Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
IL CASO VENEZIA, LA SINISTRA E I PENTITI DEL DOPPIO TURNO
I sistemi elettorali fanno la differenza. Questa è la lezione della recente consultazione amministrativa.
Se per il sindaco di Venezia si fosse votato con il sistema elettorale in vigore nella maggior parte delle regioni , e cioè un sistema maggioritario a un turno, avrebbe forse vinto Felice Casson.
Non è certo perchè con un sistema elettorale diverso sarebbe stata probabilmente diversa anche l’offerta politica.
A Venezia la Lega Nord ha presentato al primo turno un suo candidato. Forse non lo avrebbe fatto con un turno unico e quindi i leghisti che hanno votato Luigi Brugnaro al secondo turno lo avrebbero forse fatto già al primo
Ma se ipotizziamo che l’offerta politica non sarebbe cambiata, magari per l’indisponibilità della Lega Nord a convergere su un candidato comune del centro-destra, la conclusione è che con il suo 38 per cento Casson avrebbe vinto, come ha fatto con una percentuale inferiore Toti in Liguria dove si è votato in un colpo solo.
Il punto però è che Casson non sarebbe stato il candidato complessivamente più gradito dagli elettori veneziani.
Avrebbe vinto perchè rappresentava la maggioranza relativa più ampia ma non era il candidato con la maggioranza assoluta dei voti, e cioè quella maggioranza che comprende sia le prime che le seconde preferenze degli elettori veneziani.
È il secondo turno che ha evidenziato tutto ciò. Quindi, è “giusto” dal punto di vista della legittimità democratica che a Venezia abbia vinto Brugnaro perchè è complessivamente il candidato più gradito alla maggioranza degli elettori di quella città .
In Umbria alle regionali è successo il contrario.
Lì ha vinto Catiuscia Marini, candidata del Pd. Ha vinto perchè si è votato con un sistema elettorale a un turno.
E così con il suo 42,8% dei voti l’ha spuntata su Claudio Ricci del centro-destra che ne ha presi il 39,3 per cento.
Ma la Marini non è la candidata più gradita dagli elettori umbri. Questa è la convinzione di chi scrive. Se si fosse votato con il sistema elettorale dei comuni, e quindi se la Marini fosse andata al ballottaggio contro Ricci, non avrebbe vinto perchè non sarebbe stata capace di allargare i suoi consensi.
Secondo turno vuol dire seconde preferenze.
Per vincere al secondo turno devi essere in grado di riportare a votare i tuoi elettori e trovarne di nuovi. I nuovi sono quegli elettori il cui candidato preferito in assoluto non è in corsa al ballottaggio ma che sono disponibili a esprimere una seconda preferenza con il loro secondo voto.
Ma per avere queste seconde preferenze la Marini avrebbe dovuto essere una candidata con un gradimento più largo di quello della sua base elettorale di riferimento. E la Marini non lo è. Come Casson a Venezia.
Quindi, non è “giusto” che abbia vinto lei. Avrebbe dovuto vincere Ricci. Cosa che sarebbe successa con un sistema a due turni.
Come d’altronde, proprio grazie al ballottaggio, è successo a Perugia l’anno scorso.
E proprio il caso di Perugia, e i timori della Marini e della sua base, spiegano perchè quando la regione umbra ha deciso di cambiare il sistema elettorale ha preferito non introdurre il doppio turno come invece ha fatto la Toscana.
E adesso veniamo all’Italicum e ai ”pentiti del ballottaggio”.
Le riflessioni fatte sopra servono a far capire perchè oggi tanti , e in primis la minoranza Pd, chiedono a gran voce l’affossamento dell’Italicum.
Con questo sistema elettorale i Casson e i Marini sono destinati a perdere. Con l’Italicum il 30% di voti che può raccogliere un centro-sinistra unito non basta per vincere.
Per vincere occorre avere candidati che sappiano conquistare le seconde preferenze di elettori che non appartengono alla sinistra.
Occorre avere candidati che siano capaci di uscire dagli steccati.
Certo, è difficile per la sinistra accettare una cosa simile. Sarà dura accettare di votare al secondo turno Renzi in un eventuale scontro con un candidato del M5s. Ma questa è la democrazia.
Così come sarà dura per la sinistra francese decidere nel 2017 se votare al secondo turno Sarkozy per impedire la vittoria di Marine Le Pen o restare a casa.
Il che porta a pensare che sia un vero peccato che in Liguria non si sia votato con un sistema a due turni.
Sarebbe stato interessante vedere se gli elettori di Pastorino sarebbero andati a votare per la Paita per non far vincere Toti o se sarebbero rimasti a casa. Il test è solo rimandato.
Un ultimo pensiero va ai sostenitori della tesi del gigante e dei tanti cespugli.
Adesso si scopre che il gigante non è più un gigante e che i cespugli sono diventati una foresta.
Fuor di metafora, il Pd non sembra più quel competitore dominante di cui si paventava l’egemonia incontestata per decenni e i cespugli non sono più quella accozzaglia di nanetti incapaci di sfidare il gigante.
Improvvisamente tutto torna in discussione. E le prossime elezioni, quando ci saranno, cominciano a far paura perchè forse saranno più competitive e più incerte del previsto.
E che male c’è ?
Roberto D’Alimonte
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
MA QUESTA VOLTA VORREBBE TRATTARE DA SOLO CON RENZI
Silvio Berlusconi sta pensando di tornare a collaborare con Renzi.
