Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
LA UE SCENDE IN POLITICA: DISMETTE I PANNI DEL GOVERNO TECNICO E CHIEDE DI SFIDUCIARE IL PREMIER ELLENICO
Bruxelles e i Paesi europei hanno scelto: non si tratta più.
L’unica via che il popolo greco ha per restare nell’euro è votare sì al referendum di domenica.
È una discesa in campo senza precedenti nella storia dell’integrazione europea quella messa in atto oggi dalla Commissione, seguita a ruota dal Parlamento, allineati a loro volta con le indicazioni arrivate poco dopo dai leader europei, Merkel in testa.
Il messaggio è chiaro: solo con un sì rimane aperto il canale del negoziato e il Paese può restare nella moneta unica.
Una metamorfosi dell’Europa tecnica che per prendere in contropiede lo strappo di Alexis Tsipras ha deciso di giocare direttamente sul terreno della politica.
Chi si aspettava un ultimo tentativo di mediazione da parte dell’esecutivo Ue, dopo che il presidente Jean Claude Juncker ha invitato pubblicamente i greci a votare a favore è rimasto deluso.
L’Europa non parla più con Tsipras, ma si rivolge direttamente al popolo ellenico. Quasi un ingresso diretto nella campagna referendaria che ha l’effetto di chiedere di fatto ai cittadini di sfiduciare il proprio premier in carica.
Un’iniziativa storica, che indipendentemente dall’esito dalla consultazione crea un precedente per il futuro dell’Unione.
Quello che, senza ormai nemmeno troppi misteri, era stato realizzato sottotraccia nel 2011, con le manovre per costringere alle dimissioni Silvio Berlusconi durante la crisi dello spread, ora si replica in modo più scoperto con il premier greco Alexis Tsipras. Le istituzioni vogliono la sua testa per tornare a negoziare con un nuovo governo. Quasi inevitabile, in caso di un successo dei sì che sconfesserebbe la politica del premier greco costringendolo alle dimissioni.
E quasi poco importa se a parole la cancelliera tedesca dica che “nessuno vuole influire sulle decisioni” del referendum del popolo greco.
Perchè spiegando poi che “se il governo greco dopo il referendum volesse negoziare ancora, noi non chiuderemmo la porta” fa arrivare un messaggio esattamente opposto. Cioè il canale delle trattative che può tenere agganciata Atene all’Eurozona passa solo e soltanto da un sì alla consultazione.
Parole ancora più chiare, forse troppo, quelle utilizzate dal presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi, che in un Tweet in inglese: “Il referendum greco non sarà un derby tra la Commissione Ue e Tsipras ma euro contro dracma. Questa è la scelta”.
Se da un lato il primo ministro ha optato per un profilo basso scegliendo di non esprimersi sulla questione, e quindi di non iscriversi pubblicamente nel fronte del sì, dall’altro il messaggio affidato a Twitter lascia intendere abbastanza chiaramente per quale scenario faccia il tifo il presidente del Consiglio.
Nessuno, fino ad ora, pur lasciandolo intendere, ha mai evocato in queste settimane il ritorno della dracma e l’automatismo dell’uscita dall’euro in caso di default.
Lo stesso Juncker, che nel suo discorso ha usato parole insolitamente nette nei confronti di Atene, si è spinto solo ad affermare che un no dei greci al referendum “Vorrebbe dire che la Grecia dice no all’Europa”.
Nessun riferimento diretto all’uscita dalla moneta unica al ritorno alla dracma.
Il tutto mentre le diplomazie di tutto il mondo si muovono per cercare di ricucire le distanze.
In una conversazione telefonica il presidente Usa Barack Obama e il presidente francese Franà§ois Hollande “si sono trovati d’accordo a unire i loro sforzi per favorire una ripresa dei negoziati, per permettere il più rapidamente possibile una risoluzione della crisi e garantire la stabilità finanziaria della Grecia”, hanno spiegato dall’entourage francese, mentre persino la Cina è arrivata ad auspicare una ripresa immediata dei negoziati. “Vogliamo che la Grecia rimanga nell’Euro e chiediamo ai creditori e agli attori istituzionali coinvolti nelle trattative di non esaurire il dialogo e il negoziato”, ha spiegato il premier cinese premier cinese Li Keqiang.
“La Cina è un amico dell’Ue ma siamo pero’ determinati a dare una mano e assistenza alla Grecia. Le ricadute sulla stabilita’ economica globale della crisi greca sono reali”.
Sullo sfondo si è registrato l’ultimo tentativo in extremis di ricucire due parti che, se prima erano distanti, ora sembrano aver deciso di non parlare nemmeno più.
