Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
UNA GUIDA PER CAPIRE LA CRISI
Da molte settimane si parla di “giornate decisive” per la crisi greca.
Ma “decisive” per cosa? La Grecia sta fallendo? Di che cosa stanno discutendo Atene e l’Europa? Perchè la questione interessa anche gli altri Paesi?
La Grecia non ha più soldi ed è fortemente indebitata con l’Europa e il Fondo Monetario Internazionale.
Il governo di Tsipras ha detto di non volere accettare nuove misure di austerità in cambio di finanziamenti. Ma senza queste risorse il Paese rischia il fallimento.
La trattativa riguarda la possibilità di ricevere fondi senza dovere applicare alcune di queste misure, come aumenti di tasse e tagli delle pensioni. Questo accordo va trovato entro il 30 giugno
SOLDI IN CAMBIO DI RIFORME
La trattativa riguarda la possibilità di incassare 7,2 miliardi di euro.
Chi paga?
La famosa Troika: Bce, Fondo Monetario e Commissione Europea. Oggi ribattezzata Brussels Group
Sono tanti, sono pochi?
Sono pochi. Oltre alle spese ordinarie che il paese affronta ogni mese, e a cui riesce appena a fare fronte con gli incassi che arrivano dal gettito fiscale e da altre entrate, Atene deve pagare 1,6 miliardi al Fondo Monetario a giugno e 6,7 miliardi a luglio e Agosto alla Bce. Le risorse, senza un nuovo accordo, non servirebbero nemmeno a ripagare questi debiti. Anche per questo in molti hanno ipotizzato già la necessità di mettere a punto un nuovo piano di salvataggio.
La Grecia ha bisogno di soldi dalla Troika per ripagare la Troika?
Per certi versi, sì. Ue, Bce e Fmi non si comportano diversamente da un normale creditore, che pur di non perdere il proprio credito è disposto a concedere un nuovo prestito in cambio di un rimborso immediato di quanto dovuto.
Nella speranza che le condizioni future del Paese permettano alla Grecia di saldare i propri debiti.
In realtà l’eventuale esborso da 7,2 miliardi alla fine del mese, e le relative misure di contenimento della spesa, dovrebbero consentire alla Grecia — almeno nelle intenzioni — di avere un po’ di respiro, rianimando così — questa è la speranza di Atene — l’economia ellenica.
LE TAPPE
Il 30 giugno è l’ultimo giorno utile per pagare una rata da 1,5 miliardi al Fondo Monetario Internazionale che già include tutti i mancati pagamenti del mese.
Non pagare significa per Atene mettersi in una situazione quasi inedita nei confronti della comunità finanziaria internazionale, dichiarando di fatto di non essere un creditore affidabile.
Inoltre il 30 giugno è anche l’ultimo giorno utile stabilito nell’accordo sottoscritto a febbraio per trovare un’intesa sulle riforme da adottare in cambio dei finanziamenti necessari per Atene.
Che cosa succede il 1 luglio?
Non esiste una risposta da manuale perchè tutti in questo momento hanno l’interesse di evitare che non si raggiunga un accordo. Bisogna quindi separare le diverse questioni. Da una parte le conseguenze per la Grecia, dall’altra quelle per gli altri Paesi.
Cosa succede il primo luglio per la Grecia
A meno di nuove proroghe, con il mancato pagamento al Fmi la Grecia interromperebbe il proprio rapporto con i creditori.
Il Fondo Monetario Internazionale darebbe il via ad un iter che porterebbe a dichiarare il Paese ufficialmente in default, cioè fallito.
In termini concreti non ci sarebbero cambiamenti immediati sulla vita dei cittadini greci. Ma è prevedibile innanzitutto che i titoli bancari greci registrino un calo molto pesante affondando la Borsa di Atene.
Sì, ma cosa cambia concretamente?
La conseguenza principale per la Grecia potrebbe arrivare dalle mosse della Banca Centrale Europea.
Fino ad oggi la Bce ha fornito della liquidità di emergenza alle banche elleniche, che si stavano progressivamente svuotando a causa delle corsa agli sportelli da parte dei cittadini.
L’azione della Bce equivale a versare dell’acqua in un contenitore bucato sul fondo. Nel momento in cui la Bce interrompesse questa iniezione, le banche rischierebbero di svuotarsi rapidamente.
Non pagando il 30 giugno e rompendo il proprio rapporto con i creditori è prevedibile che la Bce cessi di erogare la liquidità di emergenza, mettendo a rischio la tenuta del sistema bancario ellenico.
In questo caso, la conseguenza sarebbe molto pesante sulla vita dei greci. I cittadini si recherebbero agli sportelli per ritirare i propri depositi in euro, temendo un possibile fallimento degli istituti di credito.