Non ha ancora deciso, e a chi glielo chiede, in questi ultimi giorni, risponde che è più sul no che sul sì.
Ma questo, appunto, porta a scommettere che alla fine si lascerà tentare.
Lo spingono a farlo, nell’ordine: amici e collaboratori di peso come Fedele Confalonieri e Gianni Letta, convinti che non ci sia altro da fare che riannodare il filo con il governo.
L’alternativa è finire sotto il tacco di Salvini, dal momento che una rondine – e nello specifico una Liguria e un Toti – non fa primavera.
Silvio ascolta e rimugina, ma continua a ripetere che con Renzi è finita.
A trattenerlo dal riavvicinamento con quello che a un certo punto aveva considerato suo erede, infatti, è innanzitutto una questione personale.
Si è sentito preso in giro già ai tempi del Nazareno, quando il testo dell’accordo cambiava continuamente, e sulla legge elettorale – pur votata da Berlusconi fino al penultimo passaggio in Senato – furono imposte ben 17 modifiche, tutte o quasi contro gli interessi del centrodestra.
L’ex-Cav. decise di salvare lo stesso l’accordo, sperando che la contropartita sarebbe arrivata sul Quirinale; ma poi andò come si sa.
Dunque, d’ora in poi, mai più fidarsi.
Eppure – e qui, sottovoce, il ragionamento si fa intrigante -, se la trattativa dovesse riaprirsi malgrado tutto, ad esempio per approvare le riforme istituzionali, appese a una maggioranza al Senato assai ballerina, dopo la rottura con Forza Italia, Berlusconi sarebbe anche disposto a vedere le carte.
Ma a condizione di condurre il negoziato in prima persona, senza più affidarsi a Verdini, il perno del patto del Nazareno.
Non è solo questione di fiducia venuta meno (l’ex-Cav. ritiene che il senatore fiorentino si sia fatto prendere la mano dall’amico Matteo), ma di manico.
Uscito vittorioso e con le casse familiari rimpinguate dalla cessione del Milan, un affare gestito in prima persona e concluso salvando anche la presidenza del club, Berlusconi è sempre più convinto di non avere rivali quando si siede a un tavolo a trattare.
A Renzi, per cominciare, vorrebbe strappare cambiamenti significativi della riforma del Senato e la garanzia che la legislatura arriverà per davvero fino al 2018.
Ma se chiude gli occhi e ricomincia a sognare, come fa nei suoi momenti migliori, Silvio, con Matteo, sarebbe disposto a rifare un governo di larghe intese: l’unico, non si stanca di ripetere, in grado di affrontare la tempesta che incombe sull’Italia.
Marcello Sorgi
(da “Il Corriere della Sera”)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
RINUNCIA ANCHE IL SEGRETARIO GENERALE ZAMPETTI…E UNA VILLA A CASTEL PORZIANO SARA’ DATA PER LE VACANZE AI DISABILI
Finestre sbarrate. Sono quelle del palazzo di via della Dataria, la salita che congiunge Fontana di Trevi alla piazza del Quirinale.
Un palazzo enorme dalla facciata cinquecentesca, con uno splendido cortile all’interno e confinante con le Scuderie del Quirinale, dove si trovano gli appartamenti dei consiglieri del presidente della Repubblica.
Quegli appartamenti sono stati abitati, con tanto di guardaportone in livrea e carabiniere di servizio all’ingresso e zona rimozione anti bomba per tutto il perimetro dell’immobile, fino a quando era presidente Giorgio Napolitano.
Ma da quando al Quirinale è arrivato Sergio Mattarella, quegli appartamenti sono rimasti praticamente vuoti, e di conseguenza le finestre sono sbarrate.
Nessuno dei consiglieri del nuovo Capo dello Stato, infatti, è andato a vivere negli appartamenti di servizio, preferendo restare nelle loro residenze private a Roma.
Una scelta di sobrietà assoluta, quella dei consiglieri di Mattarella, in linea con la cifra “monastica”, e comunque poco incline agli sfarzi ed ai pennacchi, del nuovo inquilino del Colle.
A rinunciare all’appartamento di servizio è stato anche il segretario generale Ugo Zampetti, la cui casa privata, dove vive da sempre con la famiglia, si trova peraltro a pochi passi dal Quirinale. Zampetti, da sempre allergico alle “case blu” (a Montecitorio nessuno ricorda di averlo mai visto entrare nel piccolo pied a terre con terrazzino a lui riservato all’ultimo piano del palazzo quando era segretario generale della Camera) ha rinunciato anche alla villa che gli toccherebbe in ragione del suo incarico nella tenuta presidenziale di Castel Porziano.
Villa che sarà offerta ai disabili che, per volere di Mattarella, trascorreranno le vacanze estive proprio a Castel Porziano, un’immensa oasi naturalistica finora inaccessibile a chi non facesse parte dell’inner circle quirinalizio.
Roberto Grazioli |
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
“NON MI FARO’ TRASFORMARE IN UN’ICONA”
Il Geometra guarda il mare e diventa serio.
«Non è un vezzo. Mi firmo così, ogni tanto, perchè questo sono. Un geometra. Misuro le cose e lo spazio. Guardi cosa tengo in tasca: un metro. Misuro tutto. Anche a occhio».
Quant’è lunga quella borsa?
«Trentacinque centimetri».
Controllo. Esatto.
Vorrei chiedere a Renzo Piano di Expo (dove non c’è) e di Milano (dove c’è poco), ma l’uomo è impossibile da intervistare: bisogna lasciarlo scendere, come un slalomista, e mettergli un paletto ogni tanto.