La regia è quella del presidente dei Socialisti e Democratici Gianni Pittella che ha provato a chiedere la convocazione di un nuovo Eurosummit per discutere di un’eventuale proroga almeno fino a domenica delle trattative.
“È vero che la posizione di Juncker sembra di chiusura, ma serve anche a rispondere ai toni duri usati da Tsipras. Il presidente della Commissione ha anche detto che ‘tutte le porte restano aperte’”, spiega una fonte dell’Europarlamento.
L’iniziativa dei socialisti per ora si è scontrata però con il secco no della cancelliera Angela Merkel.
“Al momento non vedo nessun motivo vincolante per un vertice straordinario Ue” e “non prevedo di andare ad Atene”.
Gli occhi insomma sono puntati ormai solo su domenica, quasi dimenticandosi ormai di quella che fino a qualche giorno fa era la più importante delle scadenze, il 30 giugno, con la conclusione del piano di salvataggio e la rata da 1,6 miliardi da rimborsare al Fondo monetario internazionale.
È ormai scontato che domani la Grecia non pagherà , facendo scattare la procedura con cui il Paese sarà dichiarato in default con il Fmi.
Non più tardi di qualche giorno fa, il peggiore degli scenari possibili.
Ora, un problema quasi minore, in vista di quello che da consultazione sulle proposte dei creditori è diventato quasi ufficialmente il primo, in molti sperano unico, referendum sulla permanenza di un Paese nell’Eurozona.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
COSA SI VOTA, IL RUOLO DELLA BCE E GLI SCENARI PER LA VITTORIA DEL “SI” E DEL “NO”
1 – Referendum: cosa si vota?
Il primo problema del referendum greco è: cosa si vota? Ufficialmente, la proposta dei creditori. “Sì”, se si accetta, “no”, se si rifiuta.
E il quorum per considerarlo valido è il 40%.
Ma ieri il presidente della Commissione europea Juncker ha diffuso una nuova versione del documento che Bce, Ue e Fmi stavano discutendo con il governo greco, prima dell’interruzione delle trattative, venerdì scorso.
Ci sono delle piccole concessioni su nodi cruciali, ad esempio l’Iva sugli alberghi non sarà aumentata al 23%, come proposto in un primo momento, resterà al 13%.
O la spesa militare non sarà tagliata a 200 milioni, ma resta a 400 milioni.
Il problema, probabilmente, è che Alexis Tsipras rischiava già di non avere la maggioranza in Parlamento per un accordo che impone comunque nuovi sacrifici.
E secondo Yanis Varoufakis i 15,5 miliardi proposti da qui a novembre sarebbero comunque stati insufficienti per la Grecia, ormai al collasso. E’ questo che ha fatto decidere Tsipras di rovesciare il tavolo e indire un referendum.
2 – Come sopravvivere fino al voto
Le incognite sono molte, da qui a domenica. Sia da parte greca, sia europea.
La più importante, per la sopravvivenza di Atene, è cosa farà la Bce.
Ieri ha mantenuto il livello di liquidità d’emergenza che può essere concessa alle banche al livello di venerdì scorso, 89 miliardi, e ha costretto il governo a chiudere le banche e la Borsa e a introdurre un controllo dei capitali. Draghi ha detto che rimarrà «vigile», dunque pronto a intervenire per non provocare il collasso del sistema bancario.
Ma la Bce non vuole rimanere col cerino in mano, non vuole passare alla storia come la «colpevole» del default ellenico.
E’ improbabile che chiuderà i rubinetti, come chiedono da tempo alcuni banchieri centrali, tedeschi in testa. Draghi preferisce garantire la sopravvivenza di Atene finchè non saranno i greci a decidere del proprio destino. E la Grecia?
3 – L’incognita del presidente della Repubblica
Mentre da Bruxelles arrivano voci su un possibile vertice straordinario il 1 luglio, ad Atene alcuni guardano con attenzione al presidente della Repubblica, il conservatore Prokopis Pavlopoulos.
Il suo portavoce ha smentito domenica voci su possibili dimissioni.
Ma Pavlopoulos ha anche detto che non resterà presidente, se la Grecia uscirà dall’euro. Le sue dimissioni costringerebbero Tsipras quasi sicuramente alle elezioni anticipate, non avendo l’attuale maggioranza di governo (Syriza e Anel) la maggioranza di due terzi per eleggere un nuovo presidente.
4 – Cosa succede se vince il “sì”
Tsipras e Kammenos, i due leader della maggioranza di governo (la Grecia è guidata da un esecutivo rosso-nero, costituito dall’estrema sinistra di Syriza e la destra nazionalista di Anel) faranno campagna per il no.
