambi la decisione di restare nel Pd ormai è assodata, e non più in discussione. L’orizzonte è il congresso del 2017, la costruzione di una alternativa a Renzi, prima sui contenuti e poi sulla leadership, ma è chiaro che in pole position per ora c’è Speranza, classe 1979.
E’ proprio lui a lanciare la sfida a Renzi, quella di un appuntamento in autunno per “rilegittimare le scelte che stiamo facendo al governo”.
Non è una richiesta di congresso, ma ci si avvicina. “Bisogna chiamare i nostri iscritti a dire come la pensano sui temi principali, dal fisco all’immigrazione alla scuola. C’è uno scollamento tra il nostro popolo e quello che fa il governo, nessuno ha dato a Renzi una delega in bianco fino al 2017”.
Il premier-segretario ha già risposto a queste sfide, “dovete aspettare il congresso”. Ma D’Attorre incalza: “Non ha avuto il mandato da nessuno per fare quello che sta facendo, non dagli elettori e neppure dalle primarie”.
La sfida è lanciata e ad oggi appare quasi una mission impossible.
Sul tavolo resta il tentativo di una “ripartenza” del Pd, del recupero di ”quella fetta di elettori che ci ha voltato le spalle”.
Più che ripartenza, sembra la conferma di un partito nel partito, un Pd 2 che si richiama alle parole d’ordine dell’Ulivo.
”Facciamo come Gianni Rivera, lanciamo la palla in una parte del campo dove ora non c’è nessuno e proprio lì potrebbe arrivare un popolo”, suggerisce Cuperlo dal palco.
“Il partito della nazione si è spento nelle urne, è stato un errore di calcolo e di visione. E ora abbiamo una leadership fragile e in difficoltà . Tocca a noi indicare la strada, a una sinistra larga che sta dentro e fuori il Pd”.
Nei vari interventi, dall’ex ministro Zanonato a Epifani fino ad Alfredo Reichlin, si coglie la diagnosi di una parabola di Renzi ormai in fase discendente.
E di una minoranza cui tocca ricostruire sopra le macerie, tra mille difficoltà . A partire da “un partito da rifondare e un centrosinistra da ricostruire”, spiega Cuperlo. Durissimo Reichlin, che accusa Renzi di “ignoranza e stupidità ”, quando ha pensato a “un partito indistinto, personale e trasformista”.
“Se asfalti i valori del centrosinistra poi la gente non ti vota più. Ha giocato con la destra come il gatto con il topo per poi scoprire che nel paese del fascismo non esiste una destra moderata, ma c’è la barbarie”.
Reichlin ne ha anche per la minoranza: “Dobbiamo mettere in campo oltre alle proteste e ai voti contrari qualcosa in più, un pensiero politico, che non è un semplice documento programmatico. Bisogna scardinare il blocco sociale che ci governa, che non è Renzi. Serve una forza larga di popolo di centrosinistra, capace di grandi alleanze sociali”.
La ripartenza della minoranza dem dunque è solo all’inizio.
Un vagito che può essere facilmente travolto e zittito. Il rischio all’orizzonte è quello dell’impotenza, dei penultimatum.
Peggio ancora, quello di finire, fuori dal Pd, “nel ribellismo e nell’irrilevanza”. Speranza avverte: “L’Italicum è pericoloso e va cambiato, altrimenti è necessario un Senato delle garanzie eletto dai cittadini”.
Dopo la scuola, sarà questa la battaglia più dura della minoranza prima della pausa estiva. E con Renzi ancora un’intesa non c’è, e neppure una trattativa aperta.
In sala c’è anche Vasco Errani. Dal palco Speranza lo indica come “buon esempio” per le due dimissioni anche di fronte a una condanna poi cancellata.
Applausi, lui sorride, si parla di un suo ritorno nelle prime fila della politica dem.
Ma l’interessato svicola: “ Dare una mano? Sono qui per questo, lo vedete no?…”. Bersani lascia la sala congressi prima della fine.
In strada un gruppo di militanti campani lo accoglie con calore e foto dai cellulari. Si avvicina un ragazzo: “Facciamo un selfie, e scusa se è una cosa un po’ renziana…”. Lui sorride e s’infila in via Margutta: “Questa è la giornata di Roberto…”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
IL SINDACO: “IO NON MOLLO, CI RIVEDIAMO ALLE ELEZIONI DEL 2018”
«Marino tu devi restare» sulle note della celebre canzone «Marina».
E poi uno slogan che suona come una preghiera: «Daje Igna’!».