È questo lo scenario peggiore di tutti, e che di fatto costringerebbe il governo ad un controllo parziale o totale ai capitali. Significa, in concreto, non avere completo accesso ai propri depositi custoditi nelle banche ed essere costretti, ad esempio, a potere ritirare dai propri conti una quota limitata dei propri risparmi.
Se la situazione non dovesse sbloccarsi, alcuni analisti hanno ipotizzato che il controllo dei capitali possa scattare anche prima del 30 giugno.
Allora la Grecia uscirebbe dall’Euro?
Non è scontato. Anche in questo caso, non essendoci precedenti, non è automatico cosa possa accadere ad Atene. Quel che è certo è che la permanenza della Grecia nell’euro è legata all’assistenza finanziaria della Banca Centrale Europea.
Senza risorse proprie e con le banche a secco per la Grecia diventerebbe sempre più inevitabile ricorrere a un’altra moneta, almeno per potere fronteggiare le proprie spese interne.
Sarebbe di fatto un abbandono della moneta unica, e quindi un’uscita dal sistema dell’euro.
Ci siamo. La Grecia esce dall’Euro, che cosa cambia per l’Europa?
La composizione attuale del debito greco è completamente diverso rispetto a quella di quattro anni fa. Allora la maggior parte era in mano ai privati, con una quota rilevante nelle banche europee, prevalentemente francesi e tedesche.
Un default in quel momento avrebbe comportato pesanti ripercussioni sulle economie del continente.
Il debito greco è invece oggi in mano prevalentemente di investitori istituzionali: i Paesi europei, direttamente o tramite il fondo salva stati Esm, la Bce e il Fmi.
Anche nel peggiore degli scenari possibili, quello di un’uscita della Grecia dall’Euro, è impensabile immaginare che Atene ripudi integralmente il proprio debito.
Il presidente dell’Eurupgruppo Jeroen Dijsselbloem l’ha ripetuto negli ultimi giorni: “Anche lasciando l’Eurozona il debito resta”. Atene potrebbe, invece, cercare di ottenere una ristrutturazione del debito stesso.
È il famoso taglio del debito che Atene chiede?
Non per forza. Ristrutturare il debito può significare tagliare l’importo delle somme che Atene deve ai Paesi europee, posticiparne le scadenze, oppure rinegoziare la quota e i tempi di pagamento degli interessi.
Questa discussione però riguarda un passaggio successivo della trattativa di questi giorni.
Riassumendo: se la Grecia fallisce l’Italia perderà per sempre i soldi che ha prestato alla Grecia?
No. Potrebbe vederne tornare indietro solo una parte, o incassarli più avanti nel tempo o rinunciare a una parte degli interessi.
Non è questo però il pericolo principale. Il vero rischio riguarda le possibili turbolenze che un possibile default potrebbe causare sulle borse europee.
Quindi ci sono rischi per l’Europa?
Pur con tutti gli strumenti di cui la Bce si è dotata, è difficile che sia in grado di contenere completamente il possibile contagio sui mercati europei.
Anche se la situazione è migliore di due anni fa, lo scenario del default di un Paese e la prima uscita di uno Stato dall’Euro potrebbero avere conseguenze impreviste.
Il messaggio che per la prima volta si manderebbe alla comunità finanziaria internazionale sarebbe: l’Euro non è più un blocco indistruttibile e può perdere pezzi per strada.
Lo stesso Mario Draghi, che più di tutti in questi mesi ha avuto un ruolo decisivo nel sostenere Atene, ha affermato che con l’uscita della Grecia dall’Euro “entreremmo in un terreno inesplorato”.
(da “Huffingtonpost“)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
MANCANO ACCORDI CON BANGLADESH, SENEGAL, COSTA D’AVORIO, GHANA, SUDAN E MALI… NON SI POSSONO FARE CAMPI IN LIBIA NELL’ATTUALE SITUAZIONE E NEANCHE OBBLIGARE LE NAVI MILITARI UE A NON SBARCARE IN ITALIA
Sui profughi, l’incontenibile fretta di alcuni politici nel far parlare di sè sta producendo pericolose bolle di illusioni.
Rimpatri veloci o di massa delle persone sbarcate in Italia, ad esempio, sono irrealizzabili; così come l’installazione di campi per trattenere i migranti in Libia.
Nè si possono obbligare le navi che soccorrono barconi carichi di profughi a portarli nello Stato del quale battono bandiera le navi stesse.
Su profughi e migranti l’incontenibile fretta di alcuni dirigenti politici nel dichiarare o nel far parlare di sè sui mezzi di informazione sta shakerando la logica, produce bolle di illusioni e un proliferare di obiettivi impossibili.
Rimpatri veloci o di massa delle persone sbarcate in Italia sono attualmente irrealizzabili, innanzitutto per mancanza del numero necessario di accordi per la riammissione degli espatriati nei rispettivi Paesi di origine.