Dunque, nel caso di vittoria dei sì, alcuni ministri hanno già detto che il governo si dimetterà , com’è logico che sia.
A quel punto gli scenari sono due: elezioni anticipate o, vista la drammaticità della situazione, un governo di unità nazionale o addirittura tecnocratico.
Il presidente Pavlopoulos tenterà di convincere i partiti dell’opposizione Nea Dimokratia, Pasok e To Potami e una fetta più moderata di Syriza a votare un esecutivo di unità nazionale per firmare l’accordo con i creditori ed evitare il default.
Le prossime scadenze della Grecia sono immediatamente successive alla data del referendum: il 10 e il 17 luglio sono previsti rimborsi di bond per 3 miliardi, il 13 una rata del Fmi da 450 milioni (che si aggiunge ai mancati pagamenti di giugno da 1,6 miliardi) e il 20 luglio vanno restituiti alla Bce ben 3,5 miliardi.
Al momento, nei sondaggi, i “sì” sono avanti, forse la chiusura delle banche alimenterà la paura e la propensione dei greci a voler chiudere l’intesa con la vecchia Troika.
Ma non è detto: potrebbe anche alimentare la rabbia contro i creditori “strozzini” e rovesciare il clima.
5 – Cosa succede se vince il “no”
Sarebbe la vittoria del governo greco, ma è improbabile che i creditori possano tenerne conto e riaprire un negoziato con Atene, dopo i disastrosi mesi di impasse negoziale da fine gennaio al tragico vertice dello scorso fine settimana.
Ci si avventurerebbe nelle “acque inesplorate” da cui i leader europei, incapaci di trovare un accordo con la Grecia, hanno spesso messo in guardia. Incapace di far fronte ai suoi debiti, Atene fallirebbe e sarebbe costretta, molto probabilmente, a uscire dall’euro.
Tonia Mastrobuoni
(da “La Stampa”)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
LAPIDAZIONE PER GLI ADULTERI, “COSTI STANDARD” PER LE PRESTAZIONI MEDICHE FINO ALLE NORME SULLA PESCA E IL LAVORO
Cavi elettrici riparati, affitti calmierati, marciapiedi verniciati, norme per proteggere la pesca, partorire negli ospedali ma anche sul bando di prodotti Apple, le punizioni feroci, la vendita di protesi, e il diktat ai cristiani: ad un anno dalla proclamazione il Califfato si distingue non solo per l’efferato terrore imposto ai circa 12 milioni di sudditi ma anche per l’impegno logistico ed amministrativo teso a migliorare le strutture pubbliche, cercando di cementare il consenso per il potere assoluto.
Regolando in maniera capillare ogni aspetto della vita quotidiana.
Ecco alcuni esempi, frutto di testimonianze e documenti raccolti dal ricercatore britannico Aymenn Jawad Al-Tamimi, che descrivono come il Califfo gestisce il proprio territorio.
Il costo per partorire negli ospedali
L’amministrazione medica del Wilayat (Provincia) al-Kheir, l’ex siriana Deir az-Zor, ha stabilito i costi da sostenere per far nascere i bambini in ospedale: 80 dollari per il parto cesareo e 55 per quello naturale con la possibilità di tenere, in entrambi i casi, i bebè ricoverati nelle 12 ore seguenti alla nascita.
Pesca senza fare uso di esplosivi
L’intento nel Wilayat dell’Eufrate è «garantire l’abbondanza di pesci» e dunque vengono vietati lungo i fiumi «l’uso della corrente elettrica, di materiali esplosivi e di tossine chimiche» perchè «uccidono troppi pesci e rischiano di avvelenare ciò che altri mangeranno». È inoltre vietato «pescare durante la riproduzione dei pesci» perchè «distruggere le uova significa nuocere alla futura abbondanza di pesce».
Marciapiedi verniciati e fognature
Nel Nord della Siria il Califfato assicura ai residenti del Wilayat di Raqqa il ripristino dell’elettricità , la realizzazione di impianti fognari «nel sottosuolo» e la verniciatura dei marciapiedi «per migliorare la vita dei residenti».
Limiti ai profitti dei farmacisti
Tutte le farmacie del Califfato devono far avere alle amministrazioni locali i titoli di studio dei farmacisti e non possono imporre alla clientela «aumenti di prezzo superiori al 20 per cento dell’etichetta».
Le scuole dell’obbligo a Raqqa
Nella maggiore città del Califfato in Siria le scuole dell’obbligo durano 9 anni, divise in 5 di elementari e 4 di superiori.
