Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
CAMPI ROM VERRANNO SMANTELLATI E FAMIGLIE RICOLLOCATE IN ABITAZIONI…. ACCORDO SUL REALIZZARE HUB PER PROFUGHI, MA CON LA UE E’ TUTTO DA CHIARIRE
Un passo avanti sui campi rom. Sempre più soli e ancora divisi sull’emergenza immigrazione.
Il ministro Alfano vende via tweet l’accordo raggiunto nel pomeriggio al Viminale al tavolo con i sindaci sulla chiusura dei campi (“occorre smantellarli”) non certo con le ruspe come vorrebbe Salvini.
Ma resta in stallo sull’emergenza profughi, stretto tra il monito di papa Francesco (“perdono per chi chiude le porte a questa gente in cerca di una nuova famiglia”), la pressione che arriva dal territorio, dai comuni e dalle regioni, e le porte chiuse in faccia in Europa.
Se la riunione in serata al Viminale tra ministro dell’Interno, i sottosegretari Gian Claudio Bressa e Domenico Manzione, il prefetto Mario Morcone, sindaci e governatori doveva essere l’inizio di un nuovo accordo almeno nazionale dopo le tensioni dei giorni scorsi, sugli appunti di giornata restano qualche passo in avanti ma anche un nuovo rinvio.
Al consiglio europeo del 25 giugno e ad un nuovo incontro tra il premier e i governatori.
Non una bella notizia con 56 mila sbarchi dall’inizio dell’anno e tutta l’estate davanti. Una notizia, soprattutto, che ci fa essere sempre più bisognosi di quel Piano B muscolare e interventista che il premier Renzi tiene pronto se tutte le porte, europee ma anche quelle interne, dovessero chiudersi. Come si stanno chiudendo.
Cameron in visita all’Expo ha ribadito a Renzi il suo no alle quote nel Regno Unito, in cambio ci potrebbe dare intelligence e mezzi per bloccare gli sbarchi.
L’Ungheria pensa di alzare un muro alto quattro metri lungo il confine con la Serbia. Nella riunione al Viminale, quella successiva ai campi rom, il governatore Zaia ribadisce: “Ho già detto che in Veneto ci sono 3.966 immigrati. Basta, di più non possiamo”.
Persino la governatrice del Friuli Debora Serracchiani, vicepresidente del partito, ricorda al tavolo che nella contabilità di chi ospita chi, per quello che riguarda il Friuli vanno considerati “gli arrivi via terra” dai confini con Austria e Slovenia.
Giovanni Toti, abbronzato che neppure si riconosce, sembra un po’ più morbido rispetto ai leghisti e la mette così: “Le regioni collaborano ma il governo ci deve dire qual è il progetto per provare a fronteggiare questa emergenza”.
Dopo i chiaro-scuri della tornata elettorale, non c’è dubbio che palazzo Chigi ha messo il dossier sicurezza e immigrazione in cima all’agenda. Renzi e Alfano marciano separati sperando di colpire uniti. Di portare cioè in fretta a casa qualche risultato.
L’Europa pretende che l’Italia faccia quello che non ha mai fatto: hot spot, centri dove trattenere gli immigrati per identificarli. Bruxelles vuole che siano “chiusi”.
L’Italia non ci sta, non vuole centri che sono carceri dove centinaia di persone attendono un’identificazione che li bloccherebbe (per colpa del trattato di Dublino) in un paese dove non vogliono stare.
La mediazione raggiunta in serata (la riunione è finita alle 21 e 30) riguarda la costruzione di hub, luoghi di smistamento per i richiedenti asilo, in ogni regione.
I governatori portano a casa anche la promessa di “tempi più veloci per le procedure legate all’asilo” (adesso servono in media 215 giorni).
Una fonte del Viminale presente alle riunione si dichiara “soddisfatta” perchè in ogni caso “tutti i presenti, governatori e sindaci, hanno condiviso e ribadito il principio dell’accoglienza proporzionata”.
Sono già state assegnate le nuove quite, regione per regione. Tutti d’accordo, tranne i soliti tre, Zaia, l’assessore lombardo Baronale (Maroni non è venuto) e Toti, che con toni diversi continuano invece a puntare i piedi. Un incontro costruttivo, insomma, ma non risolutivo.
Il vero passo avanti Alfano lo porta a casa sul fronte rom.