Sono centinaia i cittadini che si sono dati appuntamento tramite i social network per il flash mob a sostegno di Ignazio Marino.
Al contrario di M5S, Forza Italia, Fdi, Ncd e opposizioni varie i romani saliti sul colle del Campidoglio vogliono che il sindaco vada avanti, messaggio riassunto in un’enorme bandiera con la scritta «Daje più forte» issata accanto al Marc’Aurelio.
Cori, foto e slogan
Proprio nel giorno in cui al primo cittadino viene assegnata la scorta, il suo popolo manifesta tra stendardi (pure del Pd) fischietti, trombette, cori e una marea di cartelli e t-shirt con foto e slogan, con un leit motiv preciso: «Io sto con il sindaco Ignazio Marino».
E ci sono anche gli eletti della sua Lista civica, come i consiglieri comunali Franco Marino e Svetlana Celli; gli esponenti del Partito democratico, come il deputato ed ex segretario romano Marco Miccoli, Enzo Foschi e il consigliere comunale Athos De Luca; il vicesindaco Luigi Nieri e Annamaria Cesaretti, esponente di Sel nell’assemblea capitolina.
In piazza diversi assessori, dalla dem Marta Leonori (Commercio) ai tecnici Alfonso Sabella (Legalità ) e Maurizio Pucci (Lavori pubblici).
«Non mollo»
Il sindaco, quando si affaccia sulla piazza del Campidoglio, è accolto da un’ovazione. I suoi supporter gridano: «Ignazio, Ignazio» e «Non mollare, non mollare!».
E lui è pronto a raccogliere l’invito: «Oggi questa è la ragione della mia vita: io non mollo e ci rivediamo alle elezioni del 2018. Insieme andremo avanti fino al 2023. Insieme non possiamo che vincere e cambiare Roma, ed è quello che faremo».
E l’assedio del premier Matteo Renzi? E, soprattutto, l’inchiesta Mafia Capitale?
«Il Pd – replica Marino – è il partito di cui ho preso l’unica tessera della mia vita: il Pd non sono le poche persone che in questa città ne hanno certamente rovinato il nome».
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
PISAPIA: “URLO FORTE AL PARLAMENTO”
«Siamo oltre 100 mila, in piazza un sì corale al matrimonio tra persone dello stesso sesso», esulta il coordinamento Arcobaleno, formato dalle associazioni che organizzano il Milano Pride 2015.
La parata è partita alle 16 da piazza Duca d’Aosta, con arrivo a Porta Venezia. In testa un gruppo di manifestanti con lo striscione «I diritti nutrono il pianeta».
Presenti anche il sindaco Giuliano Pisapia, il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e gli assessori Daniela Benelli, Chiara Bisconti, Pierfrancesco Majorino, Pierfrancesco Maran, Carmela Rozza e Cristina Tajani.
Testimonial l’ex calciatore Alessandro Costacurta, con un messaggio contro l’omofobia nello sport.
La sfilata del Gay Pride chiude la settimana dell’orgoglio omosessuale – patrocinata da Comune e Regione -, iniziata sabato scorso con il «Kick off party» al padiglione Usa di Expo, e proseguita con oltre 50 appuntamenti «per dire no all’omofobia e alla discriminazione».
La festa rivendica diritti di pari dignità con gli eterosessuali, in particolare sui diritti fondamentali: le unioni civili e il matrimonio gay, sul modello delle nuove leggi che sono state approvate in Irlanda e negli Stati Uniti d’America.
L’estrema destra ha organizzato, in contemporanea, un presidio inneggiante alla «famiglia tradizionale» denominato #FAMILYPRIDE, a cura di Forza Nuova, in piazza San Carlo, raccogliendo però poche persone.
«Sono convinto che il Tar della Lombardia ci darà ragione sui matrimoni gay», ha dichiarato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, a proposito del pronunciamento del prossimo 5 luglio del tribunale regionale della Lombardia sul ricorso del Comune di Milano contro il decreto prefettizio che imponeva di cancellare i matrimoni gay contratti all’estero.
«Lo dico da giurista e da uomo delle istituzioni, anche sulla base di quanto già accaduto a Roma», ha aggiunto Pisapia parlando dal palco del Gay Pride.
«Da qui arriva un urlo forte al Parlamento», ha aggiunto, spiegando che «per ora sarà un urlo di forza e comprensione ma se entro quest’anno non servirà » a colmare le lacune legislative sulle coppie gay «diventerà un urlo di ribellione e rabbia».
