Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
SPESE PAZZE: IN CASO DI CONDANNA PER PECULATO MAGGIORANZA AZZOPPATA… GLI INDAGATI RIXI E BRUZZONE (LEGA) MARCO SCAJOLA (FORZA ITALIA) E MATTEO ROSSO (FRATELLI D’ITALIA) RISCHIANO IL PROCESSO A BREVE E LA DECADENZA ENTRO IL 2016
La vicenda “spese pazze” in Regione Liguria incombe sulla nuova maggioranza appena eletta.
In base alla legge Severino infatti le conseguenze di una condanna in primo grado potrebbero essere pesantissime per quattro consiglieri: Rixi e Bruzzone della Lega Nord, Marco Scajola di Forza Italia e Matteo Rosso di Fratelli d’Italia.
E una maggioranza di 15 consiglieri più il presidente Toti contro 15 esponenti dell’opposizione ha ottime ragioni per preoccuparsi in caso di sospensione di quattro consiglieri o decadenza degli stessi.
Nella prossima settimana la Procura ha già programmato una serie di interrogatori: Della Bianca, Gasco, Saso, Scajola e Miceli, tutti accusati di peculato.
Gli altri erano già stati verbalizzati e dovrebbero essere 27 i rinviati a giudizio entro luglio.
Entro fine anno dovrebbe quidi iniziare il processo a carico dei politici rinviati a giudizio e si prevede che qualcuno chiederà il patteggiamento o il rito abbreviato.
Ed entro la seconda metà del 2016 è prevista la sentenza di primo grado.
La Severino prevede l’automatico stop per chi viene condannato per reati contro la Pubblica Amministrazione.
E a quel punto potrebbe saltare il banco e gli elettori chiedere il motivo per cui sono stati ripresentati degli indagati (che nel frattempo continueranno a percepire 10.000 euro al mese)
(da “il Secolo XIX“)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
VELENI DEL POST-VOTO: SI CERCA SU CHI SCARICARE LE RESPONSABILITA’ ELETTORALI
Piomba nel cuore della war room di Matteo Renzi la grande faida democratica dopo le regionali. Ed è proprio per questo che il premier-segretario per ora se ne tiene alla larga.
Lascia esporre gli altri, e si mostra indifferente alla rissa tra De Luca e la Bindi che dai giornali si è spostata in tribunale, con la querela del neo-governatore.
Fino a lunedì ogni ipotesi di riassetto del partito è sul suo tavolo. Dalle più “morbide” alle più “radicali”.
La verità è che sulla scrivania del premier sono squadernati più piani di guerra sul partito, ma nessuno (per ora) è diventato definitivo.
È l’ala del partito che provò qualche settimana fa a strutturarsi in corrente “catto-dem” che ha fatto capire che l’eventuale rimozione di Lorenzo Guerini da vice-segretario non sarebbe affatto indolore: “Non può essere lui — sussurrano a microfoni spenti — il capro espiatorio della vicenda. Renzi lo sa anche perchè glielo abbiamo ricordato”.
La vicenda porta al cuore della war room del premier, alla cerchia ristrettissima. Dove da tempo, su una serie di questioni, aleggia una tensione tra il “giglio magico” di Lotti e della Boschi e il “gruppo renziano non fiorentino” di Guerini e Delrio.
Un capitolo della tenzone fu proprio lo spostamento di Delrio alle Infrastrutture, che l’allora sottosegretario di palazzo Chigi visse come una liberazione proprio perchè era diventata difficile la coabitazione con Lotti.
Adesso il capitolo del partito.
L’ipotesi di una sostituzione al partito di Guerini, reo di aver gestito male il caso campano e quello Ligure, spedendolo a fare il capogruppo alla Camera è stata presa in considerazione dal Renzi. Così come quella di mandare al Nazareno o Lotti o la Boschi.
E’ un’ipotesi, molto caldeggiata dal “giglio magico” che scaverebbe un solco proprio nella cerchia ristretta.
Chi ha parlato con Guerini racconta che il vicesegretario non sarebbe entusiasta della soluzione. Soprattutto perchè non si sente il principale responsabile della gestione del caso campano e di quello Ligure.
Anzi fu proprio Guerini a sondare candidature alternative in primo luogo alla Paita, dopo la vicenda delle primarie inquinate suggerendo, tra le altre, l’ipotesi Orlando.
Mentre sulla Campania provò a dare sostegno a Cozzolino. “La Paita è debole, De Luca inopportuno”, questa la formula usata allora col premier.
In entrambi i casi, Campania e Liguria, fu proprio Lotti a chiudere sulle candidature di Paita e De Luca.
Per dare un segnale alla prima volò a Genova, mentre l’altro il minuto dopo le primarie fu ricevuto a palazzo Chigi. Incontro dopo il quale De Luca dichiarò di avere il “pieno sostegno” del partito e di Renzi.
Proprio il potente sottosegretario alla presidenza è stato il principale dominus di queste regionali, colui che ad esempio ha affidato la Paita e la Moretti alla società di comunicazione Dotmedia a lui vicina, col mandato non solo di dare buoni consigli ma di esercitare un commissariamento politico. Ed è così che la Moretti non solo si è vista costretta a cambiare look, ma è stata guidata nelle scelte politiche.
Ecco perchè è maledettamente complicato il risiko del riassetto se per riassetto si intende lo spostamento di un petalo del giglio al Nazareno.
Non è un mistero neanche che la Boschi, altro possibile candidato da mandare al Nazareno per la renzizzazione del Pd, preferisce rimanere al ministero delle Riforme in vista della partita del Senato.
E che Rosato, vicecapogruppo con funzione di reggente, (in quota Franceschini) dopo aver gestito il delicato passaggio alla Camera sulla legge elettorale digerirebbe male la definitiva promozione a capogruppo.
Dunque, che fare? Chi conosce bene Renzi racconta che non ha ancora deciso se alla direzione di lunedì prossimo si limiterà alla parole o proporrà un nuovo organigramma.