Per avere un’idea, l’Italia non ha questo tipo di intese con il Bangladesh, il Senegal, la Costa d’Avorio, il Ghana, il Sudan, il Mali.
Stipulare accordi di riammissione costa soldi – fondi e crediti per convincere le controparti – e tempo per negoziarli.
Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, lunedì, ne ha firmato uno con la Macedonia. Le trattative erano state aperte dalle autorità di polizia nel 2009.
Un pressappochismo dettato, in proporzioni ardue da distinguere, da malafede e pigrizia mentale sta trascurando dati di fatto.
Diritto internazionale e civiltà impongono di valutare le richieste di asilo di stranieri provenienti da terre in guerra e di possibili perseguitati.
Gli sbarcati non possono essere rimandati indietro come palline da ping pong.
In una delle parti del Sud che più fa arrivare povera gente da noi, il Corno d’Africa, l’Eritrea è una bellicosa patria della tortura. In Siria è in corso una guerra.
Senza sottovalutare i disagi di quegli italiani – di loro, non di noi tutti – a diretto contatto con flussi diretti verso Nord e incagliatisi, non sarebbe male nei dibattiti politici e nelle chiacchierate televisive tenere presenti le dimensioni del fenomeno del quale si parla.
Dal 1° gennaio al 16 giugno 2014 in Italia sono arrivati per vie irregolari 57.624 stranieri.
I rimpatriati sono stati 15.726. Non proprio pochi.
Quest’anno, fino al 16 giugno gli arrivi sono stati 52.237.
I rimpatri, al 31 maggio, 6.036.
Oltre a politici italiani, anche Regno Unito e Francia premono per rimpatri veloci. Tutto è migliorabile, comunque per eseguirli in genere si impiegano aerei.
Significa che non si può imbottire un jet di linea di possibili ribelli o dividere i posti di un charter metà per i respinti e metà per agenti tenuti a impedire sommosse volanti.
Tra le ipotesi in circolazione brilla quella di installare in Libia campi per trattenere i migranti diretti in Italia e di selezionare lì i richiedenti asilo.
Peccato che in Libia manchino di fatto uno Stato, un governo (ce n’è più d’uno) e che il Paese non abbia mai ratificato le convenzioni dell’Onu sui rifugiati.
E se nazioni europee non vogliono gli stranieri entrati in Europa dall’Italia, e tre presidenti di Regioni neppure, quale elisir potrebbe convincere un Paese africano di transito a sobbarcarsi oneri destinati a Stati tappa successiva nei viaggi?
Perfino la Tunisia, collaborando, non ha mai preso in considerazione campi del genere
Curiosa un’altra trovata (virtuale): obbligare le navi che soccorrono imbarcazioni cariche di stranieri a portarli nello Stato del quale battono bandiera le navi stesse.
Se sono militari, il coordinamento della missione Triton è italiano.
Principio internazionale è portare gli scampati ai naufragi nel porto sicuro più vicino. Quindi in Italia o nella piccola Malta.
E se i soccorritori fossero civili? Un peschereccio giapponese sbarcherebbe i profughi in Giappone? Tanti equipaggi lascerebbero affondare più disgraziati di adesso.
I viaggi di povera gente dal Sud verso l’Italia non sono un fenomeno passeggero. Sono una caratteristica dei nostri tempi.
«Il problema dell’immigrazione non va risolto», ha osservato con realismo il ministro Gentiloni, sottolineando che «la grande divergenza dei prossimi dieci-venti anni è quella del divario economico e demografico tra Europa e Africa».
Sul problema dell’immigrazione ha constatato: «Va gestito». È indispensabile. Non nascondiamoci però che già gestirlo – incanalarlo, distribuirlo – è un obiettivo ambizioso.
Maurizio Caprara
(da “Il Corriere dela Sera”)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
ALLE REGIONALI HA VOTATO SOLO IL 54% DEGLI ELETTORI, SCESI AL 47% AL BALLOTTAGGIO DELLE COMUNALI
Uno vince, l’altro perde.
Ma c’è un partito che a ogni elezione si gonfia: il non partito del non voto.
I numeri dell’astensionismo elettorale ormai surclassano la Dc dei tempi d’oro, pur senza ottenerne in cambio seggi e ministeri.
Difatti alle Politiche del 2013 gli astenuti erano già il primo partito, con 11 milioni di tessere fantasma.
Alle Europee del 2014 l’affluenza si è fermata al 58%, in calo di 8 punti rispetto alle consultazioni precedenti.
Alle Regionali del 2015 un altro salto all’indietro: 54%, ma sotto la metà degli elettori in Toscana e nelle Marche.
Infine i ballottaggi delle Comunali, con il sorpasso degli astenuti (53%) sui votanti.
Questo fenomeno cade per lo più sotto silenzio. Qualche dichiarazione preoccupata, qualche pensoso monito quando si chiudono le urne; ma tre ore dopo i partiti sono già impegnati nella conta degli sconfitti e dei vincenti.