Tutti i sindaci sono d’accordo sulla necessità di smantellare i campi rom, criminogeni di per sè. Piero Fassino, che è anche presidente dell’Anci, chiarisce che “non si tratta di prendere le ruspe come vorrebbe Salvini”.
Bensì di dare corso a una vecchia idea: un piano per separare i vari nuclei famigliari e poter così lavorare meglio sulla loro integrazione.
Chi ha reddito si procurerà una casa. Chi non ce l’ha, potrà beneficiare di un piano abitativo.
Sulla carta tutti d’accordo. Poi bisogna trovare i fondi.
“Il Governo – dice Fassino – si è fatto carico di predisporre un fondo apposito, sulla base del quale Comuni e prefetture metteranno in campo un programma di superamento dei campi a vantaggio di una soluzione più civile e più sicura dal punto di vista della legalità “.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
ELIMINATO NEL TESTO UN INCISO… IERI ANNULLATA LA CONDANNA DELL’EX SONDAGGISTA CRESPI
Quando il 1 aprile il falso in bilancio tornò di fatto nel codice penale a molti sembrò un successo.
Pena fino a 8 anni di carcere (più bassa solo di quella prevista negli Stati Uniti), eliminazione delle soglie quantitative (5% del risultato economico, 1% del patrimonio, 10% delle stime), introduzione della procedibilità d’ufficio anzichè a querela, e inclusione delle holding di controllo e le società che raccolgono risparmio. In realtà una legge più severa in teoria di fatto favorirà i truccatori di conti.
Almeno così si deduce da un verdetto della Cassazione sull’affaire Hdc e sull’ex sondaggista di Berlusconi, Luigi Crespi.
L’ex segretario del Pd Bersani parla di “buco pazzesco” e il senatore forzista Caliendo attacca ricordando che il suo emendamento era stato bocciato.
Non è la prima volta che il governo Renzi viene rimandato a settembre in tema di giustizia.
Era già successo con un’altra legge importante: quella sul voto di scambio politico mafioso che è diventata, secondo i supremi giudici, più difficile da dimostrare.
Gli allarmi inascoltati sul testo della legge
Sia prima che dopo l’approvazione al Senato, con voto contrario di Forza Italia, furono in molti a indicare un “errore” nel testo della norma sul falso in bilancio.
E anche il procuratore aggiunto di Milano, Francesco Greco, responsabile del Dipartimento reati finanziari, aveva criticato la legge.
Nel mirino era finita la frase “ancorchè oggetto di valutazioni” — eliminata dal testo precedente — che ha ottenuto il risultato di mettere in ombra i casi di falso in bilancio più difficili da scoprire, investigare e giudicare: che non sono quelli dove è evidente il falso ovvero la dichiarazione di quello che non si ha, ma sono i casi in cui si dichiara, per esempio, di possedere qualcosa stimato a un valore più alto rispetto alla realtà e che è quindi oggetti di valutazione.
“Magazzini, ammortamento dei crediti o stime immobiliari sono tipiche valutazioni, alle quali persino la deprecata legge Berlusconi — scrive Luigi Ferrarella oggi sul Corriere della Sera — conservava almeno un minimo di punibilità se si scostavano dalla realtà per più del 10%”.
Annullata la condanna all’ex sondaggista di Berlusconi
Oggi proprio sul quotidiano di via Solferino, che il 1 aprile aveva lanciato l’allarme sul testo, è riportata la notizia che sembra provare, in attesa del deposito della motivazioni del verdetto, che la norma favorirà in alcuni casi gli imputati.
La Cassazione ha annullato la condanna per bancarotta a 6 anni e 9 mesi dell’ex sondaggista di Berlusconi, Luigi Crespi, per l’affaire Hdc che in primo grado gli era costata una condanna a 7 anni in virtù della nuova legge.
Questo perchè la norma punisce chi, per conseguire un ingiusto profitto, “consapevolmente” espone solo “fatti materiali non rispondenti al vero“.
Mentre il testo di legge “berlusconiano” prevedeva la formulazione “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero” ma aveva come inciso “ancorchè oggetto di valutazioni“. Da parte del giudice.
La difesa di Crespi e degli altri imputati non ha fatto altro che sottoporre ai supremi giudici la questione: ovvero la non ammissione più delle “valutazioni” tra gli elementi che costituiscono il reato.
Gli ermellini hanno annullato quindi senza rinvio i segmenti di bancarotta del sondaggista riconducibili ai falsi in bilancio per valutazioni.