Molto dipenderà dall’atteggiamento della minoranza. Se Bersani ripeterà quello che ha detto il giorno del voto nell’intervista al Corriere, allora al primo punto dell’ordine del giorno sarà scritto “fuoco alle polveri”.
È comunque certo che le parole saranno pesanti come pietre sul “modo in cui si sta in un partito”. Un metro per misurare la rabbia senza precedenti di questi giorni è il tacito assenso dato all’iniziativa di De Luca di querelare la Bindi perchè ha procurato al Pd un danno di immagine influendo negativamente sul voto.
Un atto arrivato dopo che, ospite di Piazza Pulita, la Bindi aveva chiesto le “scuse” al suo partito. L’assordante silenzio sulla Bindi nelle dichiarazioni dei renziani, solitamente molto loquaci, suona come la più classica delle quieti prima della più classica delle tempeste.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
“CAMBIARE SEVERINO SU BASE BUON SENSO”: VUOLE EVITARE LA SOSPENSIONE AUTOMATICA PREVISTA DALLA LEGGE… RENZI CERCA DI PRENDERE TEMPO PER INSEDIARE UN VICE
Vincenzo De Luca, inserito tra gli “impresentabili”, ha denunciato Rosy Bindi depositando a Salerno una querela in cui chiede alla Procura di Roma di procedere nei confronti del presidente dell’Antimafia per diffamazione, attentato ai diritti politici costituzionali, abuso d’ufficio.
Ma non è certo la Bindi la principale grana di De Luca, eletto presidente della Regione Campania per il centrosinistra con il 41,2%, pari a quasi 990mila voti.
Il sindaco di Salerno torna a chiedere la revisione della legge Severino — “un aborto di diritto”, la definisce — che ne prefigura la sospensione dalla carica di governatore, una volta che sarà insediato, per effetto della condanna di primo grado per abuso d’ufficio. “Bene ha fatto, in modo particolare il governo, a non decidere prima delle elezioni regionali. Avremmo avuto una valanga di polemiche e di accuse di favoritismo”, ha spiegato in un’intervista al Mattino.
“Ora è venuto il tempo di decidere non solo sulla base del diritto e della Costituzione ma anche in virtù del buonsenso”.
Dietro le quinte, intanto, si cercano soluzioni alternative, piuttosto impervie dato che la legge parla chiaro: un presidente di regione con una condanna in primo grado per abuso d’ufficio deve essere sospeso. Punto.
In più ci si è messa la Cassazione, che con una recente sentenza ha sancito che la legge opera in modo automatico e “non è attribuita alla pubblica amministrazione alcuna discrezionalità ”.
Nella stessa sentenza la Corte spazza via le precedenti sentenze del Tar Campania, favorevoli a De Luca e al sindaco di Napoli Luigi De Magistris, e chiarisce che per eventuali ricorsi è competente esclusivamente il tribunale ordinario.
Insomma, per salvare De Luca o almeno la vittoria elettorale sua e del Pd, le maglie sono strette.
Nella stessa intervista, il presidente in pectore la vede così: “Nomineremo una giunta segnata da molte professionalità , aperta alla società civile, e andremo avanti con assoluta tranquillità ”.
E al Corriere della Sera chiarisce ulteriormente: “Se prima non vengono insediati gli organi non può diventare efficace l’eventuale provvedimento di sospensione, perchè di quello deve prendere atto comunque un consiglio regionale già nella pienezza delle sue funzioni. Come si vede, il paventato vuoto di potere è solo una invenzione propagandistica”.
Ed è proprio nelle pieghe dei tempi d’avvio della legislatura che potrebbe giocarsi la partita, salvo rapide modifiche della Severino in Parlamento, che non sarebbero politicamente indolori per Matteo Renzi, sempre pronto a rivendicare i successi di governo e maggioranza sul fronte della lotta alla corruzione e all’illegalità . Innanzitutto, per essere sospeso De Luca deve prima diventare presidente a tutti gli effetti, quindi proclamato dalla Corte d’appello di Napoli una voltra espletatate le formalità di legge, cosa che richiede una ventina di giorni (nel 2010 si votò il 28-29 marzo e Stefano Caldoro fu proclamato vincitore il 17 aprile).
A questo punto scatterebbe la sospensione: la legge 235/2012 — la Severino, appunto — prevede che il prefetto del capoluogo di regione, Napoli, dia “immediata comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri” del fatto che il presidente si trova nelle condizioni che portano alla sospensione.
Il premier, “sentiti il Ministro per gli affari regionali e il Ministro dell’interno, adotta il provvedimento che accerta la sospensione”.
La Severino non detta tempi, ma nel frattempo la Cassazione ha sottolineato appunto l’automatismo della procedura.
A questo punto però scatta il cavillo.
A chi deve essere notificato il provvedimento? “Al competente consiglio regionale” nella persona del suo presidente, recita la Severino, per inziativa del prefetto.
Già , ma a quale consiglio regionale, il vecchio o il nuovo, che ancora deve essere insediato?
La legge non lo dice, anche perchè il vincitore delle elezioni campane si trova in una sorta di limbo: con la sua condanna in primo grado era candidabile alla carica, ma se fosse stato già governatore sarebbe stato rispedito a casa.
De Luca, nel colloquio con il Corriere della Sera, non ha dubbi: la notifica deve arrivare al nuovo consiglio, perchè “se prima non vengono insediati gli organi non può diventare efficace l’eventuale provvedimento di sospensione”.
Sospensione contro la quale il sindaco di Salerno già annuncia “un ricorso al tribunale ordinario” con l’obiettivo di farsi reintegrare, incoraggiato anche delle precedenti sentenze del Tar.
E’ in queste more che potrebbe prendere corpo la strategia renziana, di cui si è discusso nei giorni scorsi, di mettere al sicuro la vittoria elettorale con la nomina di un vicepresidente e di una giunta che continuerebbero a governare in nome di De Luca anche se quest’ultimo, alla fine della battaglia di carte bollate, dovesse davvero abbandonare temporaneamente l’ufficio di governatore appena conquistato.