È un errore, perchè qualsiasi maggioranza rappresenta ormai una minoranza.
Ed è miope la rimozione del problema. Vero, gli astensionisti non determinano il risultato elettorale.
Però se l’onda diventa una marea, significa che esprime un sentimento: d’indifferenza, nel migliore dei casi; d’avversione, nel peggiore.
E il sentimento dai partiti si riversa sulle stesse istituzioni, le sommerge come durante un’alluvione.
La questione, dunque, interroga la democrazia, anzi la pone davanti a un paradosso. Perchè la democrazia è un sistema dove si contano le teste, invece di tagliarle. Il suo fondamento sta nella regola di maggioranza.
E allora la democrazia entra in contraddizione con se stessa, quando nega agli astenuti ogni influenza, benchè essi siano la maggioranza del corpo elettorale.
Di più: tradisce la propria vocazione.
Perchè la democrazia è inclusiva, accoglie pure le opinioni radicali. Tuttavia con il popolo degli astenuti diventa esclusiva, respingente.
Anche a costo di rinchiudersi in una casa vuota: la democrazia disabitata.
C’è modo di riannodare questo filo? Non imponendo l’obbligo del voto.
Funzionava così nel dopoguerra, quando gli astensionisti dovevano giustificarsi presso il sindaco, e per sovrapprezzo beccavano una nota nel certificato di buona condotta; ma il rimedio sarebbe peggiore del male, offenderebbe i principi liberali.
Non è una buona soluzione nemmeno quella escogitata in Francia nel 1919: se non vota almeno la metà del corpo elettorale, le elezioni si ripetono.
Con questi chiari di luna, rischieremmo di votare ogni domenica. Però la via d’uscita c’è, e oltretutto procurerebbe un risparmio di poltrone.
Va alle urne il 50% degli elettori? Allora dimezzo il numero dei parlamentari.
E ne dimezzo altresì le competenze, trasferendole ai Comuni, se per avventura il voto cittadino risulta più attraente di quello nazionale.
In caso contrario apro ai referendum sulle decisioni del sindaco, per supplire alla sua scarsa legittimazione.
Un’idea bislacca? Fino a un certo punto.
Nella Repubblica di Weimar si guadagnava un seggio ogni 60 mila voti validi; e il medesimo sistema fu riproposto in Austria nel 1970.
Anche in Italia, fino al 1963, le Camere esponevano numeri variabili in base alla popolazione complessiva; mentre c’è tutt’oggi un quorum per la validità dei referendum.
L’alternativa, d’altronde, è una democrazia senza linfa vitale, perchè il non voto ne sta essiccando le radici.
Per salvarla da se stessa, qui e ora, serve un lampo di fantasia istituzionale.
Michele Ainis
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
IL SINDACATO ANIEF: “IL DECRETO PER LE ASSUNZIONI C’E’ GIA'”
Class action, ricorsi singoli, manifestazioni. L’Anief è uno dei sindacati più giovani e agguerriti nella difesa dei diritti dei precari: il suo presidente Marcello Pacifico, annuncia una battaglia ancora più dura da oggi in poi
Matteo Renzi sostiene di voler assumere, in realtà . Se le immissioni non dovessero esserci la colpa sarebbe delle opposizioni.
«Il governo ha illuso i precari per dieci mesi. Ci sono persone che hanno fatto scelte di vita sulla base delle sue promesse e delle parole scritte nella riforma. Il ddl ha superato l’esame di una Camera, sempre sulla base di annunci sembrava tutto fatto e ora si scopre che le assunzioni non sono più possibili? Ma che cosa pensa Renzi? Che la scuola sia sua? La scuola è di tutto il Paese, di tutti i cittadini»
Il premier ha detto che se si è convinto di aver ragione ma si ha l’opinione pubblica contro si organizza una conferenza nazionale per raccontare la propria proposta, si ascoltano le critiche e, quindi, si decide.
«Il Governo deve capire che farebbe meglio a emanare in fretta il decreto legge per autorizzare le 150 mila assunzioni nella scuola previste e già finanziato da sei mesi. Dal 23 dicembre 2014, una legge dello Stato autorizza l’assunzione di 150 mila precari della scuola inseriti nelle Graduatoria ad esaurimento e nelle Graduatorie di merito. E lo stesso Governo italiano aveva informato la Commissione Europea di stare per approvare un piano straordinario di assunzione dei precari per rispondere alle procedure d’infrazione in corso, aggravate dalla sentenza della Corte di giustizia europea del 26 novembre scorso. Ci sono 50mila posti liberi certificati, a cui aggiungere l’assegnazione di altri 50 mila posti in organico funzionale alle scuole, in base allo scorrimento delle graduatorie -, per approvare un semplice decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri. E cominciare a fare quello che ci dice l’Europa e lo stesso Parlamento italiano».