L’età , il successo, perfino questo posto sulle scogliere di Ponente – il più bel luogo di lavoro che io abbia mia visto – lo portano a guardare le cose dall’alto.
E dall’alto, diciamolo, tutto sembra un po’ più chiaro.
Si capisce, per esempio, che l’Italia va rammendata, a cominciare dalle periferie.
È l’impegno che Renzo Piano s’è preso dopo che l’hanno nominato senatore a vita, arruolando giovani architetti di talento e mettendoli al lavoro su alcune aree urbane.
«Bisogna andare a caccia dei buchi neri della città », spiega.
«Anche i centri storici hanno i loro problemi, ma ci abitano le persone psicologicamente appagate. Le periferie sono fabbriche di desideri. Bisogna trasformarle. Una trasformazione lenta e omeopatica, utilizzando le energie che contengono».
Le città sono mescolanze, ripete. Miscele di etnie, di età , di aspirazioni, di reddito.
Non bisogna concentrarsi su alcune parti e ignorarne altre.
«La bellezza focalizzata è un po’ snob, la bellezza diffusa è un’idea colta. Bisogna andare a caccia delle aree dismesse e fecondarle».
Quindi Expo non la entusiasma: è stato costruito sopra terreni agricoli.
«Chissà , forse è un’idea milanese costruirlo su terreno nuovo. A Genova siamo dell’idea di non buttare niente».
Da quarant’anni lei riempie il mondo del suo lavoro, e le città di simboli: il Beaubourg a Parigi, lo Shard a Londra, Potsdamer Platz a Berlino, l’edificio del New York Times e il nuovo Whitney Museum, appena inaugurato a Manhattan. In Italia la riqualificazione del porto antico di Genova, il lavoro sul Lingotto a Torino, l’auditorium Parco della Musica a Roma. Ma a Milano di lei c’è poco.
«Nessun rancore, nessuna amarezza. È andata così, non si può fare tutto. A una certa età ciò che ti tiene in vita non è quello che hai già fatto, ma quello che non hai ancora fatto. Anzi, non hai nemmeno pensato».
Ma a Milano, spiega, vuole bene. «Ci sono arrivato da ragazzo. Firenze era troppo bella, ti lasciava annichilito. Milano era imperfetta, quindi interessante. Negli anni Sessanta era la città del desiderio e quella era l’età dei sogni. Stavo a Lambrate. Vede? Periferia».
C’è chi evita le polemiche perchè le teme. E chi le evita perchè non gli interessano.
Il Geometra appartiene a questa categoria. Ogni tanto un lampo di impazienza gli passa negli occhi. «Bisogna essere concilianti, d’accordo. Ma alla fine uno si deve anche un po’ incazzare…».
«Bisogna fidarsi del terreno e della luce», ripete Renzo Piano ai suoi ragazzi di bottega.
Delle pubbliche autorità , pare di capire, bisogna fidarsi un po’ meno.
Non è chiaro, per esempio, se il progetto sul Giambellino, preparato dai quattro giovani professionisti guidati da due tutor (architetti Ermentini e Di Blasi), verrà adottato e porterà a qualcosa. Forse resterà solo un’ispirazione e una segnalazione: meglio di niente.
RPBW (Renzo Piano Building Workshop) scende verso il mare tra il verde, come un ricordo d’infanzia.
Dove gli altri avrebbero messo un ascensore, qui c’è una cremagliera con la cabina trasparente.
Cosa desidera, alla sua età ?
«I miei desideri mi provocano disordine, diceva un attore francese. Ma è un disordine che significa vitalità ».
Perchè lavora circondato da giovani, e ha deciso di usare l’appannaggio di senatore a vita per metterli al lavoro sulle periferie?
«Forse è senso di colpa. Non ho mai insegnato».
La generosità è una forma di potere?
«È tanto vero che non la chiamo generosità . Si dà e si prende».
E lei cosa prende?
«I ragazzi ti guardano con aria interrogativa: ti vergogni come un cane a raccontargli balle. Portano con sè questa forza: sono esigenti».
Il personaggio di un film dice: c’è una grande gioia nell’incoraggiare il talento.
«È così! Se uno di questi ragazzi ha un’idea interessante gioisco più che se l’avessi avuta io».
Il pericolo del successo?
«La sindrome del Wonderful!».
Scusi?
«Qualunque cosa fai, ti dicono “Wonderful!”, fantastico! E tu perdi l’occasione di ricevere una critica. A una certa età ti mettono in una teca: la gente arriva, si inginocchia e prosegue».
La cosa che le piace di più?
«Pensare. È un godimento fisico. Un orgasmo. Come il cibo e la vittoria».
Cosa avrebbe voluto diventare, il Geometra, se non fosse l’architetto italiano più amato nel mondo?
«Il trombettista. Forse per questo ho riempito i continenti di luoghi per la musica: Roma, Boston, Berlino. Sono un geometra-liutaio: misuro il suono».
La sua aspirazione?
«Sempre la stessa. Creare spazi dove la gente sta bene insieme».
Beppe Severgnini
(da “il Corriere della Sera“)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
SONO 5,5 MILIONI GLI ELETTORI DI DESTRA CHE NON VOTANO E ASPETTANO UN PARTITO DECENTE… GIA’ IN PARTENZA AVREBBE IL 20% DI CONSENSI…E BEN 18 MILIONI DI ITALIANI (IL 60% DEGLI ELETTORI) SI DEFINISCONO NON COLLOCABILI
Ne abbiamo già parlato, torniamo in argomento alla luce dei nuovi dati di Barometro Politico di giugno dell’Istituto Demopolis che confermano i mutamenti in seno all’area di Centro Destra.