Cassati i 6 anni e 9 mesi a Crespi, i 4 al fratello Ambrogio e i 3 alla moglie.
Di fatto e per diritto quindi è passata in giudicato ed è quindi definitiva una sentenza monca e la pena dovrà essere ricalcolata in un nuovo processo di secondo grado che si baserà solo sui falsi in bilancio per fatti materiali.
Bersani: “Un buco pazzesco”, Ferranti: “Aspettiamo motivazioni”
La notizia non è passata inosservata. Il senatore forzista Giacomo Caliendo ricorda che il gruppo azzurro “sia in commissione che in Aula, presentò un emendamento a mia prima firma che inseriva proprio quattro parole “ancorchè oggetto di valutazioni” e, nonostante il ripetuto invito a tener conto di tale necessaria integrazione, l’emendamento, anche a causa del parere contrario del governo, non fu approvato con un risultato di 115 voti a favore, 116 contrari e 2 astenuti. Anche questa volta avevamo ragione”.
Durissimo anche l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani: “La Cassazione ha dimostrato che le nuove norme sul falso in bilancio hanno un buco pazzesco, che rischia di vanificare la stessa reintroduzione del reato e far sfumare processi su processi”.
Bersani chiede al governo di intervenire subito per una “correzione urgente” della nuova normativa. “Parliamo di cose concrete”, sollecita.
Getta acqua sul fuoco delle polemiche Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera: “Prima di lanciare allarmi, meglio sarebbe attendere e leggere le motivazioni della sentenza, che non mi risulta ancora depositata”.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
PIGNATONE: “CARMINATI AVEVA UN POTERE ENORME CON ALEMANNO, POI HA DOVUTO DELEGARE A BUZZI I RAPPORTI CON LA GIUNTA MARINO”
“Massimo Carminati ha avuto un potere enorme nella giunta Alemanno”. Poi, con il cambio di giunta in Campidoglio, il Cecato è uscito di scena “e l’organizzazione criminale ha delegato a Buzzi, forte dei suoi contatti politici trasversali, il tentativo di infiltrare la giunta Marino”.
Ma tra Alemanno e Marino, tra “il prima” e “il dopo”, la differenza sta in un articolo del codice penale.
“La procura ha circoscritto l’aggravante mafiosa contestando il 416 bis a precisi comportamenti e determinati personaggi. Poi c’era un sistema corruttivo dilagante con cui l’organizzazione Mafia Capitale ha cercato di fare affari costruendo un sistema di potere”.
Ma il sistema corruttivo è altra cosa rispetto all’organizzazione mafiosa.
“Si tratta di due momenti separati che in certi momenti sono coincisi”.
Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone parla per due ore davanti alla Commissione parlamentare sul fenomeno dell’immigrazione insediata all’inizio di maggio per cercare di fare luce sul fenomeno corruttivo che ha preso in ostaggio il sistema dell’accoglienza.
Alla fine di un’audizione rigorosamente secretata e di cui Huffpost ha ricostruito i passaggi più importanti, resta la sensazione che il procuratore, seppur incalzato dalle domande dei commissari, stia dando una mano al sindaco Marino che proprio ieri ha ricevuto un avviso di sfratto dal premier Renzi (“oltre che onesti bisogna anche dimostrare di essere capaci, cosa che Marino deve ancora fare”)…
La Commissione, presieduta da Gennaro Migliore (Pd) ha poteri di indagine (ha già acquisito numerosi atti sui centri di accoglienza) ma ha un mandato preciso: analizzare il fenomeno dell’immigrazione e il sistema di accoglienza.
Non è, quindi, la commissione antimafia.
Pignatone si è presentato con il sostituto procuratore Giuseppe Cascini, con Tescaroli, Ielo e l’aggiunto Prestipino il team di pm che stanno coordinando le indagini su Mafia Capitale.
“Non vi dirò una parola di più rispetto a quelle che trovate nell’ordinanza di custodia cautelare e nelle 35 mila pagine dell’inchiesta, tutto materiale già a disposizione delle parti” ha precisato il procuratore. E però si sa che a voce, di persona, tra una domanda e l’altra, due parole e un’espressione del volto valgono più di tante parole.
Tutta l’audizione si è sviluppata tenendo ferma e ribadendo una distinzione: la contestazione del 416 bis.