Dopo avviene la «selezione per college e atenei». Gli insegnanti devono aver seguito «un corso preparatorio di 10 mesi» che include «60 giorni di lezioni sulla Sharia» e la firma di un documento finale di «pentimento» per quanto fatto in passato contravvenendo alle norme dell’Islam.
Memorizzazione del Corano
Il comitato per l’«Insegnamento del Nobile Corano» prevede che ogni insegnante frequenti un corso a due livelli, memorizzando prima «5 parti» e poi «3 parti» dimostrando una «corretta recitazione del testo».
Per frequentare bisogna avere fra 18 e 40 anni, senza assentarsi «se non quando la Sharia prevede».
Offerte di lavoro «qualificato»
Nella provincia di Raqqa gli uffici di collocamento offrono lavoro a chi è «qualificato» in «Scienze della Sharia», contabilità , computer, amministrazione d’affari, educazione scientifica ed umanistica, preparazione di insegnanti.
Inoltre, il «Centro Hisbah» della polizia islamica cerca veterinari, guardie, ispettori sanitari, macellai, boia «per tagliare le gole» e «addetti alle pulizie».
Limiti al movimento delle donne
Le donne sotto i 50 anni non possono uscire dai confini di Raqqa senza permessi e documenti di transito emessi dalla polizia islamica, gli è «proibito» recarsi «nelle terre degli infedeli eccetto assolute urgenze mediche».
Le donne anziane non sono obbligate ad indossare l’hijab. Le donne possono salire e scendere dagli autobus solo nei garage delle apposite fermate.
Le donne mostrino solo un occhio
La fatwa numero 40 del Califfato prevede che «mogli, figlie e donne dei credenti devono indossare all’esterno abiti che non le facciano riconoscere o violentare». Per questo «le donne devono coprire i loro volti sin da sopra la testa, mostrando solo l’occhio sinistro».
I reclami dei cittadini per i risarcimenti
Il Wilayat della provincia di Aleppo prevede che «chi ha subito torti e danni, personali o nelle proprietà , da soldati o dirigenti dello Stato Islamico» può sottomettere dei «reclami» per ottenere «risarcimenti».
Di conseguenza a «soldati e dirigenti» viene chiesto di «fare attenzione ad evitare oppressione e aggressione nei confronti dei cittadini» perchè «vi saranno conseguenze anche nella vita futura».
L’ultimatum ai cristiani di Mosul
Emesso a Mosul dal Wilayat di Ninawa, offre ai «fedeli del Nazareno» tre scelte: «Convertirsi all’Islam, accettare il patto di sottomissione pagando la tassa annuale “jizya” o “se rifiutano andranno incontro alla spada».
Il divieto ai prodotti Apple
Si tratta di una disposizione del Califfo «a tutte le province, le sotto province ed i comitati locali» perchè «nell’interesse pubblico di proteggere le anime dei credenti» e «combattere i crociati» viene decretato il «bando di ogni dispositivo elettronico con il gps» a cominciare da «telefoni, tablet e computer di Apple» capaci di «creare gravi rischi a tutti».
A morte gli omosessuali
Per chi viola le norme della Shiaria le punizioni sono le più feroci.
La blasfemia è punita con la morte e se l’insulto è nei confronti del Profeta «neanche il pentimento può salvare».
L’adulterio è punito con la lapidazione, l’omosessualità con la morte «sia dell’attivo sia del passivo», il furto con l’amputazione della mano, bere il vino con 80 frustate, uccidere e rubare con la morte per crocifissione e «diffondere paura» con l’«espulsione dal territorio».
Niente autostop sui camion
Nella provincia di Ninawa, in Iraq, camion e furgoncini hanno il divieto di dare passaggi a soldati o esponenti del Califfato. È una misura tesa ad evitare che diventino obiettivi dei droni.
Affitti calmierati
Nel Wilayat dell’Anbar in Iraq, il Califfato stabilisce un tetto massimo di 84 dollari al mese per gli affitti di case, circa un terzo del valore precedente perchè «tocca ad Allah occuparsi delle cose materiali» mentre i mujaheddin devono combattere.
Marchi contraffatti
Vendere prodotti con etichette falsificate è «proibito dal legislatore Maometto» perchè si tratta di «un inganno»: «chi vende deve spiegare con cura di dettagli produzione e provenienza».
Maurizio Molinari
(da “La Stampa”)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
“NON BARATTO LA LEGALITA’ PER UNA POLTRONA”… IL SEGRETARIO RENZIANO SOTTO ACCUSA
Non si farà rosolare a fuoco lento, non rimarrà incollato alla poltrona.
Come sta facendo Ignazio Marino, sussurra qualche maligno.
