Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
IL CASO NON E’ ISOLATO, ERA GIA’ ACCADUTO PER IL CSM… E I COSTI PER TUTTI SONO INSOSTENIBILI
Deputati e senatori non si perdano d’animo proprio sul più bello. Il record è lì, a portata di mano: si tratta di resistere appena 89 giorni.
Tanti ne mancheranno, quando il 14 dicembre il parlamento tornerà a votare per eleggere i giudici della Consulta, per superare il primato che resiste ormai da 18 anni. Quello del più lungo periodo trascorso con la Corte costituzionale a ranghi incompleti: i 623 giorni ininterrotti fra il 23 ottobre 1995 e il 9 luglio 1997 impiegati per rimpiazzare Vincenzo Caianiello con Annibale Marini, come ha ricordato qualche tempo fa l’agenzia di stampa Adnkronos.
Il 14 dicembre ne saranno passati ben 535 da quando, alla fine di giugno dello scorso anno, sono scaduti Luigi Mazzella e Gaetano Silvestri.
Fuoriuscite a cui sono poi seguite quelle di Giuseppe Tesauro, Sabino Cassese e Paolo Maria Napolitano, scaduti a novembre, e di Sergio Mattarella, eletto a gennaio presidente della Repubblica.
Sei sedie vuote, di cui nel frattempo ne sono stata rioccupate soltanto tre grazie alla nomina di Silvana Sciarra e alle designazioni di Daria de Pretis e Nicolò Zanon da parte dell’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano: con il risultato che la Corte lavora con dodici giudici anzichè quindici. Il che non è affatto un dettaglio trascurabile, come si potrebbe credere.
Chi paga per i pareggi?
Vero è che la Consulta può operare anche con soli undici giudici. Ma che cosa può accadere quando non c’è il plenum, e per giunta la Corte si trova a decidere con un numero di giudici pari, lo dice chiaramente una sentenza di qualche mese fa, quando venne dichiarato incostituzionale il blocco della rivalutazione delle pensioni decretato dal governo di Mario Monti.
Una decisione che ha rovesciato sulle spalle dei contribuenti alcuni miliardi di euro e che è passata, con sei voti favorevoli e sei contrari, soltanto perchè il presidente Alessandro Criscuolo, il cui voto vale doppio, era schierato con i primi.
Ragion per cui provvedere alla rapida sostituzione dei giudici scaduti rappresenterebbe anche una garanzia per il corretto funzionamento di un organismo così fondamentale per la vita democratica.
Da decenni, invece, è proprio in questa occasione che la politica mette in mostra con tracotanza i propri aspetti peggiori.
Lottizzazione, equilibrismi di partito, biechi interessi di corrente a cui viene sottomesso con disinvoltura l’interesse generale.
La conseguenza è che il compromesso reso necessario dal quorum elevato per l’elezione dei giudici sfocia talvolta in scelte improbabili. Quando non addirittura, com’è successo nel caso dei membri laici del Consiglio superiore della magistratura per cui funziona lo stesso indigesto cerimoniale, viziate da difetti gravi come la manifesta incompatibilità . Con risvolti grotteschi.
Nomi tritati (e volgarità in Aula)
In questi 535 giorni il tritacarne del parlamento riunito in seduta comune ha macinato nomi come quelli dell’ex presidente della Camera Luciano Violante, dell’avvocato ed ex deputato di Forza Italia Donato Bruno (poi deceduto), dell’ex sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà .
Senza risparmiare nemmeno l’avvocato generale dello Stato Ignazio Caramazza, indicato da Forza Italia, al quale i leghisti non si astennero dal riservare una simpatica sorpresa: «Siccome qui siamo alla farsa, invece che Caramazza votiamo Caraminchia!» (Ansa, 2 ottobre 2014).
L’occasione è ghiotta per sferrare colpi bassi e consumare vendette. E di sicuro non è una novità .
Ancora l’Adnkronos ha rammentato che per la nomina di Leonetto Amadei furono necessari 353 giorni, per Ettore Gallo 379 e per Cesare Mirabelli 387.
Invece per sostituire l’avvocato Romano Vaccarella dimessosi il 4 maggio del 2007 si impiegarono addirittura 536 giorni, dopo che per eleggerlo ce n’erano voluti 519 con ben 12 fumate nere.
Tre in più delle sedute andate a vuoto un paio d’anni prima per l’elezione di Luigi Mazzella.
Sempre così? No, sempre peggio
Si potrebbe dire che funziona così fin dall’alba della Repubblica, con tutte le distorsioni implicite nel meccanismo.
A titolo di esempio si potrebbe citare il caso del secondo presidente della Consulta, Gaetano Azzariti, che era stato uno dei massimi burocrati del regime fascista, fino a diventare il presidente dell’infame Tribunale della Razza.
Ma il fatto è che un andazzo spesso discutibile peggiora di volta in volta. Le 12 fumate nere servite a nominare il sostituto di Vaccarella fanno ridere al confronto delle 29 sedute già concluse senza esito da 535 giorni a questa parte per sostituire i giudici costituzionali usciti di scena.