Sul Cara di Mineo Pignatone ha ad esempio declinato ogni dettaglio (“l’inchiesta è di Catania e del procuratore Salvi”) ma ha voluto precisare che “la procura di Roma arriva a Mineo seguendo i passi di Luca Odevaine, il suo ruolo di facilitatore tra l’amministrazione e i privati sul fronte dell’emergenza immigrati che con questi numeri è stata certamente redditizia”.
Ecco che Roma mette gli occhi sui centri immigrati di Mineo, ma anche su Castenuovo di Porto e su S. Giuliano di Puglia cercando di ricostruire “il sistema Odevaine”.
Sistema illegale, “corrotto e corruttivo”, nella parte in cui, ha ribadito il procuratore davanti ai commissari, “costruisce bandi su misura” come quello di Mineo che, per via della seconda cucina da campo nel raggio di 20 km dal centro, poteva essere vinto solo dal consorzio de La Cascina.
Ma anche un sistema legale perchè, come ha spiegato il pm Cascini, “le Associazioni temporanee d’impresa (ATI, ndr) sono consentite” ma quelle coinvolte in Mafia capitale erano nate per uccidere il mercato.
“Servivano — ha detto Cascini – a creare cartelli d’imprese tra soggetti altrimenti concorrenti che in questo modo si mettevano d’accordo, escludevano ogni competizione nel prezzo e lo tenevano bloccato”.
Una prassi illegale vestita legalmente che dovrebbe indurre il legislatore a riflettere.
Poi sono arrivate, inevitabili, le domande sulla giunta di Roma, il rischio delle infiltrazioni mafiose e il coinvolgimento o meno dello staff di Marino.
“Non chiedete a me, io sono un magistrato e non un politico”.
Il magistrato però ha riflettuto e fatto riflettere sul fatto che “Carminati, il cuore del sodalizio criminale, spadroneggia con Alemanno ma è costretto poi a passare la mano a Buzzi con l’arrivo di Marino in Campidoglio”.
Fonti della Commissione riferiscono che Pignatone avrebbe insistito sul fatto che “Mafia capitale ha l’apice della sua infiltrazione nell’amministrazione capitolina nell’era Alemanno”.
L’ex sindaco amico di gioventù di Panzironi e degli altri dirigenti da lui nominati a capo di varie partecipate, è infatti indagato per concorso esterno in associazione mafiosa.
E con lui altre 17 persone nessuna delle quali però è stata nominata da Marino. Un’amministrazione, sarebbe la conclusione, vittima di una corruzione dilagante ma non mafiosa.
La parola di Pignatone sarà decisiva nella riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica che a fine luglio dovrà decidere se chiedere o meno lo scioglimento di Roma per mafia.
Quello di oggi assomiglia molto ad un assist. “Non possiamo escludere che ci siano ulteriori sviluppi di indagine “ commenta a fine seduta il presidente Migliore.
“L’organizzazione Mafia Capitale ha fatto il suo salto di qualità nell’amministrazione tra il 2011 e il 2012, in concomitanza con l’emergenza nordafrica. E — conclude Migliore — intorno alla parola emergenza si è costituito e sviluppato un sistema mafioso assai ramificato”.
Domani la Commissione ha convocato il prefetto Gabrielli, da ieri alle prese con le oltre mille pagine della relazione scritta dalla Commissione d’accesso e che daranno semaforo rosso o verde per lo scioglimento. Il 30 giugno sarà la volta di Marino.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
JOBS ACT: CONTROLLO A DISTANZA, ACCESSO A DATI E CONVERSAZIONI ANCHE SUI DISPOSITIVI PERSONALI DEL DIPENDENTE SE LI USA PER LAVORO… MONITORAGGIO DEGLI SPOSTAMENTI…IL GIUSLAVORISTA: “RISCHIO DI INCOSTITUZIONALITA'”
Computer, tablet, smartphone e badge.
Con il Jobs act, tutti questi strumenti di lavoro potranno essere controllati dall’azienda senza un precedente accordo sindacale.
E sulla base dei dati raccolti, l’impresa potrà prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dei dipendenti.
Si tratta di una delle novità più delicate previste dal decreto semplificazioni della riforma del lavoro, approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri l’11 giugno.
Anche se nei giorni scorsi il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha provato a minimizzare, la norma è destinata a far discutere, visto che siamo sul filo dell’invasione della privacy.