Ma soprattutto come ha fatto Roberto Cota, rimasto appeso per quattro anni alla sentenza definitiva sulle firme false che alla fine decretò l’annullamento delle elezioni. Sergio Chiamparino non ci sta.
Non vuole che ci sia nemmeno un’ombra che macchi una carriera specchiata.
Per cui, se il 9 luglio il Tar si pronuncerà a favore del ricorso presentato dalla Lega, trarrà le sue conclusioni e si dimetterà .
Sono ore drammatiche per il partito in Piemonte. “Quando entri nella sede del partito c’è un clima terribile, tutti che strisciano lungo i muri, che si guardano di sottecchi”, racconta con la voce grave un parlamentare sabaudo.
Perchè è la filiera Democratica regionale che viene pesantemente messa sotto accusa dal presidente. Un modo di dire “io non c’entro nulla con voi, non pago con la mia reputazione vostri errori”.
I sostenitori del “Chiampa”, come viene affettuosamente chiamato dai suoi attaccano a testa bassa: “Se devi raccogliere le firme devi farlo bene, non puoi farlo in maniera approssimativa”.
E ancora: “Si deve ribadire la differenza e l’estraneità di Sergio da un sistema politico che dimostra una così incredibile superficialità “.
A Torino e dintorni è iniziata da settimane quella che viene definita “Rimbalzopoli”. Viene messa sotto accusa la segreteria regionale, che scarica il barile su quella provinciale, che mette sotto accusa i certificatori, che attaccano i responsabili della raccolta firme.
Una girandola di veleni e maldicenze che è arrivata a colpire perfino i semplici dipendenti del partito.
Tecnicamente la faccenda è complicata. Ma è riassumibile così: chi doveva autenticare le firme delle liste non era presente al momento di farlo.
Tanto che alcuni sottoscrittori hanno detto di non riconoscere i pubblici ufficiali che dovevano essere presenti al momento dell’autografo, e alcuni dei pubblici ufficiali stessi hanno spiegato candidamente che le firme apposte sotto alcuni moduli non erano le loro.
Il Tar può seguire quattro strade: respingere il ricorso; rinviare tutto all’autunno per ulteriori approfondimenti; accogliere le osservazioni ma attendere l’evolversi del procedimento penale prima di esprimersi; accogliere il ricorso.
In questi ultimi due casi Chiamparino ha annunciato con chiarezza che mollerà . Nonostante il pressing che arriva da Roma.
Il vicesegretario Lorenzo Guerini da giorni ripete che tutto il partito è con lui e che sulla faccenda delle dimissioni deve ripensarci.
E, dietro di lui, anche Matteo Renzi è in costante pressing.
Spiega un deputato a lui vicino: “Piuttosto che perdere il Piemonte, fossi in lui, mi taglierei una mano. Se rivinci hai fatto il tuo, se perdi, o se vinci con meno dell’ultima volta con percentuali superiori al 60%, ti si apre un problema enorme”.
Eppure da quell’orecchio l’ex sindaco di Torino non ci sente.
L’ultima risposta “all’amico Guerini” è arrivata oggi. Ed è perentoria: “Non credo che i nostri elettori, e nemmeno in generale tutti i piemontesi, siano d’accordo nel vedermi ripetere quanto ha fatto Roberto Cota, che ha anteposto l’attaccamento alla poltrona alla legalità e alla certezza dell’azione di governo”.
Il partito è sotto shock, “dominato dalle correnti e dai capibastone”.
Due anni fa sarebbe bastato che il gruppo consiliare uscente certificasse le liste, e il pasticcio si sarebbe evitato.
Ma, spiegano, il timore era quello che, essendo stato il Consiglio di Cota annullato, si potesse prestare il fianco a ricorsi.
E quando si paventò l’ipotesi di far certificare il faldone ai gruppi nazionali, subentrò l’orgoglio del campanile.
Un orgoglio che oggi rischia di costare carissimo. Da Torino spiegano che il pressing di Renzi è forte anche in considerazione che il vertice apicale del partito, il segretario regionale Davide Gariglio, è un renziano di ferro della prima ora, considerato vicino al potente senatore Stefano Lepri.
E quell’accusa di “superficialità ” che arriva direttamente dalle stanze della presidenza rischia di terremotare uno dei pochi sistemi regionali che si avviavano a marcare la discontinuità nei confronti della Ditta di bersaniana memoria.
Ma il segretario è finito nell’occhio del ciclone. I suoi detrattori lo accusano di essere stato indirettamente la causa del pasticcio, avendo fatto pressioni per infilare nel listino del presidente un suo uomo, il tesoriere regionale Domenico Mangone, nonostante le contrarietà dell’allora candidato Chiamparino, e convincendosi solo all’ultimo di virare su una donna, Valentina Caputo.