Attualmente sono 9,5 milioni gli italiani che voterebbero i quattri partiti di area centrodestra, con queste percentuali: Lega 16% (4,3 mlioni di elettori), Forza Italia 11% ( 3 mlioni di elettori) Fdi 3,8% ( 1,1 milioni di elettori) Area popolare 3,5% (1 milione di elettori).
Per un totale di circa il 34%, quindi forza minoritaria.
La nota rilevante è che esistono 15 milioni di italiani che si collocano politicamente in questa area di centrodestra, il che vuol dire che 5,5 milioni di loro piuttosto che votare uno di questi quattro partiti se ne sta a casa.
Sono il maggiore partito di destra potenziale, in caso di elezioni prenderebbe senza colpo ferire il 20% dei voti.
Senza contare che un nuovo partito di destra “credibile” potrebbe aggregare consensi anche tra coloro che, turandosi il naso, oggi votano per quelli attuali.
Ma non basta.
Sono ben 18 milioni gli italiani che non si collocano da nessuna parte e sono pertanto recettivi potenzialmente a votare un “partito nuovo” e a cambiare quindi orientamento politico.
Un potenziale elettorale enorme del 60% che può decidere in qualsiasi momento vincitori e vinti, in base alla credibilità dei rispettivi programmi.
Ecco perchè ci fa sorridere chi oggi a destra (come a sinistra peraltro) si affanna per salire sul carro del presunto vincitore di turno, invece che costruire la “destra che non c’è”.
Quella che spazzerà via i quattro cazzari che oggi pensano di decidere le sorti del Paese e di spartirsi un’area che è molto più intelligente di loro.
Infatti li schifa e non li vota.
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
LA MEMORIA STORICA DEI FIGLI DI IMMIGRATI ITALIANI IN SVIZZERA: “ORA SOFFRIAMO QUANDO MALTRATTANO I MIGRANTI AFRICANI”
Si raggomitolavano dentro i cofani delle auto per superare il confine, si rinchiudevano dentro l’armadio quando la polizia bussava alle loro porte, restavano barricati in casa per mesi interi, senza vedere mai la luce del sole.
Non si affacciavano alla finestra per paura di essere visti, non potevano giocare, non potevano cantare, non potevano piangere a voce alta, non potevano andare all’ospedale, non potevano andare a scuola, non potevano far rumore dentro le loro case perchè rischiavano di essere scoperti, denunciati, espulsi.
Clandestini, così venivano chiamati i bambini italiani nella Svizzera degli anni Settanta, quando le leggi governative impedivano i ricongiungimenti familiari alle decine di migliaia di lavoratori stagionali italiani che andavano oltralpe per sbarcare il lunario. Muratori, operai, imbianchini, saldatori, agricoltori.
Migranti allo stato puro, lavoratori stagionali a cui era impedito portarsi dietro i figli (tranne nei mesi estivi), costretti a restare in Italia lontano dai propri genitori per moltissimo tempo.
Leggi severissime, quelle svizzere, trasgredite da almeno 15 mila italiani.
Portavano i loro figli in Svizzera clandestinamente, pur di non lasciarli da soli in Italia.
Li nascondevano nelle valigie per superare la frontiera, oppure nei bauli delle macchine, magari rannicchiati tra i ferri del motore.
Quarant’anni fa, i clandestini eravamo noi.
Braccia ruvide dedite al lavoro nei campi, nelle fabbriche, per le strade.
Spesso discriminati, emarginati dalle politiche, numeri più che uomini, accusati di rubare il lavoro agli svizzeri.
Qualcuno dormiva in baracche, altri si ammassavano negli appartamenti, dentro stanzoni fatiscenti e sovraffollati, tra materassi e valigie.
Baraccati, sporchi, nomadi.
«Eravamo i negri dell’epoca», racconta tristemente Renato, uno dei bambini cresciuti in clandestinità .
Gli italiani lavoravano dieci, dodici ore al giorno. E durante la giornata, i loro figli piccoli dovevano chiudersi in casa, senza fiatare.
«Avevo dieci anni, ero in casa e mi feci male al braccio — ricorda Egidio Stigliano, oggi over 50 —. L’ospedale era vietato, mi avrebbero scoperto, così mio padre inventò un’ingessatura rudimentale».
I segni di quell’ingessatura sono visibili ancora oggi, lungo quel braccio invalido e ricurvo che si piega malamente.
«È doloroso ricordare il passato, ma spero che la mia storia possa contribuire a migliorare le condizioni di chi è clandestino oggi», racconta Catia Porri, cresciuta a Zurigo in una stretta mansarda di periferia.
«Attraversai il confine pigiata nel cofano nell’Alfa Romeo di mio padre, avevo il terrore che mi scoprissero. Al confine sentivo i poliziotti svizzeri che urlavano minacciosamente agli italiani: “Avete bambini?”».
Poi l’adolescenza claustrale, chiusa in 30 metri quadrati.
«Restavo tutto il giorno a letto, senza camminare perchè il pavimento scricchiolava e i vicini si sarebbero potuti accorgere della mia presenza.
Per fare i bisogni, anzichè andare in bagno, utilizzavo un vaso da notte».
E poi c’è Rosa, un’altra bambina italiana che ha trascorso l’infanzia nascosta in due stanze insieme agli otto fratelli: «Ci arrangiavamo in quel poco spazio, testa e piedi incastrate per riuscire a dormire».