Una strada ribadita dal vicesegretario Pd Lorenzo Guerini: “De Luca era candidabile, eleggibile e insediabile e seguirà questo percorso”, ha affermato, escludendo qualsiasi intervento per modificare la legge Severino.
“Dopodichè c’è una legge che non parla di decadenza, ma eventualmente di sospensione”.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
SPUNTA L’IDEA DEL RIBALTONE: C’E’ CHI PENSA A DELRIO O A ORLANDO… “LA RIFORMA CI HA TOLTO MOLTISSIMI VOTI”
Un ultimatum sulla scuola. «Quella riforma ci ha fatto un male terribile. Ha massacrato il nostro mondo, quello cattolico e di sinistra, ci ha tolto un sacco di voti», dice Roberto Speranza.
Dunque, Renzi deve «cambiare linea. Non solo nel Pd. Anche al governo».
Lo dicono i numeri delle elezioni, i dati in termini assoluti.
«Prima usava il 40 per cento delle Europee come una clava contro di noi. E adesso? Se continua a farlo scherza col fuoco», avverte il bersaniano Miguel Gotor.
Come dire: quell’arma è spuntata, la minoranza, al momento dello scontro, non perderà pezzi com’è successo sul Jobs Act e sulla legge elettorale.
Il Partito della Nazione, agli occhi della minoranza, è morto e sepolto, ucciso dagli elettori, dalla ripresa della destra e dall’astensione.
«Non voteremo più alcune cose», annuncia Alfredo D’Attorre.
Ma quale sarà la «botta» evocata da Massimo D’Alema qualche mese fa?
I dissidenti escludono una caduta del governo per andare a votare. Sarebbe effettivamente il modo per cancellare l’Italicum e fermare definitivamente la riforma del Senato.
«Escluderei che Renzi faccia delle correzioni, non è nella sua natura – spiega Maurizio Migliavacca, storico braccio destro di Pier Luigi Bersani –. Ma un ragionamento sul voto va fatto, a partire dalla scuola. E se Matteo non ci ascolta prepareremo la sfida dentro al Pd».
Una sfida che ha tempi variabili, comunque non brevissimi.
Diventerebbe invece più rapido uno show down che passando dai numeri delle regionali, arrivasse al ribaltone a Palazzo Chigi. Senza il transito dalle urne.
Da qualche giorno, negli ambienti della minoranza, si parla di possibili sostituti in corsa per la poltrona di presidente del Consiglio.
E i nomi messi in campo fanno pensare a un piano progettato con qualche cognizione di causa.
È stato evocato, in quegli ambienti, Graziano Delrio. Cattolico, renziano della prima ora ma renziano dal volto umano.
Per questo fuori dal giglio magico e dopo un anno alla presidenza del Consiglio come sottosegretario chiamato a fare il ministro delle Infrastrutture. Lontano da Palazzo Chigi.
L’altro candidato è stato individuato nell’area ex Ds ma con un ruolo di primissimo piano nell’attuale governo: è Andrea Orlando, ministro della Giustizia.
Una figura istituzionale, l’unico ad avere un incarico riconosciuto nella Costituzione. E nel Dna Orlando ha la tendenza ad ascoltare tutti, a cercare la soluzione più praticabile coinvolgendo il maggior numero di persone.
Proprio ciò che Renzi vede alla stregua di una debolezza profonda. E che invece i dissidenti giudicano una grande virtù.
Quella del ribaltone è un’impresa davvero acrobatica, ma non può essere esclusa dal momento che le barricate della sinistra possono contare sul mattone del brutto risultato elettorale e sulla fine della suggestione di invincibilità del premier.
La pesante emorragia di voti delle regionali, la sconfitta simbolica in Liguria, secondo la sinistra Pd, cambia il quadro.
Fingendo di non vedere il pessimo esito degli esperimenti al di fuori dei dem, con l’eccezione di Pastorino in Liguria, la minoranza giudica fallito il sogno renziano.
«Il Pd perde una valanga di voti a sinistra che vanno all’astensione e in parte a Grillo. E non prende più voti a destra. Non è un affare di Stato ma bisogna fare le cose normali: capire, discuterne e agire», suggerisce Migliavacca.
Se è vero che Renzi è a un bivio nel rapporto con i ribelli, lo stesso vale per la minoranza che sopravvaluta l’indebolimento renziano.
Nelle aule parlamentari, però, i numeri sono in bilico e la sinistra riprende fiato.
Si può rompere il solito schema per cui 30 senatori firmano un documento contro una legge del governo e poi, nel voto, al momento della verità , si riducono a 8-10.
La forza attrattiva del premier esce incrinata dalle regionali. Ma far precipitare il Paese al voto è un rischio per tutti, anche se il Consultellum ovvero il sistema proporzionale, fa gola a tanti.
«Perchè succeda bisognerebbe accoltellare Renzi e io non voglio farlo», dice Gianni Cuperlo.
Dopo di che, continua l’ex presidente, «se fossimo in un film americano la battuta sarebbe “Houston abbiamo un problema”. Un pezzo dell’elettorato della sinistra ha voluto esprimere una forma di dissenso verso scelte compiute nei mesi recenti». Quindi, «lo schema tanto ci votano a prescindere come direbbe Totò, esce pesantemente ridimensionato».
Pippo Civati invece vede aprirsi una porta per il suo esperimento a sinistra del Pd. «Siamo arrivati quasi al 10% – prendendo in termini assoluti metà dei voti che prende il Pd – senza un simbolo nazionale, senza felpe. Podemos la prima volta prese l’8».
Lancerà subito il suo movimento “Possibile”.
«Renzi svende la ditta ma fa peggio di Bersani consegnando la ditta agli alieni».