E se le assunzioni venissero bloccate?
«Citeremo la Presidenza del Consiglio non davanti al Tar questa volta ma chiederemo risarcimenti milionari al tribunale civile di Roma. E siamo pronti a offrire patrocinio gratuito per tutti i precari traditi dal Governo. Sarà la più grande class action contro lo Stato italiano».
(da “La Stampa“)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
RAPPORTO GIOVANI 2015: IL PROFILO DI CHI LASCIA IL NOSTRO PAESE
Chi sono i nuovi emigranti italiani? I giovani del Sud.
Ed in particolare quelli che hanno un grado di istruzione a livello di laurea o di diploma. Vera e propria nuova grande fuga dei “cervelli” che si materializza in un preoccupante 84,4% di ragazzi e ragazze in età da lavoro nati nelle regioni meridionali, ma pronti a trasferirsi ovunque pur di trovare una occupazione stabile.
Se le offerte arrivano dall’estero tanto meglio.
Dell’84,4 per cento disposto a partire, oltre il 50% dichiara di voler trasferirsi stabilmente all’estero per migliorare il proprio lavoro.
Ma non è neppure snobbato il resto del nostro paese: infatti, il 34,2% prenderebbe maggiormente in considerazione anche lo spostarsi all’interno della penisola.
E’ quanto emerge dallo speciale focus sul mondo giovanile meridionale del Rapporto Giovani 2015: indagine promossa ed elaborata, in un campione di 5000 giovani tra i 19 e i 32 anni di qualsiasi orientamento socio-politico e religioso, dall’Istituto Giuseppe Toniolo presieduto dal cardinale di Milano Angelo Scola, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo.
“Per i giovani del Sud — commenta il professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica Sociale dell’Università Cattolica di Milano e tra i curatori del Rapporto Giovani – risulta molto più drastica la decisione tra rimanere, ma doversi accontentare a rivedere al ribasso le proprie aspettative lavorative e i propri obiettivi di vita, o invece andarsene altrove. Solo il 16% è infatti indisponibile a trasferirsi. Se però in passato come destinazione prevaleva il Nord Italia, ora più della metà degli under 30 meridionali punta a un possibile volo direttamente all’estero. A progettare di andarsene sono ancor più i laureati e gli studenti, mentre i più rassegnati a rimanere sono i Neet, ovvero i giovani che non studiano e non lavorano”.
E questo significa che la disponibilità delle fasce giovanili meridionali ad emigrare per poter lavorare “tende ad impoverire non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente — avverte Rosina – la presenza dei giovani nel territorio di origine”.
Ed infatti dal sondaggio emerge che in particolare il 73% di chi ha solo la scuola dell’obbligo è disposto a trasferirsi stabilmente (in Italia o all’estero), mentre la percentuale dei laureati sale all’86%.
Mentre solo il 43% di chi ha titolo di studio “basso” è pronto ad andare all’estero.
La decisione di spostarsi dei giovani del Sud è legata non solo alle minori opportunità di trovare lavoro (la quota di giovani che non studiano e non lavorano è superiore al 35% in molte regioni del Sud contro meno del 20% al Nord), ma anche alla più bassa qualità e soddisfazione per vari aspetti del lavoro svolto.
Chi rimane nel Sud anche trovando lavoro, si trova maggiormente a doversi adattare a svolgere una attività non pienamente in linea con le proprie aspettative.
Se la soddisfazione sull’aspetto relazione è solo leggermente più bassa rispetto al resto del Paese, i divari sulla stabilità del lavoro e sul guadagno sono più marcati. In generale circa un giovane meridionale su tre non è soddisfatto del lavoro che svolge conto uno su quattro nel Nord.
Un motivo per andarsene è anche la bassa fiducia nelle istituzioni e in particolare nella possibilità che la politica locale sia in grado di migliorare le condizioni di vita e lavoro dei cittadini. La fiducia nelle istituzioni locali (comune e regione) è pari al 23% per i giovani italiani in generale, mentre scende al 17% per i giovani del Sud.
Orazio la Rocca
(da “La Repubblica”)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
LA PATURZO ASSUNTA DALL’AGENZIA PER I BENI CONFISCATI ALLA MAFIA… LA CARLUCCIO, SENZA NEANCHE LA LAUREA, HA AVUTO DIECI CONSULENZE…IL PREFETTO CARUSO: “SECCANTE, SEGNALAZIONI ANCHE PER GLI INCARICHI DELL’EMERGENZA IMMIGRATI”… LE ANTICIPAZIONI DE “L’ESPRESSO”
Le due donne per le quali Roberto Maroni avrebbe chiesto, secondo la Procura di Milano, contratti di favore in Expo spa e in una partecipata di Regione Lombardia, hanno alle spalle una lunga carriera all’ombra del leader leghista, ricostruita da “l’Espresso” nel numero in edicola domani.