Fino a quando furono scoperti dalla polizia: «Ci caricarono tutti sul treno e ci rispedirono in Italia».
Le storie dei bambini italiani clandestini sono state raccolte dalla scrittrice Marina Frigerio nel libro «Bambini Proibiti».
Lei è psicoterapeuta infantile e nel corso degli anni Settanta ha assistito numerosi piccoli italiani: «L’infanzia in clandestinità li ha segnati, hanno sviluppato difficoltà nel linguaggio perchè non parlavano mai con nessuno. Molti hanno tutt’ora disturbi del sonno, quando erano clandestini avevano attacchi di panico durante la notte. Altri hanno sviluppato un senso di inferiorità e qualcuno soffre di solitudine».
Un’infanzia nascosta che li ha segnati per sempre, che oggi torna a galla quando accendono la televisione: «Quando sento accuse gratuite verso i clandestini africani — racconta Egidio Stigliano — mi fa veramente male, perchè quelle ingiurie le ho subite sulla mia pelle. Noi italiani abbiamo la memoria corta, ci farebbe bene ricordare il nostro passato recente per trattare con più dignità i profughi di oggi, in fuga dalla miseria proprio come lo eravamo noi».
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
“SE CEDE IL PD, ITALIA PREDA DEI POPULISMI”… “NECESSARIO IL DIALOGO INTERNO”
Il sorriso sotto i baffi c’è, ma è amaro: «Oramai lo dico senza alcuna vis polemica… Non partecipo più alle riunioni del Pd. Non mi arrabbio neanche più, sono preoccupato. Se si spezza il legame tra il Pd e la sua gente viene meno un punto di tenuta che ha retto finora. E rischiamo di cedere nel pieno della crisi europea, stretti tra Grecia e immigrazione».
Massimo D’Alema è appena tornato da un convegno a Tunisi.
«Ovunque vado, fuori dall’Unione, mi colpisce l’impressionante caduta di immagine dell’Europa. C’è una crescente disillusione. Sull’altra sponda del Mediterraneo vengono apprezzati gli sforzi fatti dall’Italia con “Mare Nostrum” e altre iniziative, ma quando descrivono ciò che i loro cari trovano nel nostro Paese, allora il racconto cambia: sfruttamento, ingiustizia, prevaricazione. C’è molto turbamento per l’incapacità dell’Europa a fronteggiare un’emergenza che riguarda alcune decine di migliaia di persone».
Potrebbero arrivare centinaia di migliaia di immigrati.
«Se non si riescono a gestire poche decine di migliaia di persone e si diffondono immagini di abbandono, degrado, mancanza di controllo, è naturale che aumenti la paura, ma ciò dimostra un impressionante vuoto di classe dirigente. Durante la drammatica crisi del Kosovo ci furono 300 mila profughi, ma non vi fu questo stato di tensione. È vero che era un’Europa forte, dove c’era una comunità di valori solidali e condivisi. Governava la sinistra».
Anche oggi in Francia e in Italia è la sinistra che governa.
«In Francia è una sinistra tallonata da Marine Le Pen, mentre l’Italia fa quel che può, stretta tra una legge folle, la Bossi-Fini, che produce clandestinità e respinge l’immigrazione di qualità , e la mancata gestione del fenomeno. In questo quadro, la sinistra rischia la sconfitta: non può affrontare il problema accodandosi ai populismi. Rischia di perdere senza combattere. In gioco ci sono i valori di accoglienza e solidarietà della democrazia europea».
Sulla quale pesa anche il caso Grecia.
«Sì, infatti, è l’altra grande emergenza che, se non risolta, non solo avrà risvolti economici devastanti, ma causerà anche una nuova ondata antieuropea. Se la Grecia non sarà salvata, il cittadino medio penserà che l’Europa feroce dei banchieri ha voluto schiacciare chi si è ribellato all’austerità in nome della sopravvivenza».
Arriviamo alla politica italiana.
«Quello che è avvenuto è più che un campanello d’allarme. Ho letto dichiarazioni che attribuiscono responsabilità alle primarie, ai candidati. Ma come? Una volta le primarie facevano vincere e ora fanno perdere? Tutto questo non c’entra nulla. Quando c’è una tendenza che si manifesta in tutto il Paese e con tutti i candidati, salvo eccezioni, si è di fronte ad un fatto politico. Non ci vuole un grande analista per capirlo: una parte grande del nostro elettorato ci ha abbandonato e il crollo della partecipazione al voto è stato particolarmente forte nelle Regioni rosse».
Facciamo un breve elenco dei mali che affliggono il Pd.
«Il fatto più grave? Tanti militanti e dirigenti hanno abbandonato il partito negli ultimi mesi e anzichè capire che questo era il segno di un distacco progressivo di una parte importante dell’insediamento storico della sinistra, si è reagito con un atteggiamento sprezzante che ha finito per radicalizzare un sentimento negativo verso il Pd».
Renzi fa un’analisi diversa e pensa di tornare al Renzi 1…
«Il Renzi 1 è quello che ha portato il Pd unito alle Europee».
Cosa è successo dopo il 41 per cento alle Europee?