La partita è appena cominciata. Rosy Bindi pone anche un problema di convivenza: «Mi aspetto che il Pd mi chieda scusa per la vicenda degli imprensentabili», dice la presidente della commissione Antimafia.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
“NON E’ CORRETTO NE’ GIUSTIFICATO PREVEDERE CONTRIBUTI SUPERIORI IN SITUAZIONI ANALOGHE”…LA MORALE LEGHISTA: PIU SOLDI AI RICCHI, MENO AI POVERI
Una disparità di trattamento, illogica e ingiustificata.
Il Consiglio di Stato ha rilevato che Regione Lombardia, durante l’anno scolastico 2013/14, ha utilizzato due pesi e due misure nell’assegnare i contributi per gli studenti meno abbienti: più soldi per i ragazzi delle scuole private, meno per quelli degli istituti pubblici.
La sentenza, relativa ai casi di due giovani liceali, ora potrebbe costituire un precedente per altri 400 ricorsi che altrettanti studenti lombardi stanno portando avanti nei confronti della Regione.
Sul banco degli imputati c’è la Dote scuola, il sistema di contributi messi a disposizione dal Pirellone per i giovani in difficoltà economiche.
Nell’anno scolastico 2013/14, questo meccanismo prevedeva diverse componenti. Una di queste era il cosiddetto “sostegno al reddito”, un beneficio riservato agli studenti delle scuole che non applicavano una retta, in poche parole gli istituti pubblici: la somma oscillava tra 60 e 290 euro.
Dall’altra parte, c’era anche la “integrazione al reddito“, destinata agli alunni delle scuole che chiedevano una quota di iscrizione, in sostanza gli istituti privati: in questo caso, la cifra si attestava tra i 400 e i 950 euro. La differenza è evidente.
Nella primavera del 2013 i genitori di due ragazze, che frequentavano due istituti superiori statali a Milano, hanno tentato inutilmente di accedere al contributo dell’integrazione al reddito.
E una volta constatata l’impossibilità di ottenere il beneficio, hanno portato in tribunale la Regione.
Il Tar della Lombardia ha dato loro ragione, annullando la delibera regionale nei punti incriminati.
Ma il Pirellone ha fatto ricorso al Consiglio di Stato, che però, il 28 aprile 2015, ha confermato la sentenza di primo grado “in relazione alla disparità di trattamento tra la componente ‘integrazione al reddito’ (…) e il beneficio definito come ‘sostegno al reddito’”.
Secondo i giudici amministrativi, “non è corretto nè logico” prevedere due importi diversi nel caso di situazioni del tutto analoghe: “Non si giustifica la differenziazione se le misure hanno le stesse funzioni, e cioè l’acquisto dei libri e di altri strumenti scolastici”.
E così, il Consiglio ha dato ragione al Tar sancendo l’annullamento della delibera regionale nella parte dove si prevede “a parità di fascia Isee di appartenenza, l’erogazione a titolo di ‘sostegno al reddito’ di buoni di valore inferiore a quelli erogabili a titolo di ‘integrazione al reddito’”.
In poche parole, la Regione dovrà restituire alle due ragazze la differenza rispetto al contributo previsto per gli studenti delle scuole private.
La sentenza apre così la strada per altre centinaia di ricorsi presentati contro il Pirellone.
“E’ un buon auspicio per la class action che stiamo portando avanti — spiega Giansandro Barzaghi, presidente dell’associazione Non uno di meno — Circa 400 famiglie hanno fatto ricorso presso i tribunali di Milano e Brescia per chiedere il pagamento della differenza rispetto agli istituti privati. Se le cause andranno a buon fine, Regione Lombardia dovrà versare circa 200mila euro”.
Il prossimo 2 giugno, l’associazione spiegherà alla cittadinanza queste iniziative durante la “Festa della scuola della Costituzione“, organizzata in piazza Cordusio a Milano, dove saranno messi a confronto gli articoli della Carta con quelli della riforma della scuola voluta dal governo Renzi.
Stefano De Agostini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
LA BIASOTTIANA, SECONDA CON 2.525 PREFERENZE, CONTESTA IL SINDACO DI CASARZA, PRIMO CON 3.066, APPOGGIATO DA BAGNASCO… “A CASARZA SCHEDE UNIFORMI, NESSUN VOTO DISGIUNTO, TUTTE COL NOME E NESSUNA COL SOLO SIMBOLO”…MA UN POSTO DA ASSESSORE POTREBBE RICOMPORRE LA LITE
Gli avversari politici hanno coniato per lei il soprannome di “pescivendola” per via della sua esuberanza oratoria e i modi bruschi.
Ora pare che non siano solo loro a dover fare i conti con la sua ira, ma anche i colleghi di Forza Italia, di cui lei è capogruppo in Comune a Genova.
Candidata alla Regione con un mese di anticipo, aveva tappezzato tutta Genova con i suoi manifesti giganti e l’appoggio del coordinatore di Forza Italia Sandro Biasotti, certa di classificarsi prima nella corsa elettorale alle preferenze.
Quando ha dovuto prendere atto di essere solo seconda con 2.525 voti, Lilli Lauro non l’ha presa bene e la lotta con Claudio Muzio, sindaco di Casarza, che ha raccolto 3.066 preferenze (molte delle quali nella sua cittadina), rischia di trasferirsi in tribunale con annessi ricorsi e accuse.
Come sottolinea il Secolo XIX, “la Lauro avrebbe messo sotto la lente di ingrandimento i voti ottenuti da Muzio proprio a Casarza: i sospetti riguarderebbero l’uniformità delle schede per Muzio (nessun voto disgiunto, tutte con nome e nessuna con il solo simbolo) e un annuncio di vittoria fatto pubblicamente prima della conclusione dello spoglio”.
La replica di Muzio non tarda ad arrivare: “Sono letteralmente esterrefatto ed auspico che venga fatta chiarezza da parte delle autorita’ competenti sulla gravita’ delle dichiarazioni che ho letto. Purtroppo le sconfitte elettorali bruciano e anziche’ riflettere sui propri errori si segue la strada della delegittimazione dell’avversario”.
