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“SIAMO SENZATETTO A ROMA E VOGLIAMO ESSERE AL SERVIZIO DELLA CITTA: DALLE PULIZIE AL NOSTRO MERCATO SOLIDALE”

Maggio 9th, 2016 Riccardo Fucile

LAVORANO COME FACCHINI, RIGATTIERI, ELETTRICISTI: DUE ANNI FA HANNO DATO VITA A HUMANITAS, UNA VERA E PROPRIA OFFICINA SOLIDALE

“No, non è ancora troppo tardi per noi”. Non è troppo tardi per One Biafall, che viene dal Senegal, e ha 31 anni. Non è troppo tardi per Kajame Mutomb, 45 anni, arrivato dal Congo. Non è ancora troppo tardi per Rajah, originario dello Sri Lanka, che vanta 67 primavere.
A Roma un gruppo di senzatetto ha deciso di smetterla con l’elemosina e di tornare a mettersi in gioco. Sono in 20, tra italiani e stranieri, tutti con un regolare permesso di soggiorno.
Da 2 anni hanno fondato un’associazione culturale, dal nome Humanitas, con l’obiettivo di fare un lavoro utile per loro e per la città . Una vera e propria officina solidale, con cui guadagnare “grazie al sudore della nostra fronte”, raccontano.
“Non vogliamo più solo ricevere, ma anche dare”. È questo il motto dei senzatetto: tutti, per un motivo o per l’altro, vivono alla giornata, lavorando come facchini, rigattieri, elettricisti.
Andre ha 47 anni e nel Camerun era un professore di Matematica. Daniele, 50 anni, era autista in Burkina Faso. Rehamat, per tutti Alì, viene dal Pakistan e di professione faceva il fornaio.
Si sono incontrati per la prima volta in una struttura di accoglienza della capitale, vicino la stazione Ostiense. “Vogliamo dimostrare ai romani, ma anche a noi stessi, che abbiamo ancora le potenzialità  per lavorare. Che siamo ancora in grado di reinventare la nostra vita”, aggiungono con orgoglio.
L’idea di raggrupparsi in un’associazione è venuta a Kajame, padre di 3 figli e leader del gruppo. “Per 2 anni abbiamo promosso iniziative culturali con i rifugiati in arrivo nella capitale. Abbiamo poi stretto rapporti con le cooperative della città  per aiutarle nello smaltimento dei rifiuti”, spiega.
Ora, però, è il momento di strutturarsi. “Vogliamo unire le nostre diverse capacità  per dare vita ad uno spazio comune, una vera e propria officina solidale”, continua. Un’esperienza di lavoro comunitario, insomma, basata sulla raccolta dei materiali usati (riutilizzabili e riciclabili) donati all’associazione dalle famiglie e dagli enti.
“Non si tratta di assistenzialismo — ci tengono a precisare — ma di dare la possibilità , a chi ne è in grado, di mantenersi col frutto del proprio lavoro”.
Parliamo di armadi, comodini, reti, sedie, ma anche poltrone, divani, vestiari ed elettrodomestici da ritirare direttamente a casa, secondo un accordo stipulato con il Comune.
Con quei materiali, poi, Kajame e compagni metterebbero in piedi un mercatino solidale, organizzato e controllato, rivolto per lo più ad altri immigrati residenti nella capitale, che sono sempre alla ricerca di oggetti di prima necessità  da comprare a buon prezzo. “Si tratta anche di una questione igienica — insiste Kajame —. Tanti rom in città  raccolgono materiale direttamente dai cassonetti, per poi rivenderlo in mercatini illegali”.
Già  in passato i membri dell’associazione si sono messi al servizio della città . A settembre, ad esempio, stanchi di vedere la galleria Margherita sempre sporca (nei pressi della stazione Termini, ndr), si sono armati di guanti, scope e buona volontà  per ripulire tutto. E in tanti partecipano come volontari a iniziative ecologiche e giornate di mobilitazione, come quella promossa lo scorso 12 marzo dall’associazione Retake Roma.
Di mollare, insomma, non c’è proprio voglia. Ad ottobre i membri dell’associazione hanno scritto una lettera firmata al governatore Zingaretti, senza avere risposta.
A novembre, invece, si sono incontrati con Emiliano Monteverde, assessore alle Politiche Sociali del I Municipio. Ma la situazione sembra ancora bloccata.
“Dopo Mafia Capitale — spiega Kajame — ci hanno fatto capire che non ci sono più fondi”. Eppure il progetto non sembra essere così lontano dalla realtà . “A Milano, ad esempio, è nata un’esperienza simile, dal nome Di mano in mano, finanziata anche dal Comune — aggiunge il presidente —. Lo stesso succede a Bruxelles, dove sono più di 40 gli operai impiegati nell’officina solidale”.
La vita a Roma non è semplice. “Mi manca il lavoro, senza quello non posso vivere”, sorride amaro Andre.
“Discriminati? Non ci badiamo — risponde Kajame —. Anzi, quando succede cerchiamo di prenderla con un sorriso”.
Per ora gli iscritti si appoggiano ai locali della chiesa S.Lucia del Gonfalone, nel rione Regola, in centro. Ma sognano di riunirsi presto nella propria officina.
Nei prossimi mesi, poi, ci sarà  la possibilità  di partecipare ai bandi della Regione Lazio nel campo dell’inclusione sociale e dell’innovazione. “In tanti, nel gruppo, erano tentati di spostarsi altrove — conclude Kajame —. Ma è proprio questa la nostra sfida: riscattarci qui, a Roma, nella città  che ci ha accolto. E sono sicuro che ce la faremo”.