Portando avanti il tira e molla fino a tre giorni prima della presentazione delle liste, provocando così quella corsa forsennata le cui conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Il segretario provinciale Fabrizio Morri ha candidamente spiegato che i tempi così esigui furono dovuti a “un problema politico, non roganizzativo”
Lo stesso Mangone è stato uno dei quattro membri di una commissione interna al partito, incaricata di fare luce su quel che era successo.
Una relazione, spiega uno degli interessati, che conteneva “la consapevolezza che quella documentazione era raffazzonata, e che lo era per una precisa responsabilità politica”.
Così, mentre Renzi lavora per scongiurare un’altro patatrac dopo l’imbarazzante vicenda di Vincenzo De Luca e il clima da fine impero che si respira a Roma, e i renziani tentano in tutti i modi di arginare una slavina che li travolgerebbe, sono i Giovani Turchi a schierarsi compattamente attorno al presidente, difendendo quella che ritengono “una scelta di grande integrità morale e politica”.
“La penso come Chiamparino”, ha fatto sapere il senatore Stefano Esposito.
Chi, fino a un mese fa, giurava che il rischio elezioni era un’ipotesi irreale, oggi si è spostato su una posizione di 50 e 50. Non subito, però.
Perchè, dal momento dell’addio, la legge prescrive che la Regione debba tornare al voto entro tre mesi.
Uno scenario troppo esasperato anche per i difensori di Chiamparino.
Così la strategia dovrebbe essere quella, in caso di cattive notizie dal Tar, di annunciare le dimissioni per il prossimo gennaio-febbraio, in modo da consentire un’unica tornata amministrativa insieme al capoluogo.
Anche perchè un abbandono immediato pregiudicherebbe lo sblocco della prima trance dei fondi europei, il cui piano regionale è in drittura d’arrivo.
Che significherebbe il blocco, tra le altre cose, della formazione professionale e il rinvio sine die di una lunga serie di incentivi alle imprese.
I piani del presidente sembrano comunque chiari: ricandidarsi, chiedendo di fatto di svolgere, anche se informalmente, il ruolo di commissario del partito.
Il che equivale a niente condizionamenti su candidature, listino e giunta, niente influenza dei capibastone e, ovviamente, niente pasticci sulla compilazione delle liste. Una piattaforma che, unita alla messa in sicurezza dei conti della Regione e all’avvio della razionalizzazione del piano sanitario, gli consentirebbero di ripresentarsi ai piemontesi con un accresciuto patrimonio di credibilità personale e ottime chance di vincere di nuovo.
Il contrario di quel che pensano i renziani: “Se lo fa, e rimane a bagnomaria fin dopo Natale, la sua amministrazione è delegittimata, e lui è politicamente finito, e dovrà assumersene le sue responsabilità “.
“Rimbalzopoli” e il “clima terribile” continuano a imperversare.
E lo faranno per lo meno fino al 9 luglio.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
ALTRA GRANA PER LA MAGGIORANZA: L’ACCUSA E’ CORRUZIONE ELETTORALE
Tre anni di reclusione. Questa la richiesta di condanna in abbreviato che il sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Elio Romano ha formulato nei confronti del senatore Pietro Aiello, accusato di corruzione elettorale.
Lo stesso pm ha poi chiesto il rinvio a giudizio per Giovanni Scaramuzzino, avvocato di Lamezia Terme accusato anch’egli di corruzione elettorale, ma con l’aggravante del metodo mafioso.
L’episodio contestato ai due imputati nasce nell’ambito dell’indagine “Perseo” dalle testimonianze dei collaboratori di giustizia Giuseppe Giampà , reggente dell’omonima cosca, e Saverio Cappello.
Il senatore, con l’aiuto del legale, avrebbe chiesto appoggio elettorale per le regionali del 2010, inquinando così il voto, in cui ottenne 10mila preferenze.
In cambio del sostegno elettorale dei Giampà l’ex consigliere regionale si sarebbe dovuto mettere “a disposizione” della cosca favorendola nell’affidamento degli appalti e la fornitura di materiale.
La decisione del gup è prevista per il 26 ottobre.
Si tratta di una nuova grana per la maggioranza che proviene da Ncd, dopo le note vicende dei senatori Azzollini, Bilardi e Castiglione.