E già chiamare “avversario” una collega di partito è segno del clima che si respira all’interno di Forza Italia.
Non sappiamo se voleranno solo gli stracci o anche i pesci, certo che per l’armata brancaleonica di Toti non è un buon inizio.
Una soluzione pare si stia profilando all’orizzonte e questo spiegherebbe il silenzio insolito della Lauro nelle ultime ore: alla pupilla di Biasotti sarebbe stata prospettata la possibilità di nomina ad assessore esterno della giunta Toti.
Un buon motivo programmatico per far rientrare la guerra interna ?
“Vedremo” ha risposto la Lauro a chi le chiedeva lumi.
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
RISPETTO ALLE EUROPEE LA MORETTI FA PERDERE 600.000 VOTI SU 900.000, CON LA PAITA E LA MARINI SE NE VA IL 505 DELL’ELETTORATO… VINCONO I NON RENZIANI ROSSI, EMILIANO E CERISCIOLI
Hanno perso tutti.
Il Pd che festeggia il 5-2 e dà la colpa della Liguria a Pastorino. Finchè si parla di vittoria, può anche avere ragione. Ma i democratici fanno finta di non notare che in termini assoluti, nelle sette regioni, lasciano sul campo tra un milione e mezzo e due milioni di voti rispetto alle elezioni Europee.
Perchè la forbice? Perchè alle Europee il Pd corre da solo, alle Regionali si presentano spesso liste civiche a supporto dei candidati presidente che però sono animate da pezzi del partito. Secondo l’istituto Cattaneo il Partito democratico ha perso 2 milioni e 143mila voti.
Se ci aggiungiamo le preferenze raccolte da liste come “Emiliano sindaco di Puglia” o “De Luca presidente” si scende a un milione e 632mila voti di differenza tra la performance del 41 per cento di un anno fa e quella del 5-2 delle Regionali.
Tanto per capirsi: il Pd che aveva “non vinto” alle Politiche del 2013, quello di Bersani, aveva preso nelle stesse Regioni un milione di voti in più.
E a registrare che il “nuovo” Pd ha scalato di una marcia sono tutti i giornali con Stefano Folli (Repubblica) che fotografa che il 40 per cento non esiste più e Aldo Cazzullo (Corriere) che conferma che “l’uno contro tutti non funziona”.
Eppure per Renzi il “voto è molto positivo“.
La dispersione eventuale di voti tra la lista del Pd e le altre collegate ai presidenti è la prima avvertenza di un raffronto di questo tipo.
Ci sono altri due fattori che mettono Europee e Regionali su piani diversi.
Il primo: l’affluenza che nel 2014 in quelle regioni fu del 61 per cento e ora è stata del 52; tuttavia anche l’affluenza può essere letto come un “giudizio” dell’elettore.
Il secondo: il contesto politico, perchè un anno fa c’era il richiamo di un appuntamento “nazionale”, per giunta con l’esordio di Renzi fresco presidente del Consiglio e l’onda lunga dell’entusiasmo grillino.
Paita, la più renziana delle sconfitte
Ma per il Pd il punto è anche un altro: il calo non è tutto omogeneo da nord a sud ed è l’altra cosa che Renzi segretario non potrà nascondere nell’ultimo cassetto: in Puglia Michele Emiliano ha perso pochissimo (circa 15mila voti), in Toscana e nelle Marche Enrico Rossi e Luca Ceriscioli hanno stravinto.
Mentre il tracollo è stato in Veneto, con Alessandra Moretti, e in Liguria con la Paita che ha perso metà dei voti (160mila voti) mentre Pastorino a cui tutti danno la colpa non ne ha presi più di 36mila.
Ne viene che i candidati davvero forti potranno anche subire l’influenza della politica nazionale ma resistono (e vincono) anche in caso di “emergenza” e di colpi di scena, come può essere la prestazione del Carroccio.
Non solo: sembrano aver retto all’urto i candidati “non renziani”, mentre l’icona del fiatone del Pd è proprio la Paita, la più renziana nelle dinamiche e nei modi di fare politica, con quegli occhiolini a destra che Rossi o Emiliano non si sono mai sognati di fare.
Renzi rischia di ritrovarsi una pagella insufficiente se a questo si aggiunge la frittata della Campania, dove ha sostenuto un candidato presidente che ora da presidente del Consiglio dovrebbe sospendere. E se non lo sospende si alzerà il grido allo scandalo sul Pd che favorisce il suo candidato. Un bivio quasi cieco, nonostante il leader democratico sia di solito abituato a sorprendere.
Emiliano l’invincibile
L’unico che non perde voti rispetto a un anno fa è Emiliano. Non ne perde il Pd in termini percentuali (33,5 nel 2014 contro 32 tra Pd e liste collegate), non ne perde in termini assoluti (differenza di 16mila voti in meno) e l’effetto è che anche l’affluenza è identica (51 per cento). Per giunta lo stesso ex sindaco di Bari ha vinto disperdendo gli avversari in una Regione gestita finora da Nichi Vendola, circostanza che alla vigilia veniva descritta come un handicap per la corsa del nuovo governatore.
Sostenitore del dialogo con i Cinque Stelle (per convinzione o per strategia, quello è un altro conto), Emiliano si è sempre mosso in modo molto “autonomo” rispetto ai vertici del partito. Con il renzismo c’entra poco. Tanto che Renzi a fare campagna elettorale in Puglia non è mai andato.
Il comunista democratico e l’ex sindaco
E hanno fatto il vuoto anche Rossi in Toscana e Ceriscioli nelle Marche.
Il primo ha saltato le primarie su indicazione della dirigenza del Pd: si definisce comunista democratico, da sindaco di Pontedera vent’anni fa bloccò il trasferimento della Piaggio, si fa le foto con i rom, manifesta davanti alle fabbriche con gli operai contro i gruppi industriali che si trasferiscono all’estero, si incazza e risponde stizzito e a muso brutto a chi lo contesta per strada, ha sempre in bocca l’antifascismo (cosa c’entra con Renzi?).