Non solo: gli addetti ai lavori non hanno dubbi sul fatto che presenti profili di incostituzionalità . “La norma riguarda sia i dispositivi forniti dal datore del lavoro, sia quelli di proprietà del lavoratore che l’impresa gli chiede di portare in azienda, nei limiti in cui sono usati per lavorare”, precisa Maria Teresa Salimbeni, avvocato giuslavorista e docente di diritto del lavoro all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.
E se il lavoratore sarà sorpreso a usare questi strumenti per fini non lavorativi, potrà essere sottoposto a sanzioni.
Il decreto, che è ora all’esame del Parlamento e a cui il governo dovrà poi dare il via libera definitivo, modifica l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, quello sui controlli a distanza in ambito lavorativo.
Non ci sono grosse novità per quanto riguarda l’installazione di “impianti audiovisivi“, ovvero le telecamere, per i quali servono ancora l’accordo sindacale o l’autorizzazione da parte del ministero del Lavoro.
Discorso diverso per “gli strumenti che servono al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”, cioè pc, tablet e smartphone, e gli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”, cioè i badge.
In questo caso il datore di lavoro potrà controllare i dispositivi senza fare accordi con le organizzazioni sindacali.
Ma in tutto questo che fine fa la privacy?
“L’azienda potrebbe venire a conoscenza di dati sensibili del lavoratore — spiega l’avvocato — ma non potrà utilizzare il contenuto della comunicazione personale a fini disciplinari”.
Il datore di lavoro potrà quindi, per esempio, accedere alle conversazioni via mail.
Magra consolazione il fatto che non possa poi appellarsi a quello che legge per sanzionare il dipendente.
A difesa del lavoratore, infatti, c’è il Codice della privacy, che il datore di lavoro è tenuto a seguire, secondo espressa indicazione del decreto.
Un’altra garanzia a favore del dipendente è l’informativa che l’azienda dovrà fornire al personale per metterlo al corrente dei controlli, come ricordato nei giorni scorsi anche da Poletti.
“Servirà una policy aziendale, un regolamento preventivo — spiega la giuslavorista — dove l’azienda dovrà indicare cosa il lavoratore può fare e non può fare e se e come sarà controllato dall’impresa”.
Ma nonostante queste tutele, secondo la giuslavorista, un punto del decreto mette comunque a rischio la riservatezza del lavoratore: si tratta della parte che riguarda i badge aziendali.
La premessa è che bisogna fare una distinzione tra gli strumenti che registrano ingresso e uscita dal lavoro e quelli che segnalano i movimenti all’interno dell’azienda.
“Liberalizzare il controllo sui tesserini con cui si entra e si esce è legittimo, perchè permette di tenere traccia degli orari di lavoro — spiega Salimbeni — Ma esistono anche impianti attraverso i quali si possono monitorare gli spostamenti del lavoratore all’interno del perimetro aziendale. Questo controllo più invasivo violerebbe il diritto alla riservatezza e alla libertà del lavoratore che discende dai principi costituzionali“.
In particolare l’articolo 2 della Carta, che tutela i diritti inviolabili dell’uomo.
In questo caso, la docente ipotizza un eccesso di delega, cioè uno sforamento rispetto ai criteri fissati dalla legge approvata a dicembre: potrebbero quindi partire ricorsi per rilevare l’incostituzionalità del provvedimento.
A questi punti critici se ne aggiunge un altro, che riguarda gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti in vigore dal 7 marzo.
“Se il datore di lavoro — spiega Salimbeni — licenzia un dipendente che è entrato per soli due minuti su Facebook, il licenziamento sarà illegittimo, ma il datore può comunque tenere fuori il lavoratore dall’azienda e pagargli solo un’indennità , senza reintegrarlo a lavoro”.
Il relativo decreto del Jobs act, infatti, ha previsto che il giudice del lavoro, in caso di licenziamenti disciplinari, non possa valutare la gravità del fatto commesso, ma debba limitarsi a verificarne la sussistenza.
E il combinato con il nuovo provvedimento può dare questo effetto: ogni infrazione a livello disciplinare, anche se gli accordi della contrattazione la identificano come poco grave, può dare luogo a un licenziamento senza possibilità di reintegra.
Stefano De Agostini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
IL TWEET SU “SPAZZATURA, TOPO E CLANDESTINI” CORRISPONDE AL SUO PENSIERO… CANCELLARLO NON SERVE PER CHI SA COME LA PENSA: MA IL SUO ELETTORATO E’ DIVERSO DA LUI
Passo falso di Beppe Grillo su twitter.