Alle quali si devono sommare le altre 16 spese per nominare i sei membri laici del Consiglio superiore della magistratura. Di cui cinque ex onorevoli (Giovanni Legnini e Giuseppe Fanfani del centrosinistra, Antonio Leone e Maria Elisabetta Alberti Casellati del centrodestra, e l’ex ministro della Salute Renato Balduzzi di Scelta civica) e l’avvocato Teresa Bene: l’unica a non essere transitata sui uno scranno parlamentare, e l’unica a vedersi revocare la nomina per la presunta carenza di titoli. Uno schiaffo a cui la protagonista di questa disavventura non ha reagito sportivamente, ma con un ricorso al Tar.
Alla Corte costituzionale si sarebbe invece appellato Matteo Brigandì, ex deputato e avvocato di Umberto Bossi, piazzato anch’egli subito dopo le sue dimissioni dalla Camera al Consiglio superiore della magistratura.
Ma poi dichiarato decaduto dallo stesso Csm per incompatibilità con il suo incarico di amministratore della Fin group, la finanziaria del Carroccio.
I conti impossibili
Quanto grava sui contribuenti tutta questa giostra insensata, fra sedute perse, scelte inutili o semplicemente sbagliate, inefficienze degli organi costituzionali, ricorsi, pareri e controricorsi? Il calcolo è impossibile.
Ma una domanda è d’obbligo: la spesa che i cittadini sopportano per tutto ciò può essere rubricata sotto la voce «costo della democrazia»?
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
“UN GOVERNO CORAGGIOSO ABBASSEREBBE LE ALIQUOTE E COLPIREBBE GLI EVASORI”
“Un governo coraggioso proverebbe a risolvere il problema abbassando le aliquote, migliorando i
controlli e ampliando la base fiscale. Invece, rendendo più facile evadere, Renzi garantirà che il peso di sostenere le spese dello Stato ricada sulle spalle di meno italiani”.
Così il settimanale britannico Economist critica gli interventi del governo italiano in materia di contrasto all’evasione fiscale.
L’articolo, intitolato Show me the money, prende le mosse dalla decisione di alzare da mille a 3mila euro il limite sopra il quale è vietato pagare in contanti.
“Cattiva idea”, è il giudizio della testata di cui la famiglia Agnelli è diventata quest’estate prima azionista. Che ricorda poi come l’esecutivo abbia anche, con i decreti attuativi della delega fiscale, aumentato da 50mila a 150mila euro “l’ammontare delle tasse che possono essere evase senza sanzioni penali”.
“I critici di Renzi, inclusi alcuni membri dello stesso Pd, lo accusano di cercare in modo cinico di guadagnarsi il supporto dei piccoli imprenditori e degli autonomi (inclusi molti medici e avvocati) che tradizionalmente votano per la destra”, prosegue l’analisi.
“Diversamente dai lavoratori dipendenti delle grandi aziende e dagli statali, per loro è ridicolmente facile presentare dichiarazioni fiscali che sottostimano i loro redditi”.
Poi si dà conto della posizione del premier, secondo cui “incoraggiare l’uso del contante spingerebbe i consumi e accelererebbe la ripresa dalla più lunga recessione della storia del Paese.
Come? Qualche turista che visita l’Italia potrebbe essere felice di pagare cash invece che con la carta di credito (forse sempre per motivi fiscali).
Ma il punto non detto sembra essere che se gli italiani pagano ancora meno tasse avranno redditi disponibili più alti”. Del resto, “evadere sembra razionale, visto che tutti lo fanno e lo Stato offre cattivi servizi”.
“La visione che assecondare l’evasione è cosa buona per l’economia ha una lunga storia in Italia”, ricorda poi l’Economist.
“Era comune tra i democristiani che hanno dominato i governi italiani fino agli anni Ottanta. Impossibile dire se Renzi condivida questo pensiero. Ma sicuramente la questione lo appassiona: a ottobre ha detto che per questo era pronto a rischiare il futuro del suo governo, mettendo la fiducia sull’incremento della soglia”.
Questo in un Paese che “stando a uno studio del 2012 condotto per il gruppo socialdemocratico del Parlamento europeo ha perso nel 2009 180 miliardi di euro a causa dell’evasione fiscale, la cifra di gran lunga più alta in tutta la Ue”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
DOPO IL CAOS RIFIUTI I GRILLINI RISCHIANO LA CRISI: 17 VOTI CONTRO 16
A meno di una settimana dall’inizio dell’emergenza rifiuti a Livorno si vedono i primi effetti politici.
Tre consiglieri comunali sono stati sospesi dal MoVimento 5 Stelle, con il risultato che la maggioranza del sindaco Filippo Nogarin traballa. Giuseppe Grillotti, Alessandro Mazzacca e Sandra Pecoretti infatti, come riportato da il Tirreno, hanno ricevuto dallo staff di Beppe Grillo una lettera che comunica loro la sospensione con effetto immediato. Hanno 10 giorni di tempo per difendersi dalle accuse e rischiano l’esplusione.