Il Pd in Toscana ha perso 400mila voti in un anno, un milione contro circa 600mila e rotti, ma l’avversario più vicino è rimasto a 28 punti di distanza, rendendo quasi ininfluenti Cinque Stelle, centrodestra vario (nonostante le urne rigonfie di voti alla Lega) e sinistra alternativa.
Marche, Ceriscioli “l’incandidabile” (per Lotti)
Ceriscioli, invece, ex sindaco di Pesaro, con Renzi ha avuto un lungo duello a distanza perchè il Partito democratico non voleva farlo correre alle primarie per la segreteria regionale: lo statuto prevedeva che chi fa il sindaco non può partecipare.
“Ma come — disse Ceriscioli — Renzi da sindaco di Firenze ha fatto le primarie nazionali e io non posso fare quelle regionali?”.
Renzi evitò di occuparsi del caso, Ceriscioli disse che il silenzio del capo era “agghiacciante” e serviva a favorire le correnti di Fassino e Franceschini.
Il fedele Lotti gli chiuse la porta in faccia: “E’ incandidabile”. Il Pd nelle Marche, a questo giro, doveva fare i conti con la questione del lavoro con il boomerang Whirlpool e gli scandali sui rimborsi.
Per giunta il presidente uscente Gian Mario Spacca con disinvoltura è passato dal centrosinistra al centrodestra (con effetti zero, ma vabbè). Eppure ai democratici sono rimasti 212mila voti (contro i 361mila del 2014, meno 6%).
Umbria, Catiuscia Marini: il renzismo non basta
E’ un dato di fatto che invece abbiano sofferto i candidati ritenuti più vicini al capo del governo, che siano della prima o della ultima ora. In Umbria la presidente uscente Catiuscia Marini, “giovane turca” (area Orfini) ed ex bersaniana, ha vissuto un paio d’ore bruttarelle quando exit poll e proiezioni davano il suo rivale Claudio Ricci in testa, anche se di poco.
Il precedente di Perugia persa dopo 70 anni di sinistra era lì dietro l’angolo, ma alla fine la paura è stata a fatica scacciata.
La Marini ha dato il merito della corsa di Ricci alla Lega Nord, in realtà il Pd ha fatto fuori in un anno quasi la metà del proprio bacino elettorale: 228mila nel 2014 contro 125mila di domenica. Se la percentuale è rimasta identica (intorno al 36 per cento), c’è l’affluenza che è crollata dal 70 al 55 (calo tra i più vistosi) e in questo caso non si può dare la colpa alla tentazione di andare al mare.
Il buco nero del Veneto
Poi c’è la voragine del Veneto: alle Europee aveva fatto notizia il 37,5 per cento del Pd nei territori delle piccole imprese, delle partite Iva, delle villette e della paura di furti e rapine.
Erano quasi 900mila voti, allora, che sono diventati solo 390mila, meno di quelli che prese Bersani nel 2013. Una bella botta di sfiducia che potrebbe trascinare giù anche Casson — un altro che con Renzi può vantare solo un rapporto professionale — nel ballottaggio di Venezia.
L’impresentabile e i 300mila voti in meno
La Campania fa un po’ storia a sè perchè lì — come scriveva alcuni giorni fa il Financial Times — comanda più De Luca che Renzi quindi non si capisce chi è sostenitore di chi.
La cronaca degli ultimi mesi, tuttavia, racconta di Renzi e Guerini che hanno dato il via libera a De Luca decine di volte, a partire dalle primarie.
E che ora il Pd ha perso oltre 300mila voti, nonostante la vittoria finale: da 832mila a 543mila, dal 36% al 24, con l’affluenza stabile al 51 per cento. Un successo che potrebbe diventare solo un pensiero in più per il presidente del Consiglio che ora deve sbrogliare il gomitolo della legge Severino.
Tutti per la Paita, anzi no
Infine la Liguria, la sconfitta più bruciante. L’affluenza è scesa dal 60 al 50 per cento. I voti democratici sono stati falciati da 323mila a 163mila e la sinistra che “se n’è andata col pallone in mano” non c’entra niente.
La Paita è stata sostenuta da tutto il partito, a Genova sono passati Renzi, Delrio, la Boschi, la Madia e la Pinotti e — visto che la situazione era molto complicata — perfino Speranza e Bersani. Ma non è bastato.
E infatti Rossi il berlingueriano ora, certo, dice che “non ha senso stare fuori dal partito con avventure minoritarie e velleitarie”, ma avverte i vertici del partito che dopo i risultati di domenica “di qualcosa si dovrà parlare”. Altro che “va tutto bene”.
Diego Pretini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
FASSINA. “IL POPOLO PD NON SI RICONOSCE NELLA LINEA DEL PREMIER”… PUPPATO: “IN VENETO UNA CLASSE DIRIGENTE DA MANDARE A CASA”
Stefano Fassina, uno tra i leader più in vista della minoranza interna, è il primo a caricare a testa bassa: «Il messaggio è chiaro, il popolo del Partito democratico non si riconosce nella svolta liberista e plebiscitaria» di Matteo Renzi.
Il primo, ma non il solo. «Abbiamo giocato senza avversari tirando più di un rigore a porta vuota e mancando clamorosamente il bersaglio», rincara con una metafora calcistica contro la linea del presidente del Consiglio il bersaniano Alfredo D’Attorre. Ci va giù dura anche Laura Puppato. In Veneto, dove il Pd è uscito con le ossa rotta dal confronto con la Lega Nord, per la senatrice c’è «una classe dirigente che andrebbe mandata a casa».
FRATELLI COLTELLI
E’ guerra nel Pd. Il giorno dopo le elezioni regionali che hanno visto il partito vincere in cinque Regioni su sette, nei corridoi di Largo del Nazareno si respira un’aria decisamente pesante.