«Si è illuso di avere oramai vinto e di poter fare da solo ma ha finito per deludere molte delle speranze che aveva suscitato. La disillusione è stata ancora più cocente. Di fronte a misure che hanno colpito il nostro popolo, la gente si è sentita tradita. È di oggi il provvedimento che permette alle aziende di spiare mail e telefonate dei dipendenti. Speriamo che venga modificato, ma il fatto stesso che il governo del Pd possa prendere un provvedimento del genere è inquietante. Ho paura che possa alimentare nel popolo della sinistra un sentimento di estraneità e di disamore. Pensiamo a ciò che è accaduto nella scuola, dove si sono create le condizioni perchè la rivolta degli insegnanti fosse uno dei fenomeni che ha caratterizzato la campagna elettorale».
Bisogna cambiare rotta, riaprire il dialogo interno?
«Sì, certo. Basta con questa finzione sui riformisti e i conservatori: tutti vogliamo le riforme. Si tratta di capire se sono le nostre riforme oppure quelle ispirate dal centrodestra. Mentre la riforma uninominale Mattarella fu una grande riforma perchè creava le condizioni per una democrazia più avanzata e dava maggior potere dei cittadini, l’Italicum è una legge dirigista e plebiscitaria, pericolosamente ispirata al Porcellum. E se la sinistra fa le riforme della destra, il nostro popolo ci lascia. Colpiscono l’entusiasmo di Sacconi, che parla di vittoria culturale della destra, il sostegno di Bondi, la simpatia di Verdini. Non solo non colmano il vuoto che si crea dall’altra parte, ma rischiano persino di incoraggiare tanti a sinistra che pensano che questo non sia più il loro partito».
E dunque
«Ci vogliono coraggio e onestà intellettuale, non si può sempre dare la colpa agli altri. Gli altri vanno rispettati. Si parla di Blair, dimenticando che fu capace di andare verso il centro, ma mantenendo il radicamento tradizionale del partito laburista. Vinse perchè fu un rinnovatore e non un rottamatore».
Vede segnali di cambiamento nella gestione Renzi?
«Alcune delle dichiarazioni attribuite a Renzi in questi giorni mi hanno preoccupato perchè sembrano voler dividere anzichè unire. Che senso ha dire: Marino deve avere paura? Renzi è il capo del governo e il segretario del partito. Non può liquidare una situazione così complessa con una battuta. Il sindaco di Roma è in una tempesta: o lo si sostiene o si va alle elezioni. Indebolirlo e lasciarlo a se stesso non mi sembra una buona soluzione».
Renzi l’ha più visto o sentito?
«No. Ma d’altro canto capisco il rilievo dei suoi impegni e non si tratta di rapporti personali. Si tratta della necessità di un confronto serio e di un cambiamento politico, che sono indispensabili e urgenti».
Non è che fa il gufo?
«La prego… Sono preoccupato, ho paura che il Paese non ce la faccia e che, se cede il Pd, finisca preda dei populismi. Occorre ricostruire il campo del centrosinistra. In fondo Berlusconi sta cercando di fare la stessa cosa dall’altra parte. Noi non possiamo pensare che si possa andare avanti come se nulla fosse, magari con i voti di Verdini. Non credo che quei voti ci riporteranno i milioni di voti persi tra la nostra gente. Vorrei garbatamente farlo presente a Palazzo Chigi».
Antonio Macaluso
(da “il Corriere della Sera”)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
“CONTROLLI A DISTANZA TROPPO PERVASIVI, POLITICHE ATTIVE INSUFFICIENTI, IL RIORDINO DEI CONTRATTI INCAPACI DI CONTRASTARE LA PRECARIETA'”… SIAMO IN MANO A MAN-ICHINI
“La parte debole, cioè il lavoratore, diventa inerme di fronte all’impresa. Nelle assunzioni, nei licenziamenti, con il demansionamento, con i controlli a distanza“. Dopo la pubblicazione degli ultimi decreti, c’è finalmente una fotografia completa dei contenuti del Jobs act.
E gli addetti ai lavori possono esprimere un primo giudizio su tutti gli aspetti della riforma del lavoro targata Matteo Renzi e Giuliano Poletti.
Vincenzo Martino, vicepresidente degli Avvocati giuslavoristi italiani (Agi), non fa sconti al pacchetto legislativo.
Benchè le opinioni in seno all’associazione siano diverse, il suo giudizio è netto: i controlli a distanza sono estremamente pervasivi, le politiche attive gravemente insufficienti, il riordino dei contratti incapace di contrastare seriamente la precarietà . Tutti temi che saranno sul tavolo del convegno nazionale di Agi, dal titolo “Lavoro e diritti“, che si terrà il 19 e 20 giugno alla Triennale di Milano.
“L’imprenditore potrà leggere le mail del dipendente e seguirne gli spostamenti” — Uno dei temi più caldi negli ultimi giorni è sicuramente quello dei controlli a distanza: grazie al decreto semplificazione, l’azienda potrà monitorare gli strumenti elettronici del dipendente, come computer, tablet e smartphone, senza necessità di un accordo sindacale.
E usare i dati raccolti per comminare sanzioni disciplinari.
“L’imprenditore — spiega Martino — potrà vedere su quali siti naviga il dipendente, leggerne le mail sul server di posta aziendale, seguirne gli spostamenti in azienda con il gps“.
Un tema, quello della privacy, che non poteva non fare discutere.
Da una parte c’è chi, come il senatore Pd Pietro Ichino, parla di “regole tecnicamente appropriate, che aumentano la protezione dei lavoratori rispetto alla situazione attuale”, e sottolinea “il diritto all’informazione precisa sull’uso che verrà fatto del collegamento a distanza”.
Dall’altra ci sono i sindacati, che gridano al colpo di mano, ma anche l’Europa.