I tre sono “colpevoli” di aver votato contro l’atto di indirizzo della giunta livornese sul concordato preventivo per Aamps, l’azienda comunale che si occupa della raccolta dei rifiuti e ha chiuso il bilancio del 2014 con i conti in rosso di 21 milioni di euro.
La richiesta è poi passata lo stesso, anche se il consiglio comunale ha chiesto al sindaco di aprire un dialogo con i rappresentanti dell’azienda e dell’indotto.
Lunedì 30 novembre, durante il consiglio comunale interamente dedicato alla questione, Grillotti ha detto: “Questa giunta è da cancellare, da azzerare”.
Quattro giorni dopo è arrivata la resa dei conti. Se non si riuscirà a ricomporre la frattura si potrebbe creare un problema politico per la giunta: senza i tre voti dei dissidenti, infatti, la maggioranza avrà a disposizione 17 voti contro i 16 delle opposizioni. E i rimanenti tre anni e mezzo di mandato di Nogarin diventerebbero molto complicati.
La Pecoretti ha pubblicato sul suo profilo Facebook la comunicazione ricevuta dallo staff di Grillo.
“Lei ha violato in modo grave, ripetuto e sostanziale gli obblighi assunti all’atto di accettazione della candidatura — si legge in un passaggio — e i principi fondamentali di comportamento degli eletti del Movimento 5 Stelle, tentando di boicottare l’attività politico istituzionale del Sindaco e della Giunta, in contrasto con la maggioranza del gruppo consiliare del M5S”.
(da agenzie)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
SU 330 MILIONI PERSI DA PENSIONATI E LAVORATORI BEN 145 RIGUARDANO LA POPOLARE DELL’ETRURIA
Non è un caso che tra i risparmiatori danneggiati dal Salva banche che si raduneranno domenica a
Roma in piazza Montecitorio per gridare il proprio sdegno, la maggior parte viene dalla Toscana.
E non è un caso che proprio il governatore della Regione Toscana, Enrico Rossi, dalle colonne dell’HuffingtonPost lanci un j’accuse a governo e Bankitalia che “non hanno salvato” i piccoli risparmiatori beffati.
Non è un caso, perchè tra tutti gli obbligazionisti subordinati cosiddetti “retail”, ovvero piccoli risparmiatori non “istituzionali” (come invece sono Fondazioni, Fondi, Assicurazioni) la metà di quelli che nell’operazione salva Banche ha perso tutto, viene da quella Banca d’Etruria che faceva capo al padre della ministra Maria Elena Boschi.
Secondo le ultime notizie, la mediazione tra governo e maggioranza dovrebbe portare alla creazione di un fondo ad hoc da 100 milioni di euro per risarcire almeno in parte i piccoli risparmiatori che con il salvataggio di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio della provincia di Chieti hanno perso tutti i propri risparmi investito in bond e azioni.
I sottoscrittori di bond subordinati delle quattro banche hanno perso circa 750 milioni di euro e a questi si affiancano circa 133.000 azionisti (60 mila di Banca Etruria; 44 mila di Banca Marche, 22 mila quelli di CariFerrara, 6.000 di CariChieti secondo dati Adusbef), i cui titoli non valgono più nulla.
La decisione presa sarebbe, come già detto in precedenza, quella di risarcire solo i risparmiatori più piccoli, e solo quelli che hanno investito in obbligazioni subordinate nelle quattro banche salvate.
Niente da fare, quindi, per gli azionisti. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Askanews si stima siano 300 milioni di euro le obbligazioni subordinate in mano ai piccoli risparmiatori delle quattro banche salvate, i cosiddetti “retail”.
Secondo calcoli fatti sui dati delle obbligazioni pubblicati sul sito di Bankitalia, il totale delle obbligazioni subordinate emesse da Banca Etruria è di circa 300 milioni di euro, di cui, secondo dati riportati dalla Nazione di Arezzo, 145 milioni sottoscritte da piccoli investitori, quindi in mano alle famiglie.
Questo significa, e il dato viene confermato da fonti parlamentari, che la metà dei piccoli risparmiatori che hanno investito in obbligazioni ormai andate in fumo, e che saranno in qualche modo aiutati dal governo, viene dalla Banca d’Etruria.
I restanti 155 milioni di obbligazioni retail sono spalmati tra le altre tre banche “salvate”, che evidentemente hanno ceduto più obbligazioni a investitori istituzionali e in cui sono stati soprattutto gli azionisti ad essere colpiti.
Secondo dati riportati dalla Reuters Banca delle Marche ha 428 milioni di bond subordinati; Carife 60 milioni; CariChieti 26 milioni; Banca Etruria 274 milioni.
Di cui appunto, scrive La Nazione, 145 milioni in mano alle famiglie e 125 milioni in mano a investitori istituzionali.