Frutto delle due sconfitte, quella in Liguria, dove Renzi e i suoi non si aspettavano di perdere contro Giovanni Toti, candidato di una Forza Italia ridotta ai minimi termini, e in Veneto, con Alessandra Moretti doppiata da Luca Zaia.
Ma anche dello scenario senza precedenti che si è aperto in Campania, dove, oltre ad aver ufficialmente disconosciuto il suo marchio di fabbrica, la Rottamazione, il premier-segretario si ritrova con un Vincenzo De Luca che ha battuto il presidente uscente Stefano Caldoro ma ora rischia di non poter governare per effetto della legge Severino.
Ecco perchè, visti anche gli importanti risultati raggiunti dal Movimento 5 Stelle e dal Carroccio, c’è chi, come il bersaniano Miguel Gotor, punta il dito contro l’operato del presidente del Consiglio.
Scatenando ovviamente una reazione dura. «Qui serve un’analisi della non sconfitta, chi parla di una vittoria è affetto quantomeno da miopia: non solo Renzi non è riuscito ad arginare le cosiddette forze “antisistema” ma, al contrario, ha fatto da concimatore consentendo loro di germogliare meglio», dice Gotor a ilfattoquotidiano.it.
Una posizione, quella del senatore dem, cui fa eco la domanda posta da un altro esponente di fede bersaniana, Davide Zoggia: «Cosa accadrebbe domani se si andasse a votare con l’Italicum così com’è stato approvato?».
Riflessioni che aprono scenari incerti soprattutto in vista della ripresa della discussione sulle riforme avviate dal presidente del Consiglio. In primis scuola e Senato.
VOTI A PERDERE
Fra riflessioni e accuse di «sabotaggio» da parte di una «sinistra irresponsabile» (alias Giuseppe Civati), dal quartier generale renziano Ernesto Carbone respinge però l’idea di qualsiasi ipotesi di rimescolamento delle carte.
«Onestamente non capisco cosa debba cambiare adesso, casomai dobbiamo accelerare sulle riforme che in agenda — afferma il responsabile Pubblica amministrazione della segreteria del Pd — Ricordiamo che nel 2010 il Partito democratico governava in sei Regioni mentre altre sei erano sotto il controllo del centrodestra. Ne abbiamo riconquistate quattro. Possiamo dire qualsiasi cosa ma i numeri sono incontestabili». Ma non è solo una questione di cifre.
«C’è un “no” al Pd di Renzi e senza radicali correzioni ai provvedimenti in discussione la situazione non migliorerà : il messaggio arrivato delle urne è molto chiaro», dice infatti Fassina.
Il test decisivo resta la riforma della scuola, già approvata a Montecitorio e ora all’esame di Palazzo Madama: «È da lì che devono arrivare le risposte, non nelle dichiarazioni post elezioni».
Altrimenti, ha già fatto sapere l’ex viceministro dell’Economia, «lascerò il Pd».
E non è il solo a suonare l’allarme. «In questa tornata elettorale il Partito democratico ha avuto condizioni favorevoli che non ci sono mai state in passato e non ci saranno mai più in futuro», aggiunge D’Attorre: «In tutte e 7 le Regioni, rispetto al 2010, perdiamo voti in termini assoluti, un fatto che, sulle materie fondamentali come scuola ed economia, dovrebbe spingerci ad interpellare iscritti ed elettori. Su questi temi non sono accettabili dei semplici diktat».
TUTTI CONTRO TUTTI
Ma al Nazareno le porte del dialogo sono tutt’altro che aperte.
«Abbiamo già depositato emendamenti che migliorano il provvedimento, quindi, per quanto riguarda la riforma della scuola, non c’è alcun cambiamento radicale da fare», ribatte Francesca Puglisi, responsabile Scuola, università e ricerca della segreteria dem.
Secondo la quale «la sconfitta in Liguria è stata solo colpa di una parte di sinistra dura e pura che ha deciso di tirare la volata alla destra».
Stessa musica da Giuditta Pini, ex bersaniana di ferro ora passata nelle fila renziane. Anche se ammette che «serve una discussione per rinvigorire il partito sui territori», la deputata dem non sembra abbassare le armi di fronte alle accuse della minoranza: «Avevamo dei problemi nelle elezioni locali già nel 2014, quando alle Comunali siamo andati male rispetto alle Europee».
Da qui l’invito a stringere le maglie del partito nel confronto con i “ribelli”: «Bisogna decidere come stare insieme, mi riferisco a chi sta nel Pd e annuncia di votare per il candidato di un altro schieramento».
Nemmeno troppo velato il riferimento a Fassina, che alla vigilia delle elezioni ha affermato che, se fosse stato chiamato a votare in Liguria, avrebbe scelto Luca Pastorino, il candidato di Giuseppe Civati, e non Raffaella Paita.
BOCCA A BOCCA
Ma non è tutto, ci sono anche altri fronti polemici sul tappeto. Perchè, aggiunge Miguel Gotor, grazie al patto del Nazareno il premier-segretario «ha fatto la respirazione bocca-a-bocca a Berlusconi» e «il tentativo di rianimarlo è riuscito: la destra c’è. In più, abbiamo un altro dato da considerare, e cioè che il primo partito italiano è ormai Astenemos: il fatto che circa la metà degli aventi diritto non siano andati a votare non è solo disaffezione per la politica, ma insoddisfazione rispetto all’offerta che il Pd ha presentato in quelle Regioni storicamente sue roccaforti, come la Liguria. Comunque, il campanello d’allarme era già suonato in Emilia-Romagna, ma si è preferito fare gli struzzi e non sentirlo».
Quanto alla Campania e alla “vittoria mutilata” di De Luca, «all’origine di tutto — conclude il senatore del Pd — c’è il codice etico del Pd che è stato bypassato: un gravissimo peccato di mancata vigilanza. Era Renzi che, in veste di segretario, avrebbe dovuto far rispettare le regole. Ora per noi si apre una situazione imbarazzante in una Regione nella quale il tema della legalità è centrale».