C’è Mariagrazia Paturzo, la giovane con cui Bobo avrebbe scambiato messaggini “a tutte le ore”, che nel 2010 viene assunta dall’Agenzia per i beni confiscati alla mafia, alla cui guida Maroni aveva appena nominato l’attuale capo dell’Immigrazione Mario Morcone.
Ma soprattutto c’è Mara Carluccio, salita nelle stanze del potere quando era ministro del Lavoro e che durante il suo mandato agli Interni, fra il 2008 e il 2011, colleziona ben dieci incarichi e poltrone, consulenze da 30mila euro l’anno e ruoli di prestigio, senza — stando al suo curriculum depositato agli atti — essere neppure laureata.
In quel periodo il ministro è ospite frequente a casa sua e del marito, Gioacchino Gabbuti, ex amministratore Atac che secondo la Procura di Roma proprio in quegli anni sottraeva fondi alla società capitolina per consulenze fittizie a San Marino.
Che Maroni a volte suggerisse segnalazioni preferenziali lo ricorda poi a “l’Espresso” il prefetto di Palermo Giuseppe Caruso, nel 2011 commissario straordinario per l’emergenza migranti: «Mi venne chiesto di arruolare due signore indicate dal ministro Maroni. Non ricordo come si chiamassero, ma quell’episodio mi diede un po’ fastidio: in quei giorni avevo un’emergenza da affrontare…»
Piero Messina e Francesca Sironi
(da “L’Espresso”)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
L’AMMINISTRAZIONE DI SELVAZZANO LE TOGLIE LE DELEGHE…COSA ASPETTA ALFANO A COMMISSARIARE E DENUNCIARE QUESTA FECCIA UMANA?
Aveva offerto la sua palazzina a 15 profughi africani, ma non aveva fatto i conti con il partito. Ora, Daniela Faggion, assessore comunale della Lega Nord a Selvazzano, in provincia di Padova, si è vista togliere le deleghe.
“Cacciata dalla giunta perchè ho dato casa ai profughi”, ha accusato Faggion, come riferisce oggi il quotidiano Il Mattino di Padova.
Da martedì 9 giugno, infatti, nella palazzina di via delle Cave 11 a Padova di proprietà dell’ex assessore all’Immigrazione di Selvazzano vivono 15 profughi africani arrivati da poco in città . Faggion ha, infatti, affittato tutti gli appartamenti del condominio alla cooperativa Populus, una delle tante a gestire l’emergenza profughi.
Un’iniziativa che non è affatto piaciuta ai vicini di casa.
Il fatto da subito ha scatenato perplessità e malumori tra i vicini e, in particolare, nel titolare dell’agenzia immobiliare che si trova al secondo piano del civico 11 e che ha manifestato la volontà di andarsene in seguito all’arrivo dei 15 africani.
Ma, soprattutto, la decisione di Faggion di aprire le porte della propria abitazione per ospitare i migranti ha aperto un caso nella Lega locale.
L’amministrazione di Selvazzano, a guida leghista, ha deciso di rimuovere le deleghe all’assessore.
Lunedì sera, nel frattempo, a Faggion sono state ritirate le deleghe.
“Io sono iscritta alla Lega Nord”, sottolinea. “Lunedì sera, prima della giunta, sono stata convocata dal sindaco che mi ha annunciato la mia sospensione dall’incarico di assessore. Quando sono arrivata ho visto gli altri assessori con dei musi lunghi come se avessi ucciso qualcuno, poi ho capito”.
Quanto alle spiegazioni date dal sindaco di Selvazzano, Enoch Soranzo, Faggion aggiunge: “Mi ha dato due motivi. Il primo perchè a gennaio non avrei rinnovato la tessera della Lega e quindi non risulterei più tra i sostenitori, il secondo perchè ho dato una mia proprietà ai profughi”.
Daniela Faggion, però, non ci crede e si difende.
Ha ancora la tessera del partito di Matteo Salvini, fa sapere, e quella tessera non è affatto scaduta. “E anche se lo fosse, non è assolutamente un motivo valido per sospendermi. L’unico motivo che ha portato al mio allontanamento è l’aver dato una mia proprietà ai profughi”. Eppure quella proprietà è privata e nemmeno si trova a Selvazzano.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
VENTIMIGLIA, POLIZIA CONTRO GERDAMERIE: “CI MANDANO ANCHE I MINORI E PERSONE MAI TRANSITATE IN ITALIA”
Finti maggiorenni e migranti mai transitati dall’Italia.
Nei giorni caldi dell’emergenza profughi a Ventimiglia, lungo il valico di frontiera di Ponte San Luigi, sale la tensione tra Gendarmerie francese e polizia.