I più colpiti dal decreto Salva banche, dunque, sembrano essere i piccoli risparmiatori di Banca Etruria che hanno investito in obbligazioni subordinate.
Proprio a loro quindi, dovrebbe andare la maggior parte delle risorse che saranno stanziate con il fondo salva-risparmiatori pensato da governo e maggioranza.
Al momento invece, come si è detto, sempre che non ci siano spiragli di speranza per gli azionisti beffati, maggiormente concentrati nelle altre tre banche. Una decisione, questa, che non piace a tutti.
Sul punto interviene anche il presidente della commissione Bilancio della Camera, Francesco Boccia, del Pd. “Non condivido la rigidità sul tema degli azionisti — dice – perchè alcuni lo sono diventati senza rendersene conto stipulando magari il mutuo sulla casa. La perdita di valore delle azioni delle 4 banche è una roba di miliardi e questo governo non c’entra nulla perchè si tratta di un bubbone che ha ereditato. Ma mi chiedo se non sia possibile costruire un ponte fra le bad bank e le newco, che consenta che il valore aggiunto creato da queste ultime possa essere dirottato sulle bad bank in modo che chi ha perso possa riavere qualcosa”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
CHI HA PERSO I SOLDI PER IL SALVA-BANCHE URLERA’ LA PROPRIA RABBIA DAVANTI ALLA CAMERA
Sono tanti, indignati e demoralizzati, e in queste ore si stanno preparando per “invadere” piazza Montecitorio a Roma, dove si trova la Camera dei deputati.
Sono l’esercito delle “vittime del Salva Banche”, ovvero i piccoli risparmiatori (in totale sono 130mila, tra cui 10mila famiglie con obbligazioni subordinate andate in fumo per un totale di 780 milioni di euro) che lunedì 23 novembre sono andati in banca e non hanno trovato più i propri risparmi.
Perchè investiti in obbligazioni subordinate o azioni di una delle quattro banche salvate dal governo, Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio della provincia di Chieti .
E che, a seguito del salvataggio, sono state azzerate.
Questo esercito silenzioso si è dato appuntamento domenica alle 15 a Roma.
L’evento è organizzato dalle “vittime del Salva Banche” e appoggiato da Adusbef-Consumatori e dal Movimento 5 stelle.
Mentre dentro la Camera si inizieranno a votare i primi emendamenti alla legge di Stabilità , proprio a partire dal decreto Salva banche e da quel Fondo di solidarietà ad hoc per risarcire i risparmiatori più piccoli, fuori la piazza griderà a gran voce la propria indignazione.
A parlare con loro, con le “vittime del salva Banche”, infatti, si percepisce, vivo, il dolore e la rabbia.
“Mio padre aveva investito centinaia di euro in obbligazioni, su consiglio della banca, e ora ha perso tutto”. Questa la frase più ricorrente che si sente. Perchè la maggior parte delle persone che sono state danneggiate dal salvataggio delle quattro banche sono per lo più anziani e le loro famiglie, che si sono negli anni affidati alla banca di fiducia per conservare i propri risparmi e tentare, perchè no, di farli fruttare anche un po’.
“Ci avevano assicurato che seppure fosse andato male l’investimento, avremmo comunque recuperato il capitale iniziale”, racconta Mara Gabbicini. E come lei molti altri.
La rabbia potrebbe per altro diventare un boomerang per le stesse quattro banche salvate e “depurate” da debiti e sofferenze.
“Dopo aver perso tutti i nostri risparmi sto azzerando il conto in banca e come me tutta la mia famiglie e molti altri mie concittadini — racconta Francesca Parisi, di Civitavecchia — Quello che è successo penso comporti una pregiudizievole in tutti gli altri correntisti nei confronti delle quattro banche ma anche nei confronti di tutto il mondo bancario. Si va ad incrinare a mio giudizio la fiducia in tutte le banche, la gente non si fida più”.
La storia di Francesca è simile a quella di molti altri risparmiatori danneggiati.
“Con questo provvedimento — racconta — mio padre, cardiopatico e invalido al 100% ha perso i risparmi di una vita. E io lo devo tutelare, non gli ho detto quello che è successo, non sopravviverebbe. Ogni giorno mi invento una bugia per rassicurarlo che noi non siamo stati danneggiati. E invece abbiamo perso 40 mila euro, tutti i risparmi che mio padre aveva messo da parte in una vita da operaio. Risparmi che aveva investito, senza sapere nemmeno cosa fossero le obbligazioni subordinate, in virtù di un rapporto di fidelizzazione costruito in 40 anni che è stato cliente diella banca. Ora devo curare mio padre ma non so come fare. Il danno non è solo economico, sono anche costretta a fare i salti mortali perchè mio padre non sappia cosa ci è successo”.