CLASSE ZERO
Pure in Veneto però si è creato un corto circuito senza precedenti. «Oggi siamo qui a commentare una sconfitta che, seppur attesa, non credevamo si trasformasse in dèbà¢cle», spiega Laura Puppato che, nel novembre scorso, alle primarie per scegliere l’aspirante governatore dem da contrapporre a Luca Zaia, appoggiò la candidatura di Simonetta Rubinato.
Primarie, quelle, che fecero registrare una scarsa partecipazione: appena 40 mila votanti contro i 170 mila che dodici mesi prima si erano ritrovati per scegliere il nuovo segretario nazionale.
Ma che consegnarono comunque la vittoria all’europarlamentare vicentina Alessandra Moretti. Per la Puppato, però, la sconfitta affonda le radici nel pessimo atteggiamento tenuto dalla costola locale del partito.
«Dopo che la Moretti ha vinto le primarie — spiega — molti di quelli che l’avevano appoggiata, guardando i sondaggi e le proiezioni di voto, hanno cominciato a fare un passo indietro. Una singolare forma di schizofrenia che, alla fine, ci è costata molto cara e che la dice lunga sulla qualità della classe dirigente del nuovo partito renziano».
Stefano Iannaccone e Giorgio Velardi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 2nd, 2015 Riccardo Fucile
“IL PD NON HA UNA ORGANIZZAZIONE, RENZI HA LA SUA CULTURA, SI CIRCONDA DI UNA CORTE”
«Cos’è il Pd, oggi? È solo il partito di Renzi. Dietro non c’è nient’altro».
L’analisi di Massimo Cacciari è spietata. Senza sconti, a partire dalla questione settentrionale: «La Lega rappresenta qualcosa di reale, il Pd nulla. È solo una grande corrente d’opinione renziana».
Professore, qualcuno aveva detto: “Sarà un referendum su Renzi”. Se è davvero così, il premier l’ha perso?
«Ma quale referendum su Renzi? Lui ha fatto campagna elettorale solo il minimo indispensabile. Quindi non è stato un referendum su di lui. Le considerazioni da fare sono altre».
Proviamoci. Partendo naturalmente dal Pd, per molti osservatori il grande sconfitto di questo voto regionale.
«Primo dato: dove non c’è Renzi a correre in prima persona, il Pd è un partito allo stato gassoso. Neanche liquido, proprio gassoso. Non ha una struttura organizzata, manca di un radicamento territoriale. Insomma, non ha niente, In Veneto il risultato della Lega è pazzesco. E in Liguria ha vinto Toti… Non un Berlusconi in forma, ma Toti, non so se mi spiego. Una cosa fantascientifica».
Non è impietoso? In fondo il Pd resta il primo partito.
«Il Pd dovrebbe riflettere. Ha raccolto percentuali forse peggiori di quelle di Fassino, Veltroni, Bersani e compagnia».
Cosa ha sbagliato Renzi?
«Non è che Renzi ha sbagliato qualcosa: questa è la sua cultura. Il partito è una corte di fedeli che lui paracaduta una volta in Veneto, un’altra in Liguria. Questo è Renzi».
E non può fare nulla per cambiare?
«O Renzi cambia strategia, oppure auguriamoci che riesca ancora a vincere da solo…».
Ma ha vinto in cinque regioni. Questo non conta?
«Dove vince, vincono ras locali come Emiliano e De Luca, che c’entrano con Renzi come c’entro io con la Mongolia esterna. E d’altra parte perchè stupirsi? Questo modello di partito è nella filosofia di Renzi, corrisponde alla sua concezione dei partiti e dei sindacati. Ecco, chi semina vento raccoglie tempesta».
Eppure per molti i dem rappresentano l’unico partito nazionale. Ancora senza alternative. Condivide?
«Per ragioni storiche Renzi si limita a convogliare su di sè una grande corrente d’opinione pubblica. Ci sono industriali, giornali e persone ragionevoli che dicono: che devo fare, c’è Renzi, chi c… voto altrimenti? Ma è un ragionamento di bassissima real politik».
Almeno nelle Regioni rosse ha vinto.
«Dove vince, vince con il cavallo di Caligola perchè dall’altra parte non c’era nulla. Ma la questione settentrionale riesplode prepotentemente, con la Lega che in Toscana è al 16% e sopra il 10% nelle altre regioni centrali. La prospettiva è drammatica. E i grillini tengono bene, rispetto alle ultime tornate».
Nel suo Veneto la Lega ha raggiunto vette stratosferiche e il Pd è precipitato. Sorpreso?
«Il dato del Veneto è epocale. Strepitoso. Con la somma dei voti della Lega, della lista Zaia e di Tosi, l’area leghista è al 60%. E il Pd, invece? Ricordo che il Pci non era mai andato così male. Anche quando aveva di fronte la grande balena bianca veneta, quella di Rumor, raccoglieva il 15 o 16%. E qualitativamente non c’era paragone, rappresentava settori importanti della classe operaia. Oggi invece c’è solo un generico voto d’opinione che non rappresenta nulla. C’è gente come me che vota Pd solo perchè lo vota da una vita».
Qual è la ricetta vincente del Carroccio?
«La Lega, come partito, ha una vera organizzazione. Ha perfino fatto dimenticare che Zaia era il vice di Galan, superando la catastrofe di quella classe dirigente. E Renzi? Neanche lui ragiona di autonomia e federalismo, temi sollevati e poi subito messi da parte da Bersani, D’Alema, Fassino. E d’altra parte è la vecchia classe dirigente ad aver prodotto Renzi».
Professore, nel Pd sarà scissione? E il governo rischia?
«Guardi, la sinistra non c’è. La lista Tsipras è sparita. Se Pastorino avesse preso il 20%, allora sarebbe stato un altro discorso, con la prospettiva che ipotizzava. Ma così no, cosa vuole che possa succedere? Assolutamente nulla».
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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