Prima accosta “spazzatura, topi e clandestini”.
Poi, dopo una marea di attacchi e critiche, cancella il tweet e riformula.
Ma la toppa è peggio del buco. “Elezioni per Roma il prima possibile! Prima che la città venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai clandestini Marino dimettiti”.
Il cinguettio è diventato subito bersaglio di accese critiche. Per l’uso della parola “clandestini”, che richiama molto i toni xenofobi utilizzati dalla Lega Nord.
Ma soprattutto per l’accostamento dei migranti alla “spazzatura e ai topi” che sommergeranno la Capitale, a detta del leader del Movimento 5 Stelle
Ma il tweet incriminato, ad un tratto, scompare.
Non ce n’è più traccia se non negli screenshot dei tantissimi utenti del social network che lo hanno immortalato, a futura memoria.
“Caro @beppe_grillo, mettere sullo stesso piano i topi e i clandestini vuol dire regalare le parole alla barbarie… “, scrive il leader di Sel Nichi Vendola.
Grillo riformula il suo pensiero: “#MarinoDimettititi prima che Roma venga sommersa dai topi, dalla spazzatura e dai campi dei clandestini gestiti dalla mafia”.
La verità è che Grillo la pensa proprio come nel suo primo post che gli è “scappato” di mano. Ma non ha capito che il suo elettorato non la pensa come lui.
Resta il fatto che come il M5S acquista consensi, ci pensa lui a farlo tornare indietro.
E, lo diciamo da tempo, non è mai una casualità .
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
MALUMORI IN FORZA ITALIA: GLI ACCORDI ERANO TRE POLTRONE A TESTA, MA C’E’ CHI E’ IN CRISI DI ASTINENZA
Il Gabibbo bianco ci ha preso gusto: scendere da Novi Ligure e vedere il mare non solo nei fine settimana, per chi era abituato a fare due passi in via Girardengo è una occasione da non perdere.
Se Parigi val bene una messa, ammirare piazza De Ferrari dal palazzo della Regione val bene indossare la canottiera padana a prova ascellare di Dove.
E Toti sa che deve accontentare truppe fameliche, soprattutto chi è da anni in crisi di astinenza dalla greppia del potere e che, anche negli anni del governo Berlusconi, masticava amaro nel vedere Belsito maramaldeggiare nel partito, parcheggiare la Porsche Cayenne negli spazi riservati della Questura e far pedinare giornalisti scomodi.
Hanno provato a lenire il dolore pasteggiando a ostriche e champagne al cafè de Turin di Nizza, a chiedere rimborsi Viacard quando erano in tutt’altro luogo, si sono fatti rimborsare decine di pranzi, cene e viaggi in locali turistiche, ma non è la stessa cosa che essere assessori.
Ora qualcuno finirà sotto processo per peculato ma prima della sentenza di primo grado, volete mettere due anni da leoni ?
Ed ecco l’assalto al miracolato Toti che in realtà non ha vinto, se non perchè hanno perso gli altri.
Il Gabibbo bianco di Mediaset ha prima tentato di far aumentare di tre unità i consiglieri per accontentare chi preme alla porta.
Gli è andata giustamente male e ora ha soli sette assessorati a disposizione.
L’accordo era tre alla Lega, tre a Forza Italia e uno ad Area Popolare, ma dato che contano gli ideali gli alleati non si accontentano.
Ora la Lega ne vuole 5 su 7, Fdi 1 e Area Popolare 1.
E in Forza Italia rischiano di trovarsi con un pugno di mosche e iniziano i nervosismi.
Le ultime sono un indagato leghista per peculato alle Infrastutture (è il massimo della garanzia), un altro indagato leghista per peculato alla presidenza del Consiglio regionale, un sindaco leghista di un paesino sperduto di 319 abitanti all’Urbanistica, due tecnici di area leghista alla sanità e al bilancio (così si procede a passo spedito a favore dei privati), una collaboratrice di Maroni alla vicepresidenza.
Gli altri posti liberi sarebbero così assegnati: il welfare a Forza Italia, mentre per il turismo chi meglio di un milanese di Fratelli d’Italia che la Liguria la visita da turista?
Dimenticavamo: Ilario Cavo resterebbe a terra, ma Toti le ha garantito un posto nel suo staff.
Magari si fa fare una felpa dal fornitore di Salvini con la scritta “staff”, basta accontentarsi nella vita.