“A mia madre la banca ha ‘rubato’ 92 mila euro investiti in obbligazioni subordinate andate in fumo — racconta Joselito Arcioni, consigliere del M5s nel comune di Fabriano (Ancona) — Nel frattempo si è ammalata di Alzheimer e non so come fare, quei risparmi ci servivano”:
“Mio padre — racconta Lorenzo M. — è stato correntista di banca Etruria per una vita, era stato consigliere delle banca stessa e da lui ho ereditato delle obbligazioni rinnovate nel 2013. Nessuno all’epoca mi ha detto lo stato in cui versava la banca e ora ho perso oltre 150mila euro, ovvero tutti i risparmi di mio padre. Un danno, visto che ho una situazione lavorativa precaria e non riiesco ad andare in pensione con la legge attuale. Quei soldi mi avrebbero dato la possibilità di andare in pensione nel caso perdessi il lavoro. Alla fine penso che se avessero fatto una rapina in banca era meglio”.
“Mia nonna ha 78 anni — racconta Silvia B. – e ha perso 50mila euro di obbligazioni azzerate. Quando le ha sottoscritte l’unica domanda che ha fatto in banca è stata se il capitale iniziale sarebbe stato comunque garantito. E la risposta della banca era sì. Ora come farà ? Ha la pensione minima ma è troppo poco per vivere”.
Con questa rabbia addosso Francesca, Mara, Joselito, Lorenzo, Silvia e molti altri si riuniranno domani a Roma, per chiedere al governo di fare un passo indietro sul salva Banche.
“Mi auguro che siano presentati emendamenti a questo decreto salva Banche per modificarlo — dice il presidente di Adusbef, Elio Lannutti— Sono 2,6 i miliardi che servono” per salvare Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio di Chieti “prendiamoli da Bankitalia. Inonderemo di citazioni la Banca d’Italia, oltre alle denunce penali. Ogni truffato denunci Bankitalia per omesso controllo”.
(da “Huffingtonpost”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
IN PRIMA PAGINA DOPO CENTO ANNI: IL QUOTIDIANO CHIEDE MAGGIORI REGOLE E CONTROLLI
Il New York Times contro le armi facili. Per la prima volta in quasi cento anni, il quotidiano
sceglie di pubblicare un editoriale in prima pagina chiedendo una maggiore regolamentazione sulle armi a seguito di un’ondata di sanguinose sparatorie di massa. L’ultima a San Bernardino, in California, dove sono rimaste uccise 14 persone.
Nell’editoriale dal titolo «L’epidemia delle armi», il quotidiano critica duramente l’assenza di sforzi da parte del Congresso per limitare la proliferazione di armi negli Stati Uniti.
«Le autorità statunitensi stanno ancora indagando per trovare un movente e stabilire se gli autori della strage di San Bernardino avessero collegamenti con il terrorismo internazionale. Ma le motivazioni non importano alle vittime di San Bernardino, nè a quelle di Colorado, Oregon, South Carolina, Virginia, Connecticut e di altri, troppi, luoghi (…).
«Tutte queste sparatorie sono, a loro modo, atti di terrorismo», scrive il Nyt il quale sostiene che «l’attenzione e la rabbia degli americani dovrebbero essere rivolte ai leader eletti il cui lavoro è tenerci al sicuro, ma che pongono più attenzione al denaro e al potere politico di un’industria concentrata a trarre profitto dalla diffusione senza limiti di armi da fuoco, sempre più potenti».
L’editoriale definisce «un oltraggio morale e una vergogna nazionale il fatto che le persone possono acquistare legalmente armi progettate specificamente per uccidere con velocità ed efficienza brutale».
«Gli oppositori del controllo sulle armi affermano, come fanno sempre dopo ogni massacro, che nessuna legge può scongiurare un crimine. Puntano sul fatto che killer determinati ottengono armi illegalmente in Paesi come Francia, Inghilterra e Norvegia, che hanno leggi severe. Ma questi Paesi almeno ci provano. Gli Stati Uniti no».
Il Nyt suggerisce quindi di ridurre drasticamente il numero di armi da fuoco e di «eliminare alcune grandi categorie di pistole e munizioni.
«Non è necessario discutere il testo peculiare del Secondo Emendamento. Nessun diritto è illimitato e immune da regolamentazione ragionevole».
L’editoriale si conclude con un appello ai candidati per le primarie in vista delle elezioni presidenziali del 2016. «Non c’è momento migliore di un’elezione presidenziale per mostrare che alla nostra nazione è rimasta un po’ di dignità ».
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
“SE QUALCUNO VUOL FAR DIVENTARE IL MOVIMENTO UN PARTITO VERTICISTICO TROVERA’ OSTACOLI”
“A Bologna si è deciso di non rispettare le nostre regole. Semplici, democratiche, condivise. Questo ha aperto una ferita che resta scoperta e sta creando problemi. Forse ci sono ancora i tempi per rimediare: fare un passo indetto e consultare gli attivisti”.