“Ci possono essere problemi seri di compatibilità con una raccomandazione del Consiglio d’Europa“, sottolinea il vicepresidente Agi, ricordando il documento che vieta in modo assoluto di controllare “attività e comportamenti” dei dipendenti.
“Si tratta di un controllo estremamente pervasivo nella quotidianità del lavoratore — prosegue l’avvocato — Uno dei presidi fondamentali dello Statuto dei lavoratori viene meno”.
“Gravemente insufficienti” le politiche attive: “C’è flessibilità ma non sicurezza” – Ma tra le ultime novità del Jobs act, grande attenzione ha richiamato il decreto sulle politiche attive, che istituisce l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal).
Doveva essere il cavallo di battaglia della riforma del lavoro, ma per la piena operatività bisognerà aspettare ancora la riforma costituzionale del ministro Maria Elena Boschi.
Intanto, non si risolve la contesa di competenze tra Stato e Regioni e rimangono in sospeso i lavoratori dei centri per l’impiego, in attesa di sapere da quale ente dovranno dipendere.
“Questo pezzo è ancora gravemente insufficiente — ragiona Martino — Se parliamo di un modello di flexicurity, che dovrebbe coniugare flessibilità e protezione sociale, il governo ha completato la parte sulla flessibilità , ma non quella sulla sicurezza sociale. Le tutele del lavoratore nell’impresa sono diminuite in modo drastico, ma non è ancora arrivata una risposta adeguata sul piano della protezione del dipendente estromesso dal mondo del lavoro”.
Demansionamento con accordo del dipendente, “ma se alternativa è perdere il posto la scelta è obbligata” –
E a proposito di tutele diminuite, uno tra gli esempi più lampante è l’introduzione del demansionamento.
Il Jobs act ha sdoganato una pratica prima vietata dall’ordinamento italiano: ora l’azienda potrà destinare il lavoratore a una mansione inferiore.
“Aumenta il potere dell’imprenditore nella gestione quotidiana del rapporto di lavoro — sostiene Martino — Il demansionamento era la forma nelle quali si esprimeva più spesso il mobbing. Ora questa pratica, in parte, diventa lecita”.
Se c’è l’accordo del dipendente, il demansionamento potrà riguardare essere anche di più livelli.
“Ma se l’alternativa del dipendente è perdere il posto, la scelta rischia di diventare obbligata”, avverte l’avvocato.
“L’aumento dell’occupazione? Rischio che sia drogato da incentivi”
L’obiettivo dichiarato di questo pacchetto di misure era chiaro: aumentare l’occupazione e favorire il ricorso al tempo indeterminato.
Gli ultimi dati Istat, relativi ad aprile, parlano di un tasso di occupazione in aumento dello 0,7% su base annua.
Mentre l’Inps fa sapere che, nei primi quattro mesi dell’anno, le assunzioni a tempo in determinato sono cresciute del 31,4% rispetto al 2014.
Ma questi numeri, sbandierati dal governo Renzi, non convincono tutti gli addetti ai lavori.
“Mi chiedo se l’aumento dell’occupazione non sia drogato dall’incentivo della decontribuzione — spiega Martino — E mi chiedo se il contratto a tutele crescenti può essere considerato stabile, soprattutto nei primi anni, quando gli indennizzi sono molto bassi”.
“Finita la decontribuzione, i contratti a tempo determinato torneranno più competitivi”
A questo discorso si lega un altro decreto, quello sul riordino dei contratti.
Che, nelle intenzioni del governo, doveva assestare un duro colpo alla precarietà . Il Jobs act ha eliminato i co.co.pro, il job sharing e l’associazione in partecipazione, ma ha lasciato praticamente intatte tutte le altre forme contrattuali, dal tempo determinato alle partite Iva.
Resta da capire, quindi, se lo spostamento verso il tempo indeterminato, incoraggiato dalla decontribuzione, sia destinato a durare nel tempo.
“Finito l’incentivo, i contratti a tempo determinato torneranno competitivi rispetto a quelli stabili”, ragiona il giuslavorista.
“C’è il rischio che la maggior qualità dell’occupazione svanisca con il finire della decontribuzione. Non sono così certo che questo miglioramento sarà strutturale”.
“Naspi dovrà prendere il posto di tre ammortizzatori, risorse stanziate insufficienti” – Tornando agli ultimi decreti, anche il provvedimento sul riordino della cassa integrazione ha suscitato non poche perplessità .
Benchè il Jobs act estenda la platea di beneficiari alle piccole imprese e abbia previsto uno sconto per i contributi ordinari delle aziende, rimane da sciogliere il nodo delle coperture.
“C’è un problema generale sugli ammortizzatori sociali — segnala Martino — Spariranno cassa in deroga e mobilità , la cassa integrazione per le aziende decotte sarà abolita. La Naspi dovrà sopperire a tre ammortizzatori, temo che le risorse stanziate non siano sufficienti”.
L’avvertimento era stato lanciato anche da Tito Boeri, ai tempi non ancora presidente dell’Inps, che aveva parlato di un fabbisogno di 4 miliardi di euro, contro i 2,2 stanziati dall’ultima legge di Stabilità .
“C’è chi è convinto — conclude il giuslavorista — che la maggiore libertà di licenziare, unita a un sistema di ammortizzatori debole e scricchiolante, porterà a un’ondata di licenziamenti“.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 19th, 2015 Riccardo Fucile
TRA UN PAESE IN GINOCCHIO, UN POPOLO SUPINO E UNA CLASSE POLITICA INDEGNA
Un po di cose hanno caratterizzato la giornata di ieri.