Se Giuseppe Castiglione, sottosegretario all’Agricoltura coinvolto nell’inchiesta di Mafia capitale – e in particolare nelle indagini sul Centro di accoglienza siciliano di Mineo – è stato salvato dal voto del Senato, che ha respinto la mozione di sfiducia presentata da M5S, è ancora in discussione in Giunta per le immunità la posizione di Antonio Azzollini, che rischia l’arresto per il crac della clinica Divina Provvidenza.
Su Luigi Bilardi pende una richiesta d’arresto, invece, per una vicenda di rimborsi elettorali e presunte spese pazze.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
E’ STATO IL PRIMO A INTERVENIRE, MA E’ STATO TRASCINATO VIA DALLA CORRENTE…ERA UN GIOVANE OPERAIO DI 31 ANNI
È morto nella notte all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo l’immigrato cingalese, operaio di 31 anni, che domenica pomeriggio ha salvato una ragazza che annaspava nell’Adda, dopo un tuffo.
Le condizioni dell’operaio erano subito sembrate gravi: dopo essere stato recuperato dai vigili del fuoco e dai sommozzatori della zona, non reagiva più ad alcuno stimolo, privo di conoscenza.
Intubato, era stato trasportato in elicottero, d’urgenza, all’ospedale di Bergamo: ma per i medici non c’è stato nulla da fare, il cingalese è morto nella notte.
L’operaio, originario dello Sri Lanka, era originario di Liscate, nel Milanese.
Sembra che l’operaio conoscesse la ragazza che si trovava in acqua, in difficoltà . Sarebbe stato lui, tra i bagnanti che stavano prendendo il sole, a organizzare per primo la catena umana che ha permesso di recuperare la donna e di riportarla a riva.
Ma a causa della forte corrente l’uomo è scivolato, finendo poi sott’acqua.
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
UN CAMPANO A NEW YORK CHE DIVENNE UN MITO DEL RISCATTO DEL NOSTRO PAESE
Prima di Rudy Giuliani, prima ancora di Frank Serpico, c’era Joseph Petrosino, il mitico poliziotto anti mafia che cambiò l’immagine degli italo-americani a New York. Ora un nuovo libro, scritto da Paul Moses e intitolato «An Unlikely Union», celebra la sua figura come la più influente per ricostruire il rapporto fra irlandesi e italiani all’inizio del secolo
Un campano a New York
Petrosino era nato in Campania, era emigrato a New York, e lavorava come scaricatore di porto.
Facendo l’informatore contro il racket della «Black Hand», era riuscito a guadagnarsi un posto da agente.
All’epoca la polizia di New York era dominata dagli irlandesi, che consideravano i colleghi italiani «inutili», come titolò il giornale «Brooklyn Eagle», perchè automaticamente venduti alla mafia.
Joseph però si rimboccò le maniche, fu promosso detective, e nel primo anno di servizio in questa posizione fece 98 arresti, diventando un mito.
Nel 1904 il dipartimento di Polizia decise di creare una speciale unità anti mafia, ma su 8.151 agenti solo 17 erano italiani, e quindi pochissimi parlavano la lingua necessaria ad infiltrare Cosa Nostra.
L’unità speciale
Petrosino ottenne il comando dell’unità , e per non farsi scoprire la insediò in un appartamento anonimo di Waverly Place, fingendo che fosse una impresa di costruzioni.
Il trucco funzionò così bene, che i vicini chiamarono la polizia per avvertirla dell’attività condotta nel loro edificio da muratori italiani sospettati di appartenere alla mafia, e un gruppo di agenti che non sapeva della missione segreta affidata a Petrosino fece un raid nel suo ufficio, che non finì a pistolettate solo perchè Joe tirò fuori in tempo il suo distintivo di detective.
Era diventato così bravo che nel 1909 il capo della polizia lo mandò in Italia per una operazione segreta: doveva scoprire le radici criminali di alcuni boss emigrati negli Usa, per poi cacciarli.
Il capo della polizia però non resistette alla tentazione di rivelare la missione di Petrosino, la mafia lo seppe, e lo ammazzò a Palermo.
Ora viene da chiedersi se fu solo un errore o un tradimento.
Paolo Mastrolilli
(da “La Stampa“)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
“NON POSSO BIASIMARLO PER AVER RIMESSO LA QUESTIONE NELLE MANI DEGLI ELETTORI”
Un attacco ai governi Ue e l’appoggio ad Alexis Tsipras.
È un’analisi filo ellenica quella tracciata dall’economista Paul Krugman sulle pagine del New York Times, pubblicata in Italia da Repubblica.
Krugman condivide la scelta del leader di Syriza di lanciare un referendum popolare sulle proposte dei creditori.
“La sua scelta — spiega l’economista — produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità , ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi. Per cominciare una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo)”.