A riaprire la polemica sulle candidature in casa 5 Stelle stavolta è l’eurodeputato Marco Affronte, ex collaboratore di Andrea Defranceschi in Regione. Da Bruxelles, il riminese Affronte attacca di petto la “svolta bolognese”, ovvero il metodo scelto da Massimo Bugani e Marco Piazza per correre alle amministrative 2016: niente primarie nè per il candidato, nè per la lista.
Un metodo legittimato anche dal vicepresidente della Camera Luigi Di Maio ieri a Imola per un’iniziativa contro l’ampliamento della discarica: “Bugani è il candidato naturale del Movimento. Queste persone avrebbero dovuto farsi avanti prima”.
Ma i 90 attivisti che hanno firmato una lettera aperta allo staff, in cui chiedono primarie e più trasparenza sulla lista, incassano anche il sostegno della deputata Elisa Bulgarelli.
“Se qualcuno in corso d’opera intende cambiare direzione e fare diventare i 5 Stelle un partito verticistico troverà in me un immenso ostacolo. Perchè non solo non me ne vado da nessuna parte, ma ho intenzione di far rimanere il Movimento quello che abbiamo raccontato e promesso per anni”.
Tra i firmatari della petizione ci sono anche diversi consiglieri comunali 5 Stelle della provincia, ma finora al loro fianco non era sceso nessun big del Movimento. L’eurodeputato Afrfonte è il primo, a prendere esplicitamente le parti dei ribelli.
“Io mi auguro che si rispetti sempre il nostro metodo del voto aperto agli iscritti del Comune interessato, per una scelta libera fra più candidati e una composizione della lista in base alle preferenze. Solo così potremmo continuare a distinguerci dai Partiti. Per quel che mi riguarda sono certo che a Rimini si possa votare in tal senso: niente autocandidature tramite giornali, niente scorciatoie, niente delfini. Si vota e basta”.
Il suo appello, prende le mosse da un ragionamento più ampio sul futuro del Movimento, e sulle sue prospettive: “Il metodo con il quale scegliamo e sceglieremo i nostri candidati sindaco non è per nulla secondario”.
A Roma, prosegue Affronte, “niente liste bloccate, niente investiture dall’alto, niente candidati unici”. Quindi arriva l’attacco su Bologna: “Per ora abbiamo assistito alla scelta di tre candidati sindaco delle città principali con tre metodi diversi. In un caso con un voto ‘tradizionale’ cartaceo, in uno con un’assemblea e un candidato unico, in un terzo con l’investitura dall’alto. Sono sconcertato: che messaggio trasmettiamo così?”.
Una domanda alla quale dovrà rispondere Alessandro Di Battista, la cui presenza è annunciata domani pomeriggio in via Ugo Bassi, ai banchetti per la raccolta firme per Bugani sindaco.
Caterina Giusberti
(da “La Repubblica”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
A ROMA E’ FORTE, MA TEME LA VITTORIA…. A TORINO PUO’ FARE MALE AL PD… LA MUTAZIONE LO HA GIA RESO UN PARTITO?
Per il Movimento cinque stelle il voto nelle grandi città sarà cruciale. 
In una stagione che li vede in forte crescita, ma anche subire una mutazione genetica che li allontana sempre più dalle promesse originarie.
Sulla restituzione dei soldi, per esempio; o sul metodo di selezione dei candidati: dal principio del voto online sempre e comunque si è passati a un iper-pragmatismo elastico che cambia da città a città (proprio come il detestato Pd).
Molto più un partito, molto meno un movimento partecipato dal basso.
E sullo sfondo, la scalata dei giovani rottamatori a Casaleggio, ultimo argine rimasto a difesa di alcune delle vecchie regole.
TORINO
Contrariamente a quello che si sente dire nel mondo del Pd a Torino, il Movimento cinque stelle non si squilibrerà a sinistra, durante questa campagna elettorale torinese. La strategia è semmai provare ad affondare anche nel voto di centrodestra.
La candidata Chiara Appendino, laureata in economia aziendale alla Bocconi (con Tito Boeri), manager d’azienda, consigliera comunale che Fassino ribattezzò Giovanna d’Arco, parte da un radicamento molto forte (i sondaggi parlano di un 25 per cento), punta molto sulla riqualificazione delle periferie, sullo stop ai cantieri (che in città non è malvisto anche da settori della borghesia), sul taglio di 5 milioni di sprechi, da convogliare su un fondo per favorire l’inserimento dei giovani nelle piccole imprese.
La partita si gioca tutta sull’eventualità che Fassino non riesca a vincere al primo turno. Appendino, oltre che militante storica, è molto sostenuta dai parlamentari piemontesi – kingmaker Laura Castelli – e dalla base, che l’ha indicata senza che esistessero di fatto altre opzioni. E come per acclamazione (col malumore di Vittorio Bertola)
Per «riaprire i giochi» sarà fondamentale vedere il risultato della lista di Sinistra, guidata da Giorgio Airaudo.