De Luca è stato proclamato Governatore della Campania. L’enciclica di Papa Francesco ha sostanzialmente inneggiato alla “decrescita felice”. Fabrizio Corona è stato ammesso ad una forma alternativa di espiazione della pena.
C’è stata maretta per un basco bordò che non potrebbe essere più indossato dai marò (mi pare sia proprio questa la notizia).
E poi l’annosa vicenda della Grecia, quella degli immigrati, quella di Marino, di Mafia Capitale e di Renzi, sempre più alle prese con “le doglie” sottese alla “buona scuola”… Insomma, uno ricco scenario di colori, non sempre nitidi e non sempre accattivanti, per la verità .
Col passare dei mesi risulta sempre più evidente che Renzi, pur avendo una oggettiva forma di talento, non sia all’altezza del compito assegnato al suo ufficio.
Le vicende di De Luca e Marino, per esempio, super-ammantate di stucchevole iper-garantismo da quattro soldi, dimostrano “a piene mani” quanto sia privo di polso, il “premier” e l’intera nomenclatura che regge le sorti del Paese.
Un tempo l’etica e la moralità dell’agire venivano prima di ogni altra cosa.
Oggi, invece, la rincorsa spasmodica al potere viene prima di tutto: ovunque è così. L’ho sperimentata anche io qualche mese fa allorquando, nell’ipotetica rincorsa alla “destra che non c’è”, in tanti cercavano di accaparrarsi “il miglior posto”, anche se non si capiva ancora “di cosa”.
Comunque sia, il PD e Renzi, non dovevano proprio permetterla la candidatura di De Luca e sulle “vicende romane” dovrebbero dimostrare il polso degli uomini veri.
In una fase così drammatica è assurdo “lasciare tutto” al decorso del tempo, alle dinamiche possibili, ai distinguo comunque confusi e fuorvianti.
Se oltre metà della popolazione non va più a votare è proprio perchè la gente è oltremodo stanca di una classe politica che pensa solo alla conservazione dello status quo, del tutto avulsa dalla realtà , del tutto incapace di leggere i bisogni della gente, del tutto incapace di cavalcare le necessità della storia e di incarnare la pregnante dignità dell’agire.
Diciamola tutta: i Campani che sono andati al voto e che hanno scelto De Luca, hanno chiaramente assecondato il mito dell’arroganza fatta azione.
Da queste parti, si adorano gli uomini forti, risoluti: “ll’uommene ch’è palle”, per dirla in dialetto (gli uomini con gli attributi, insomma).
Ma confondere l’arroganza e l’arrivismo di un uomo che non ha guardato “in faccia a nessuno” pur di candidarsi, con la capacità di saper fare, è colpa assai grave.
Proprio come quella di Renzi e dell’intera nomenclatura del PD, incapaci di dire a “Don Vincenzo” di starsene a casa fino a quando la magistratura non avrebbe posto “la parola fine” alla sua annosa vicenda penale.
Intanto, la Campania resta affidata alla carta bollata e all’imbarazzo dell’agire Istituzionale, ivi compreso quello del Premier, perchè una cosa è certa: non credo proprio che l’opposizione se ne starà con le mani in mano e se l’adenda Autorità Giudiziaria dovesse confermare l’inesattezza dell’interpretazione della Severino da parte del PD e del suo “Capetto”, avere un Primo Ministro colpevole di abuso d’ufficio sarebbe davvero il massimo della iattura possibile.
Una politica fatta di gente seria e responsabile avrebbe evitato tutto questo marasma ed avrebbe cavalcato la necessità del bene comune, senza se e senza ma.
E invece…
Decrescita felice? Grande Paese? Il mondo delle opportunità ? Con tutto il rispetto, nella corso della propria vita, la gente cerca di andare avanti, di progredire, di arrivare a mete sempre più stimolanti ed appaganti: formalizzare la necessità di una politica che miri all’appiattimento degli animi, delle coscienze e dei sogni, mi sembra davvero assurdo oltre che lesivo di ogni ragione “sostanzialmente umanistica”.
Mi dimenticavo di Corona.
Mi dimenticavo che, in questo paese di sopraffini giuristi, di opinionisti sempre di alto rango e di stra-convinti assertori della “decrescita felice”, proprio non si riescono a distinguere le sostanziali diversità tra i vari istituti processuali, ivi compresi quelli inerenti l’esecuzione penale. Ma tant’è.
Oggi, per “i più”, il male dell’Italia è che un condannato sia stato ammesso al proseguo dell’espiazione della pena in un luogo alternativo al carcere per ragioni di salute.
Forse sbaglierò, ma l’invidia e la superficialità arrivano anche a questo.
Forse, anzichè perdersi nei rivoli della “decrescita felice” o degli astrusi distinguo pseudo-contettuali, o dello stesso appiattimento delle coscienze, sarebbe meglio ritrovare la spinta verso le cose autentiche e verso la dimensione titanica dell’esistenza, individuale e collettiva.
Il problema non è certo un condannato ammesso ad una diversa forma di esecuzione della pena. Il problema reale, drammatico e sempre più travolgente, è un Paese in ginocchio, una classe politica indegna ed un popolo sempre più supino. Io lavorerei su quello.
Il resto è soltanto folclore, quel folclore nel quale non siamo secondi proprio a nessuno, purtroppo..
Salvatore Castello
Right Blu – La Destra Liberale
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