“In secondo luogo — continua Krugman — Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, e lo è a maggior ragione. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità , e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo”.
Non manca un esplicito attacco ai governi europei: “Ritengo — scrive Krugman — che a spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti di credito, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anzichè voltar loro le spalle”.
“Ho l’impressione — sottolinea poi l’economista statunitense — che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 29th, 2015 Riccardo Fucile
NON E’ TUTTO ORO QUELLO CHE VIENE FATTO LUCCICARE
Recentemente, in Grecia si è venuto a creare un clima favorevole al ritorno alla vecchia moneta, la dracma.
Questa eventualità è caldeggiata da diversi gruppi. A fare pressione sull’opinione pubblica, sono soprattutto gruppi formati principalmente da uomini d’affari, che giocano sul risentimento dei cittadini (dopo sei anni di recessione) e sulla mancanza di un piano chiaro per uscire dalla crisi.
Il dibattito è alimentato anche dal fatto che una parte significativa dei dirigenti dei due partiti della coalizione sostiene apertamente il ritorno alla dracma, respingendo qualsiasi altro tipo di riforma si opponga a questa scelta.
Anche se la maggior parte delle persone esprime un’opinione positiva sull’orientamento europeo del paese e vorrebbe mantenere l’euro, è aumentato il numero dei cittadini che si dichiarano “indifferenti” di fronte ad un’eventuale ritorno alla dracma e credono che il cambio di moneta non modificherebbe il loro tenore di vita.
Ma dopo un’attenta analisi dei dati economici, gli effetti di un simile cambiamento si prospettano disastrosi.
Le conseguenze di un ritorno alla dracma sarebbero:
1. Una rapida svalutazione della dracma rispetto alle altre valute. Ogni tentativo di agganciare la dracma all’euro e di bloccare il tasso di conversione sarebbe inutile (come nel caso dell’Argentina), a causa degli enormi deflussi di capitali e della diminuzione delle riserve valutarie.
2. La svalutazione porterebbe ad un aumento dell’inflazione, ad un livello superiore o pari al 40%, provocando una diminuzione del potere d’acquisto della popolazione greca.
3. La fuga di capitali e l’impennata dei subprime rappresenterebbero un colpo di grazia per l’intero sistema finanziario greco, già indebolito, che potrebbe crollare e prosciugare le risorse economiche.
4. In una situazione simile, sarebbe inevitabile il congelamento dei salari e delle pensioni per un certo periodo di tempo, almeno fino al recupero parziale delle liquidità . Le conseguenze dei disordini sociali che potrebbero seguire sono imprevedibili.
5. Il PIL dovrebbe “contrarsi” fino ai 2/3 dell’attività attuale.
6. Il debito pubblico della Grecia, attualmente a 322 miliardi di euro, aumenterebbe a causa della svalutazione della dracma, moltiplicando l’importo dei nostri prestiti.
7. Anche se, dopo la bancarotta, venisse sanata una parte del debito, l’operazione non sarebbe indolore. Sarebbero necessari un nuovo piano di salvataggio (dettato unicamente dal FMI) e l’adozione di misure molto rigide per il risanamento fiscale.
8. Anche il debito privato aumenterebbe a causa dell’esplosione dei tassi attivi e passivi. L’aumento dei tassi d’interesse rappresenterebbe un ostacolo anche per le imprese, impedendo loro di raccogliere capitali.
9. L’indebolimento del mercato, la svalutazione della dracma e la mancanza di finanziamenti causerebbero anche l’asfissia delle importazioni.
10. Il crollo delle importazioni comporterebbe, a sua volta, una carenza dei beni essenziali sul mercato poichè, come sappiamo, la Grecia non è autosufficiente per quanto riguarda l’approvvigionamento di materie prime ed è costretta a ricorrere alle importazioni da altri paesi.
11. C’è il rischio di un’ invasione aggressiva da parte degli investitori stranieri, che rileverebbero imprese, beni immobili e pubblici a prezzi irrisori. Questo porterebbe ad una liquidazione del paese, oggi caldeggiata dai sostenitori della dracma.
12. L’isolamento diplomatico ed economico della Grecia non potrà creare le giuste condizioni per far fronte alle evoluzioni geopolitiche della regione ed alle pressioni dei paesi circostanti.
Ovviamente non dobbiamo basare le nostre previsioni su una soluzione tanto inutile quanto pericolosa come il ritorno alla dracma.
Bisogna elaborare un piano a lungo termine che possa rendere la Grecia un paese europeo moderno e ben amministrato, con un’economia solida e libera dalle “patologie” che la affliggono in questo momento.
Dimitrios Giokas
(da “Huffingtonpost”)
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