A Torino i rapporti tra Sinistra e Pd non sono più buoni – lo testimoniano vicende come lo sgombero della pacifica occupazione della caserma di via Asti, o il fatto che molti democratici sostengono che esista già un accordo tra M5S e Airaudo, per sostenersi in caso di ballotaggio, in chiave anti-Pd (come successo a Venaria, dove così ha vinto un sindaco del Movimento).
La realtà è che non c’è nessun accordo, e nessun patto. Anche se a Torino i rapporti tra Movimento e Sinistra non sono critici come altrove (per esempio a Roma).
Il terreno comune c’è stato (per dire, la battaglia sul Tav). Ma mentre Airaudo punterà al voto deluso dal Pd, lo slogan di Appendino apre anche all’elettorato moderato: «L’alternativa è Chiara», dice lo slogan, per una città «solidale, sicura, sana». Sinistra e mondo dell’ambientalismo; ma anche elettorato di centrodestra.
ROMA
A Roma, come spesso capita, il caos è totale, da tutti i punti di vista. Il candidato ancora non c’è, fino a oggi è ancora possibile presentare la propria candidatura, l’unico requisito è essere incensurati e iscritti al Movimento.
Sulla carta i due più in corsa sarebbero i consiglieri Marcello De Vito, che però già in passato Grillo aveva definito, in colloqui riservati, «deboluccio», e Virginia Raggi, una giovane avvocata, bel viso, eloquio moderato, che piace di più a Casaleggio e probabilmente avrebbe una capacità di seduzione maggiore sull’elettorato. Entrambi sono considerati politicamente nell’orbita di Roberta Lombardi, che a Roma storicamente ha sempre imposto (o cercato di imporre) la sua legge a un Movimento romano molto girato a destra (anche con ombre non da poco, per esempio a Ostia). Le cose però potrebbero essere più complicate.
Il M5S a Roma è dato da tutti gli istituti di ricerca sopra il 30 per cento, con chance serissime di correre per vincere.
Ma negli indici di popolarità l’unico suo leader con alta popolarità è Alessandro Di Battista; però la regola del Movimento è ferrea: chi ricopre un altro incarico elettivo non può candidarsi.
Senonchè nessuno, nè a Milano e neanche nel direttorio, è particolarmente convinto della forza dei due consiglieri romani, dunque, seguiteci, la questione va posta in un altro modo: il Movimento vuole davvero vincere a Roma?
O ha come deciso che vincere sarebbe una iattura, la sua fine, in vista delle politiche che arriveranno dopo due anni (o un anno)?
La risposta è  controversa. Casaleggio sa che Roma è una grana, e può essere una vittoria di brevissimo respiro, che toglierebbe il M5S dalla rendita di posizione di una comodissima opposizione.
Lo sanno anche i giovani rottamatori, anche se Di Battista sbandiera che «da Roma posiamo partire per governare l’Italia».
Nei giorni scorsi ha anche accettato un invito di Micromega, con Stefano Rodotà (Stefano Fassina aveva detto, ricorderete, che loro in un secondo turno potrebbero votare M5S). Ma poi aveva anche accettato un invito opposto e incongruente dall’economista no euro Bagnai.
MILANO
Milano è la città  in cui sulla carta il Movimento cinque stelle ha la partita più chiusa: anche nel 2013 del boom, la Lombardia ebbe il risultato (relativamente) più basso (il 18 per cento), anche se Milano può avere delle dinamiche impreviste perchè in passato il mondo arancione della primavera-Pisapia ha avuto delle zone di tangenza con l’elettorato del Movimento. E quell’elettorato potrebbe essere deluso dalla mancata ricandidatura di Pisapia.
Partendo sfavorito, il M5S non ha nulla da perdere e a Milano considera «tutto buono quello che arriverà ». Ma ci sono vari problemi.
Uno. La candidata appare (eufemismo) dotata di meno appeal di quella torinese: Patrizia Bedori è una cinquantenne, ex direttrice commerciale in aziende di arredamento, non appare un crac elettorale (molti avrebbero preferito il freschissimo Mattia Calise), e la sua elezione è avvenuta senza voto online (ps: in ogni città , in queste amministrative, il Movimento fa una cosa diversa; è dunque totalmente saltato il metodo, eppure il Movimento diceva di essere «dei principi e dei metodi»).
Ci sono state primarie assolutamente classiche, con otto candidati, e alla fine poco più di 250 votanti: la Bedori ha vinto con appena 74 voti, anche se lei, con involontaria autoironia, commentò «sono voti di qualità ».
Punta molto sull’avversità alla logica-Expo, e sulla valorizzazione dell’anima ambientalista: la prima iniziativa elettorale sarà , l’8 dicembre, ripiantare 571 alberi in una città soffocata.
Basterà Casaleggio avrebbe preferito una consultazione sul web, ma poi non ha forzato la mano un po’ perchè non esistevano fortissime alternative e un po’ perchè l’opzione di aprire alla «società civile» è stata alla fine scartata, perchè in grado di creare un ulteriore caos che nessuno voleva, con tutti i guai già esistenti in giro.