Secondo gli agenti italiani e i volontari della Croce Rossa che stazionano sul confine, infatti, il governo di Parigi starebbe approfittando della situazione per provare a espellere in Italia anche extracomunitari minorenni (che per legge vanno ospitati nel Paese in cui vengono fermati) e clandestini di dubbia provenienza: “Ci rimandano di tutto, stanno ripulendo la Francia”, si sfoga un volontario lontano dalle telecamere.
La Ue: no a nuovi muri
“In Europa sono stati recentemente abbattuti dei muri, non abbiamo bisogno di costruirne di nuovi”.
Lo afferma Natasha Bertaud, portavoce del Commissario Ue per l’Immigrazione Avramopoulos, commentando l’annuncio di Budapest della costruzione di un muro anti-immigrati tra Ungheria e Serbia.
Ramadan sulla scogliera.
E’ passata un’altra notte sulla scogliera di Ponte San Ludovico dove si trovano i cento migranti che protestano contro la chiusura della frontiera con la Francia.
Oggi è il primo giorno di Ramadan – in molti pregano sulle rocce rivolti verso la Mecca – e la Croce Rossa si sta preparando per affrontare la giornata nella quale le persone di religione musulmana non potranno nè bere nè mangiare fino al tramonto. La presenza delle forze dell’ordine è molto limitata questa mattina e si è fortemente ridotta rispetto ai giorni scorsi.
In forze invece il dispositivo della gendarmerie francese.
C’è sempre più silenzio, al confine tra Italia e Francia. Non è come le altre mattine: oggi inizia il Ramadan e i migranti accampati sugli scogli, in protesta e nella speranza che la Francia apra finalmente la frontiera, non berranno nè mangeranno fino al tramonto.
Niente consuete chiacchiere con volontari e giornalisti, niente coda davanti al gazebo della Croce Rossa: il cibo portato dai volontari oggi è rimasto dov’era.
E ora, con il sole che scalda sin dalle 8 e la giornata più afosa da quando sono accampati qui, si teme per la salute dei profughi.
L’acqua la usano solo per lavare mani e piedi, e mettersi a pregare o leggere il Corano. Stanno all’ombra, rannicchiati, i corpi coperti con i lenzuoli: e gli scogli, visti così, sono un mondo ancora più triste dei giorni scorsi.
“Cerchiamo di risparmiare le forze perchè abbiamo le batterie scariche dopo sei giorni qui – racconta Saddam Ahamed, del Sudan – Ma non vogliamo cedere e mangiare. Non abbiamo bisogno del cibo: abbiamo bisogno di passare il confine e continuare il nostro viaggio”.
“Ieri a pranzo – spiega Fiammetta Cogliolo, responsabile della Croce Rossa ligure – abbiamo distribuito circa 700 pasti tra la stazione ferroviaria e la zona di Ponte San Ludovico. In serata, invece, hanno cenato poco più di 200 persone: questo non perchè il loro numero sia diminuito ma perchè almeno in 400, secondo le nostre stime, hanno iniziato ad osservare il Ramadan, il digiuno dall’alba al tramonto. Da oggi tutti i volontari, non solo della Croce Rossa ma anche della Caritas e delle altre associazioni presenti, si attiveranno, anche su più turni, per differenziare gli orari di distribuzione dei pasti per i cristiani e per i musulmani osservanti, in modo che questi ultimi trovino cibo e acqua negli orari in cui è loro consentito riprendere a bere e mangiare”.
“La situazione più delicata, naturalmente – prosegue Fiammetta Cogliolo – riguarda il gruppo, un centinaio in tutto, da sei giorni sugli scogli dei Balzi Rossi, a pochi metri dalla frontiera. Bisognerà vedere, con il caldo torrido e le condizioni igieniche precarie, quanti riusciranno a reggere il digiuno”.
Dal punto di vista sanitario, poi, “ieri sono state effettuate una sessantina di visite mediche – aggiunge la responsabile della Croce Rossa ligure – nei due ambulatori mobili posizionati uno alla stazione e l’altro a bordo di un’ambulanza nella zona di ponte san Ludovico, al confine”
Come tutte le notti in molti prima dell’alba hanno abbandonato la zona della scogliera cercando di raggiungere Ventimiglia e di attraversare il confine con i treni con i treni o con i passeur, ovvero che coloro che facendosi offrire tra i 50 e i 100 euro li nascondono dentro i bagagliai della loro automobile.
I respinti vanno alla stazione.
Oltre 120 migranti sono stati trasferiti ieri sera dalla Francia all’Italia alla frontiera di Ponte San Luigi alla stazione di Ventimiglia.
Il dato, aggiornato alle 22 di ieri sera, è stato fornito stamani dalla Croce Rossa, che con il suo pullman li ha trasferiti dal confine alla stazione.
Il centro di prima assistenza organizzato dal Comune di Ventimiglia nella stazione ferroviaria ospita ad oggi oltre 300 immigrati.La giornata prevede oggi, a Ventimiglia, l’apertura della nuova struttura organizzata dal comune in un edificio delle Fs che ospitava il dopolavoro ferroviario.