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
IN OCCASIONE DELL’INCONTRO CON GROVER NORQUIST, IL LEADER DEI CONSERVATORI E RIFORMISTI HA ILLUSTRATO LE PROPOSTE FISCALI DEL NUOVO MOVIMENTO… “PRIMARIE NON SOLO SUI CANDIDATI, MA ANCHE SUL PROGRAMMA”
Raffaele Fitto, leader dei Conservatori e Riformisti, in occasione dell’incontro pubblico a Roma con il guru antitasse Grover Norquist, leader di Americans for tax reform, che al grido di “Non aumentare mai le tasse” ha creato un movimento che ha coivolto molti candidati presidenti repubblicani, ha colto l’occasione per illustrare il progetto dei Conservatori e Riformisti in campo fiscale.
Ed è tornato su vecchio cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi: la tassazione sulla prima casa, che per Fitto va abolita.
Il leader pugliese ha fatto notare che “il binomio Tasi+Imu ha di fatto superato nel gettito la tassazione immobiliare a suo tempo prevista dal Governo Monti: Renzi supera Monti del 7% e abbiamo fondati timori che il nome cambierà (local tax) ma che il gettito tenderà ancora ad aumentare battendo ogni tipo di record.”
L’abolizione della tassazione sulla prima casa, secondo Fitto, potrebbe trovare copertua nel taglio degli acquisti di beni e servizi della Pa.
Sempre sul piano del taglio della tassazione il movimento di Fitto chiede la riduzione di due punti di Iva ed entro tre anni l’abolizione dell’Irap.
Fitto ha ribadito che, per quanto riguarda il centrodestra, occorre una partecipazione dal basso per la selezione delle candidature e della classe dirigente.
Anche le alleanze vanno scelte sulla base di proposte e non di accordi elettorali mordi e fuggi: «sono i contenuti che devono mettere insieme le posizioni politiche, servono quindi le primarie per scegliere i programmi e le primarie per scegliere i candidati»
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
COMUNQUE HA RAGIONE, NON MERITA IL PERDONO: PAGHERA’ TUTTO
“Vi invito tutti a chiedere perdono per le persone e le istituzioni che chiudono la porta a questa gente che cerca vita, una famiglia, che cerca di essere custodita”.
Questo l’appello lanciato da Papa Francesco per la Giornata dei rifugiati, che si celebra sabato 20 giugno.
“Sabato prossimo – ha ricordato il Pontefice – ricorre la Giornata mondiale del rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite”.
“Preghiamo – ha esortato il Papa rivolto ai fedeli presenti in piazza San Pietro – per tanti fratelli e sorelle che cercando rifugio lontano dalla loro terra, che cercano una casa dove poter vivere senza timore, perchè siano sempre rispettati nella loro dignità “.
“Incoraggio – ha scandito Bergoglio – l’opera di quanti portano loro un aiuto e auspico che la comunità internazionale agisca in maniera concorde ed efficace per prevenire le cause delle migrazioni forzate”.
Non poteva mancare la replica del clandestino padagno Salvini che dalla omonima radio ha ruttato che “noi non abbiamo bisogno di essere perdonati”.
Poi con la solita originalità ha chiesto “”Quanti rifugiati ci sono in Vaticano?”, commettendo un patetico autogol, visto le migliaia di migranti e senzatetto italiani che vengono assistiti quotidianamente dalle strutture religiose nel nostro Paese.
Peccato che il clandestino Salvini non abbia mai risposto a una nostra domanda: quanti poveri indigenti di pura razza padagna ospita lui a casa sua?
Quanti soldi, dei 150.000 euro che guadagna da parlamentare europeo, devolve ogni anno ai poveri italiani?
Comunque su una cosa concordiamo: non ha bisogno del perdono del Papa.
Verrà il giorno che pagherà tutto.
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Giugno 17th, 2015 Riccardo Fucile
LA MINACCIA DI RENZI SI TRAMUTA IN UN PETARDO BAGNATO… IL PREMIER STA SOLO USANDO ARMI DI DISTRAZIONE DI MASSA
Il Patto della PlayStation tra i due Matteo del Pd si schianta sul Campidoglio. Quell’immagine del segretario e del presidente dem seduti uno a fianco all’altro a giocare in attesa del voto delle regionali è stata scattata poco più di due settimane fa al Nazareno.