Persino Dario Fo ha detto «voterò per loro, ma anche loro…».
Infine, dulcis in fundo, è di ieri l’altro una rivolta della base, che contesta la validità stessa delle «primarie» e chiede di rifarle.
Naturalmente non succederà , ma grande è il caos di questa situazione milanese.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Dicembre 5th, 2015 Riccardo Fucile
SOSPESA L’APERTURA DELLE CANDIDATURE, Il PD NON SI PRESENTA ALLA RIUNIONE DEL COMITATO ORGANIZZATORE
È sempre stato il terreno di scontro più evidente perchè è lì, sulle date delle primarie, che si sono scaricate le tensioni politiche di questa lunga corsa verso il 2016, anche quelle consumate dietro le quinte.
Ed è sul calendario che è ripartita la rissa. Nel tutti contro tutti che più o meno pubblicamente sta andando in scena nel centrosinistra – il Pd contro Giuliano Pisapia, Sel contro il Pd e viceversa – a rimanere incastrato è stato proprio l’avvio del motore operativo della consultazione.
Che rischia di essere travolto dal caos che si respira attorno alle candidature e agli schieramenti di campo. A meno che, tra oggi e domani, non ci sia una riunione della coalizione convocata in extremis che sigli la pace su quando chiamare al voto gli elettori.
Il giorno della convocazione ai gazebo era già destinato a slittare, probabilmente dal 7 al 28 febbraio.
Certo, sarebbe stata la coalizione a fissare esattamente e ufficialmente la data, ma anche la questione tempi rientrava nell’accordo raggiunto tra Matteo Renzi e Giuliano Pisapia.
Una sorta di punto di incontro tra quel 20 marzo che il Pd vuole trasformare in un election day nazionale e l’avvio decretato a Milano. Non solo.
Anche la fine del periodo di raccolta delle firme, in questo nuovo schema, avrebbe potuto allungarsi partendo lunedì prossimo e arrivando al 20 gennaio. Questa, almeno, era la proposta arrivata dallo stesso sindaco e recapitata ai partiti. Ma che Sel, come sostiene il Pd, non avrebbe condiviso
Sembrava esserci un’unica certezza per le primarie: il via fissato il 7 dicembre.
Mancavano soltanto gli ultimi dettagli, come la certificazione dei moduli. Questioni tecniche, insomma, che il comitato organizzativo delle primarie avrebbe dovuto decidere ieri. Ma la riunione convocata per le 18 non si è mai tenuta.
Per il Pd – che insieme ad altri pezzi della maggioranza non si è presentato – sarebbe stato impossibile partire senza sapere con esattezza i confini temporali entro cui concludere la raccolta delle firme e soprattutto il giorno del voto.
Un caso formale, insomma, che però ha scatenato il caos. E che nasconderebbe l’esigenza di un chiarimento in più che il Pd attende da Pisapia sul ruolo che il sindaco intende svolgere: sarà “arbitro” o “giocatore” delle primarie, per dirla con il segretario regionale Alessandro Alfieri?
Per capire il clima, basterebbero le versioni contrastanti e soprattutto le accuse reciproche che si sono scambiati i protagonisti.
Ore di tensione che raccontano qualcosa di più di un semplice problema di calendario. “Gli esponenti del Pd non si sono presentati alla riunione del comitato, boicottando di fatto l’avvio delle primarie già decise e sottoscritte da tutta la coalizione”, è scattata la coordinatrice di Sel, Anita Pirovano.
Che attacca: “È un fatto gravissimo e chiediamo al Pd chiarezza e trasparenza sul percorso che si erano impegnati a percorrere. Di giochini di palazzo, Milano non ha bisogno”. Di più. Loro, dice, lunedì vogliono iniziare a raccogliere le firme. E “se non saranno quelle per le candidature, chiederemo a tutto il centrosinistra di firmare per liberare le primarie”.
Ribatte il segretario milanese del Pd, Pietro Bussolati: “Da Sel accuse assurde. Forse non si sono accorti che mancava tutta la coalizione. Il motivo è semplice: dopo il viaggio a Roma del sindaco tutti aspettavano una proposta sulla data che sia condivisa dalla coalizione (e quindi anche da Sel). Nessuno boicotta nulla, noi siamo prontissimi. Semmai consiglierei loro di rivolgersi al coordinatore nazionale Fratoianni che un giorno sì e l’altro pure mette in dubbio la loro partecipazione”.
E nel weekend si tenterà di salvare il salvabile, per riuscire a partire. Ostacoli tecnici non ce ne sono. Ma da superare ci sono steccati politici ancora più difficili da abbattere.
Rimandare la data di inizio della raccolta delle firme equivarrebbe a spedire un ulteriore segnale di confusione. E di divisione.
L’ipotesi su cui si lavorerà resta quella del sindaco: iniziare subito, chiudere la fase della candidature il 20 gennaio, per poi fissare il voto al 28 febbraio.
Alessia Gallione
(da “La Repubblica”)
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