Ivan Scalfarotto, del Pd, in corteo, ha voluto dire che la legge sui diritti civili è «in discussione, si tratta ora di portarla a casa perchè le sfide del Paese non possono non passare dalla modernizzazione della società ».
In aperta polemica con queste parole alcune associazioni di omosessuali.
Cristina Gramolin, appartenente ad Arci Lesbica, ha replicato: «Non siamo qui per fare pubblicità agli Scalfarotto, anche perchè stanno cucinando una legge vuota. Il movimento non vuole una leggina solo per dire al mondo che l’abbiamo anche noi».«Il Paese è pronto – scrive intanto il Coordinamento Arcobaleno -, ci attendiamo risposte politiche concrete a una piazza che chiede che anche l’Italia si allinei con l’Occidente nel compimento di una democrazia matura, nella quale gay, lesbiche e trans abbiano piena cittadinanza nei diritti».
Il tema dell’accoglienza dei migranti è stato il tema dell’edizione di quest’anno del Milano Pride, dedicata in particolare ai profughi: gli organizzatori hanno infatti deciso di devolvere parte dei fondi raccolti nell’ambito delle iniziative della Pride Square e della Pride Week alle associazioni che si occupano di accoglienza
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
A PALAZZO ITALIA DEVONO INTERVENIRE I VIGILI DEL FUOCO CON L’ASCIA
Tra tutti gli intoppi possibili, è successo forse il peggiore.
Il premier italiano Matteo Renzi e il presidente della Repubblica del Kazakistan Nursultan Nazarbayev sono rimasti chiusi in ascensore, per diversi minuti, dentro Palazzo Italia.
A liberarli i vigili del fuoco, in presidio costante dentro Expo, che sono intervenuti armati di ascia per evitare che l’intoppo si trasformasse in un vero incidente diplomatico.
L’ episodio è caduto verso le 14, proprio al termine del business forum italo-kazako in cui grandi aziende dei due Paesi hanno siglato contratti commerciali per 600 milioni di dollari.
A confermare quanto accaduto, scherzandoci su, anche il commissario unico di Expo 2015 Giuseppe Sala: “Come succede nelle case di ognuno di noi, ogni tanto gli ascensori si bloccano. E noi abbiamo avuto la fortuna che si sia bloccato proprio con Renzi e Nazarbaev dentro. È il bello della diretta”.
E pure Renzi ci ha scherzato sopra: “Abbiamo stretto i rapporti con il Kazakistan…”, ha detto, un paio d’ore dopo l’episodio.
Proprio il capitolo commerciale – con la presenza tra gli altri dell’ad dell’Eni Claudio Descalzi – aveva creato una certa tensione intorno al vertice italo-kazako, più della norma degli incontri diplomatici di Expo.
Di certo l’incidente non avrà giovato.
Ma la giornata non è stata però solo dedicata agli affari e proprio Renzi ha voluto, nel suo discorso, rimarcare altre priorità : “Prima del business viene un altro motivo di unione e cooperazione. Italia e Kazakistan condividono un’idea di lotta al terrorismo, pace universale, ascolto e inclusione culturale. E in questo momento c’è bisogno che tutti i Paesi dell’area euro-asiatica cooperino per la pace contro il terrorismo e il fanatismo che in queste ore e in questi giorni ha fatto i danni che conosciamo, tra Tunisia, Francia e Kuwait”.
(da “La Stampa”)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
UN LIBRO RACCONTA LA STORIA DELLE CASSETTE ROSSE QUASI SCOMPARSE PERCHE’ NON SCRIVE PIU’ NESSUNO
Cara, vecchia, buca delle lettere. Che fine hai fatto?
Ma sì: parliamo di quelle scatole di metallo rosse, leggermente bombate, aggrappate ai muri delle nostre città , quasi soffocate dai graffiti, con la dicitura «posta» e le feritoie per imbucare la corrispondenza.
Ce ne sono sempre meno, perchè nell’epoca del web, di WhatsApp e delle e-mail, nessuno «imbuca» più nulla.
Tutti inviano, ci mancherebbe. La corrispondenza cartacea, assicurano da Poste Italiane, si è praticamente dimezzata negli ultimi 15 anni.
E così siamo passati dalle 67 mila cassette d’impostazione degli anni Novanta alle attuali 52 mila. Diminuiranno ulteriormente, c’è da giurarci.
Quelle che ancora resistono sono collocate soprattutto vicino alle stazioni e lungo le strade di maggior flusso pedonale.
Quelle dismesse, invece, non vengono affatto rottamate. Anzi. Per loro, che sono particolarmente solide – spiegano i tecnici di Poste Italiane -, è previsto un trattamento di riverniciatura e di risistematura: in questo modo sono pronte per sostituire le più compromesse, in un ciclo di ricambio continuo.