Ma l’improvvisa sterzata del premier contro il sindaco di Roma Ignazio Marino, senza aver neppure avvertito Orfini preventivamente, sta dividendo seriamente i due Matteo. Orfini da dicembre è stato scelto da Renzi come commissario del Pd romano, ha sempre difeso Marino come “baluardo contro mafia e malaffare”, in accordo col premier-segretario, e ora non ha alcuna intenzione di fare retromarcia, cancellando questi sette mesi di lavoro spesi per “rigenerare il Pd romano”.
Non è solo una questione di puntiglio.
Orfini, per la prima volta da molti mesi, non condivide la linea di Renzi.
E così coglie l’occasione della conferenza stampa per presentare la festa dell’Unità di Roma che parte il 18 giugno e durerà fino a fine luglio — una durata monstrum – per sottoporsi volentieri al fuoco di fila domande dei cronisti.
Il commissario elogia il lavoro svolto in questi mesi anche dal Campidoglio (“Piano di rientro chiuso con un anno di anticipo”), poi ricorda che Marino “sarà assolutamente ancora sindaco” il 21 giugno, quando è prevista la sua serata alla festa Pd.
Poi ricorda al premier “quello che anche lui ha sostenuto in tutti questi mesi” e cioè che “Marino e Zingaretti sono un baluardo contro le mafie”.
E anche un altro punto non irrilevante: “Stiamo tutti fronteggiando una campagna contro la destra e il M5s che chiedono le dimissioni del sindaco, una richiesta ir-ri-ce-vi-bi-le”.
Il tono resta monocorde, ma i contenuti col passare dei minuti si fanno sempre più affilati.
Sintomo di un fastidio covato per tutta la giornata di martedì e per tutta la notte.
“Da Renzi è arrivato uno stimolo a fare di più? Bene, dopo aver fermato questa campagna di delegittimazione e dopo che sarà stato escluso lo scioglimento del Comune, ci porremo il tema di un salto di qualità dell’amministrazione. Non solo Ignazio, ma nessuno di noi sarà tranquillo finchè non si saranno risolti tutti i problemi della città ”.
Nel momento più duro per Renzi, con la buona scuola a rischio di saltare e la minoranza bersaniana che vive da mesi nel Pd da separata in casa, Orfini mette sul tavolo tutto il peso del sostegno che finora ha garantito al premier-segretario.
E infila una frase durissima: “Marino non va via perchè lo dice il presidente del Consiglio, è stato scelto dagli elettori Pd con le primarie e poi dal voto degli elettori romani. Il suo dovere è quello di governare”.
Orfini insiste, toccando uno dei talloni d’Achille di Renzi, la mancata legittimazione elettorale: “Il Pd non molla il sindaco. E se il segretario gli chiede se se la sente di andare avanti, io credo che questa sfida vada raccolta”.
Una difesa totale, il commissario si pone come scudo umano a difesa del sindaco chirurgo.
Dopo queste parole, se Renzi insisterà dovrà anche mettere in conto le dimissioni di Orfini da commissario.
E il salto verso il voto a Roma con un Pd ancora più nel caos. Senza contare il risvolto politico nazionale di una rottura con Orfini e con la sua area dei Turchi che, fino ad ora, ha garantito una copertura a sinistra al renzismo.
Nella testa di chi ha ascoltato il presidente dem restano le parole “richiesta irricevibile”, accostate alla richiesta di dimissioni del sindaco.
Una risposta apparentemente diretta ai grillini e alle altre opposizioni, ma in realtà diretta a palazzo Chigi.
Orfini infatti rimanda al mittente la richiesta di un cambio di passo della giunta “entro una settimana”.
E rimanda questo “salto di qualità ”, che passerebbe anche da un nuovo e ancor più radicale rimpasto, “a quando sarà chiaro che avremo fermato questa campagna di delegittimazione e scongiurato il commissariamento del Comune”.
Di rimpasto, del resto, ce n’è già stato uno nello scorso dicembre, con l’ingresso in giunta del magistrato Alfonso Sabella come assessore alla Legalità .
E’ l’unico nome citato da Orfini. Per ribadire che ora non c’è spazio per i dubbi e soprattutto per il fuoco amico.
In Campidoglio, le parole del commissario arrivano come un toccasana.
E del resto Marino, a dimettersi non ci ha pensato neppure per un istante. E stavolta la minaccia di Renzi rischia di trasformarsi in un petardo bagnato.
(da “Huffingtonpost“)
argomento: Partito Democratico, Roma | Commenta »