Lì saranno ospitati 70 tra donne e bambini e avranno a disposizione bagni, docce e letti e potranno così lasciare i saloni fatiscenti dove finora si sono accampati.
Donatella Alfonso e Giulia Destefanis
(da “La Repubblica“)
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Giugno 18th, 2015 Riccardo Fucile
ORA TUTTO POTREBBE FINIRE IN PROCURA
Bocciatura definitiva per Oscar Farinetti: la presenza in Expo, senza gara, della sua Eataly non ha convinto l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone, malgrado la poderosa difesa messa in campo dal commissario dell’Esposizione, Giuseppe Sala.
“Non ritenendo del tutto soddisfacenti le spiegazioni ricevute”, scrive Cantone, “si valuterà se richiedere ulteriori precisazioni o intraprendere altre iniziative”.
Tra queste, potrebbe esserci la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica di Milano.
Tutto è cominciato con gli articoli del Fatto Quotidiano che nel settembre 2014 hanno cominciato a chiedere come mai “il più grande ristorante del mondo” fosse stato concesso a Farinetti senza gara.
Lo spazio Eataly dentro Expo è composto da due “stecche” di 8mila metri quadrati in cui funzionano 20 ristoranti, uno per regione italiana, in cui si danno il cambio 120 ristoratori: scelti da Farinetti, a suo insindacabile giudizio
Sugli incassi, l’imprenditore gira una royalty del 5 per cento a Expo, che prevede un ricavo netto di 1,2 milioni di euro.
“Basta con i gufi di Expo”, aveva dichiarato allora Farinetti. “I visitatori saranno almeno 30 milioni, un terzo dei quali stranieri. Sarà l’occasione di fare uno scatto e raddoppiare esportazioni e turismo”.
In attesa che le promesse si avverino, l’Anac chiede spiegazioni a Sala sull’appalto senza gara.
Le era arrivato anche un esposto presentato da un operatore del settore, Pietro Sassone, presidente di Icif (Italian Culinary Institute for Foreigners).
Sala ha difeso a spada tratta la sua scelta, non senza qualche ridondanza lessicale: in un entusiastico documento datato 1 giugno 2015, il commissario sostiene che Eataly è un “primario player nella ristorazione di qualità e il più grande centro enogastronomico del mondo: un modello originale in cui i prodotti di alta qualità della tradizione agroalimentare italiana si consumano e si studiano”.
Vanta inoltre “una presenza internazionale, con 23 punti vendita aperti e 13 in apertura entro il 2015”.
Eataly, scrive Sala, “presenta elementi di unicità che lo rendono l’unico soggetto che può rispondere alle esigenze di Expo”: grazie alla “riconoscibilità mondiale del brand come italianità e alimentazione di qualità a prezzi accessibili a tutti”; alla “capacità di attrazione di visitatori”; alla “filosofia distintiva basata sulla convinzione che il ‘buon cibo’ avvicina le persone, crea comunione tra i diversi strati sociali, aiuta a trovare punti di vista comuni tra gente di diverso pensiero”; e alla “offerta di education e entertainment”, con i suoi corsi di educazione alimentare e di cucina, degustazioni, incontri con le grandi cantine eccetera”.
Insomma, “il tratto distintivo e originale dell’offerta di Eataly, illustrato nella seduta del consiglio d’amministrazione del 18 giugno 2013, è rappresentato dal format unico ideato da Eataly che coniuga servizi di ristorazione innovativi, educazione alimentare, didattica e formazione professionale”.
Un PR expottimista non avrebbe saputo dire meglio.
Ma non ha convinto Cantone, che risponde secco: “Questa Autorità riscontra i chiarimenti afferenti alla procedura esaminata reputando, tuttavia, scarsamente condivisibili talune motivazioni illustrate nella nota in riferimento”.
I dubbi riguardano due punti.
Uno: le spiegazioni fornite sul perchè Expo spa “si è sottratta alla previa gara, prevista”, “sebbene senza effetto”, dalle norme peraltro richiamate nel consiglio d’amministrazione del 18 giugno 2013.
Due: la mancanza di spiegazioni sui contratti che Expo “avrebbe sottoscritto con le Camere di commercio”.
Si tratta degli accordi raccontati da un altro articolo del Fatto nell’aprile 2015, secondo cui Farinetti gestirebbe anche l’esposizione nei suoi padiglioni di prodotti (olio, salumi, formaggi, dolci eccetera), chiedendo alle aziende produttrici di pagargli 750 euro più iva per due giorni di presenza nelle sue “vetrine espositive”.
Si tratterebbe di una stravagante procedura in cui un privato si fa pagare per concedere uno spazio pubblico.
Gianni Barbacetto
(da “il Fatto Quotidiano”)
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