Archeologia urbana
Dunque, la cassetta rossa che un tempo custodiva le speranze, gli amori, le gioie e i dolori degli italiani (soprattutto sotto forma di cartoline, e pensate che una buca ne poteva ospitare fino a mille), oggi rischia di divenire un tenace reperto di archeologia urbana.
Eppure, anche se la storia finirà per mandarla in pensione, questa strana scatola nella quale infilavamo pensieri che poi non potevamo più riacciuffare, continua a sprigionare un certo magnetismo.
E a raccontare qualcosa del nostro Paese.
Lo sa bene Manuela Alessandra Filippi, una storica dell’arte, che nel 2004 ha curato un volume pubblicato da De Luca Editori, intitolato proprio Buca delle lettere. Storia e immagini.
«Le buche — dice Filippi — raccontano la nostra storia e, spesso, sono delle vere e proprie opere d’arte. Mi è piaciuto guardarle un po’ come se fossero dei quadri».
Il libro
Il libro, realizzato con l’Archivio storico delle Poste, è una miniera. Scopriamo, per esempio, che la prima buca italiana, compare nel 1632 all’interno del portico del palazzo priorale di Montesanto di Spoleto, nell’allora Stato Pontificio.
«La portata innovativa della buca — scrive Filippi — che in larga parte ha contribuito allo sviluppo della corrispondenza, consiste nella possibilità di depositare le lettere in partenza anche in assenza del corriere, o di un suo rappresentante, in qualsiasi momento della giornata, in un luogo sicuro e protetto».
Per tutti, non solo più per i nobili come era stato fino ad allora.
E infatti in un’antica buca a Bertinoro (Forlì) campeggia la scritta: «Al ricco e al povero deve consentirsi di viaggiare di qua e di là ».
Gli italiani sono affezionati a questi oggetti.
A Pienza (Siena), per dire, la popolazione è insorta di recente contro le Poste che volevano mettere fuori servizio una cassetta del XIX secolo, mentre a Casteldelpiano (Grosseto) se ne trova una del 1715 a tre metri dal livello stradale e guai a chi la tocca.
Se nei primi del ‘900 i berlinesi, presi dalla mania delle cartoline volevano scriverle seduti nei caffè, con un postino giunto apposta per farle imbucare in una cassetta che portava sulle spalle, anche in Italia iniziavano a funzionare le cassette mobili.
Spesso erano agganciate sulla fiancata destra dei tram il cui tragitto prevedeva una fermata alla stazione ferroviaria.
Milano ebbe anche un «ufficio ambulante su vettura elettrica».
Durante il ventennio fascista sulle cassette, accanto allo stemma sabaudo, venne imposto il fascio littorio.
Simboli che, con il passaggio alla Repubblica, vennero eliminati con lo scalpello. Nel 1927 aveva fatto la sua comparsa anche una buca bianco rosso verde: era destinata alla raccolta di giornali per il dopolavoro delle forze armate.
Ma bisogna aspettare il 1961 per vedere le classiche cassette di impostazione rosse, a due feritoie (per la città e per fuori), così come siamo (o eravamo) abituati a vedere.
È a Napoli, l’8 aprile del 1961, che nell’arco di una notte, le vecchie cassette vengono sostituite con quelle nuove.
Insomma, la cara buca delle lettere rossa e bombata ha da poco compiuto 54 anni. Invecchierà o scomparirà ?
Ai «postali» l’ardua sentenza.
Mauro Pianta
(da “La Stampa“)
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Giugno 27th, 2015 Riccardo Fucile
E’ NECESSARIA UNA SVOLTA, MA NON BASTA SOSTITUIRE IL TIMONIERE: OCCORRE UN’ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ COLLETTIVA DELLA POLITICA
Il 13 luglio saranno già passati quattro mesi dalla proclamazione del Giubileo straordinario e ne mancheranno meno di cinque all’apertura dell’evento, prevista per l’8 dicembre prossimo.
Ma niente di concreto, per quanto è dato sapere, è ancora stato messo a punto. Nessuna decisione, nessun piano, nessuna organizzazione.
Chi in questi giorni ha partecipato a qualche riunione con i tecnici comunali conferma un senso di generale disorientamento.
Forse comprensibile se si tiene conto dei problemi quotidiani e urgentissimi della città , ma anche delle docce scozzesi alle quali il sindaco Ignazio Marino viene costantemente sottoposto da mesi con le indiscrezioni circa la possibile nomina di un commissario governativo.
I giornali riferiscono di screzi continui fra il Campidoglio e Palazzo Chigi, sempre regolarmente smentiti.
Che però l’impasse sia totale è un dato di fatto facilmente ricavabile dalle dichiarazioni.
Se Ignazio Marino aveva risposto il 13 marzo scorso all’annuncio del pontefice con un rassicurante «Roma è pronta da subito», ecco che il 12 giugno lo stesso sindaco di Roma diceva: «È urgente iniziare le opere visto che mancano pochi mesi all’8 dicembre».
Quali opere? «La riparazione delle buche e la sistemazione di quei percorsi pedonali a cui tanto tiene il Papa».
Anche perchè per il Giubileo si prevede un aumento di almeno dieci milioni di turisti.
Per capirci, lo stesso numero di persone che ogni anno visita il solo museo del Louvre senza che per questo la città di Parigi vada in confusione mentale.
Nemmeno dopo che la strage di Charlie Hebdo ha imposto da gennaio misure di sicurezza eccezionali. È stato fatto un piano ed è stato rispettato, con un minimo aumento del disagio che non scoraggia milioni di turisti.
Ma lì ci sono trasporti che funzionano, un’amministrazione comunale che funziona, uno Stato che funziona.
A Roma, purtroppo, no. E la cosa preoccupante è che nessuno se ne preoccupa.
Ulteriore dimostrazione della sconcertante inconsapevolezza che aleggia sulla capitale la troviamo all’aeroporto intercontinentale di Fiumicino, dove arrivano i turisti di tutto il mondo.
A un mese e mezzo dall’incendio divampato (con modalità che ancora non abbiamo ben capito) nel Terminal numero tre, i disagi per i viaggiatori non sono finiti.
Riaperto qualche giorno dopo il disastro, quello scalo è stato sequestrato e poi dissequestrato: ma il calvario non è finito.
Ora, denuncia il deputato democratico Michele Anzaldi, si è deciso di procedere a ulteriori accertamenti sanitari a cura dell’Asl nell’area dei negozi (ancora chiusa) che richiederanno almeno venti giorni.
Dal che è facile dedurre che l’aeroporto non tornerà alla normalità prima della metà di luglio. Anche in questo caso il fatto di essere in piena stagione turistica non preoccupa nessuno. Ma a chi toccherebbe?
Ovviamente alla politica, nella fattispecie quella che ha le responsabilità del governo nazionale, regionale e locale: tutte coincidenti nello stesso schieramento.
Se però ogni energia più che essere concentrata sulla soluzione rapida dei problemi non fosse assorbita da una insensata guerra fratricida interna al Partito democratico. Da una parte i renziani che considerano Marino inadatto a guidare Roma e manovrano neppure troppo nell’ombra per metterlo sempre più in difficoltà , sperando che si decida prima o poi a fare le valigie.
Dall’altra il sindaco che gioca perennemente in difesa.
Il risultato è che la svolta di cui la capitale d’Italia avrebbe un disperato bisogno non si vede.
A Marino questo giornale non ha mai risparmiato le critiche.
Il problema principale sta nella mancanza di autorevolezza e questa carenza si riflette in modo palpabile sul governo di una città che sembra non governata affatto.
Ma chi invoca da sinistra le sue dimissioni dovrebbe ripensare a come si è arrivati a questa scelta degli elettori e agli errori gravissimi di cui si è reso responsabile il gruppo dirigente del Pd.
Chi le pretende da destra, invece, farebbe meglio ad arrossire per le rovine materiali e le devastazioni morali di cui in cinque anni ha disseminato Roma: non bisogna aggiungere altro.
È fuori di dubbio che sia necessario un cambio radicale di passo nella gestione di una città che versa in condizioni inaccettabili per una capitale.
Per raggiungere questo obiettivo, tuttavia, non è sufficiente sostituire il timoniere. Servirebbe un’assunzione di responsabilità collettiva della politica nei confronti dei cittadini.
Che però è impossibile senza una rigenerazione dei partiti, negli ultimi anni sempre più somiglianti a comitati d’affari ripiegati su bassi interessi personali e di bottega. La destra è in macerie.
Mentre il gruppo dirigente del Pd romano è in rotta: il compito di dipanare le nebbie che per troppo tempo l’hanno avvolto, affidato al commissario Matteo Orfini, è da far tremare le vene ai polsi. A lui i migliori auguri di successo.
Diversamente, il dibattito su Marino rischia di essere soltanto l’ennesimo falso problema.
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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