Raffaele Nappi
(da “il Fatto Quotidiano”)

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MENO TRENTENNI E CULLE VUOTE: “COSI’ L’ITALIA PERDE UNA MAMMA SU CINQUE”

Maggio 9th, 2016 Riccardo Fucile

DAL 2005 CALANO LE DONNE TRA I 30 E I 34 ANNI: “TRAPPOLA DEMOGRAFICA SENZA PRECEDENTI”…”PER METTERE AL MONDO UN FIGLIO LE FAMIGLIE CHIEDONO UNA SICUREZZA CHE IL LAVORO NON DA'”

Hanno tra i 30 e i 34 anni, sono donne e sono sempre di meno.
Nate a metà  degli anni Ottanta, quando la popolazione in Italia già  iniziava a crollare, sarebbero oggi, per età , le nuove “potenziali madri”.
Numericamente però assai inferiori delle loro genitrici, e, viste le circostanze di vita atipiche e precarie, assai in difficoltà  (insieme ai potenziali padri) nel progetto di mettere al mondo dei figli.
Sorelle più grandi delle millennials, laureate ma in grande affanno sul lavoro, le trentenni di oggi sono protagoniste di quella che gli esperti chiamano la prossima e vicina “trappola demografica”.
Nella quale, secondo una previsione del laboratorio di Statistica applicata dell’università  Cattolica di Milano, l’Italia rischia di perdere una “potenziale madre” ogni cinque.
E questo mentre i nati nel 2015 sono stati 478 mila, al di sotto deicinquecentomila bambini l’anno considerati la soglia minima per sopravvivere al declino demografico. Perchè non soltanto le donne tra i 30 e i 34 anni sono meno numerose: erano 2.263.843 nel 2005, sono 1.797.049 nel 2015 (un quinto in meno), ma a giudicare dalla tendenza attuale metteranno al mondo un solo figlio a testa, non di più e non tutte.
A meno di non invertire la tendenza. A meno di non riuscire a sostenere davvero la maternità . E la paternità . E il lavoro femminile, perchè nonostante tutti gli sforzi l’occupazione delle donne in Italia è ancora al 46 per cento, e al Sud le senza lavoro sono, drammaticamente, l’80 per cento del mondo femminile.
«Condivido la definizione di “trappola demografica”», dice Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle differenze all’università  Bicocca, «perchè una trappola è qualcosa in cui si finisce anche senza volerlo ».
Le ragazze, in realtà , «i figli li vorrebbero, anche due o tre, ma nel nostro Paese è sempre più alta la distanza tra il desiderio di maternità  e la possibilità  di realizzarla ». Dietro questo sogno che spesso diventa rimpianto, non ci sono soltanto la precarietà , l’assenza di welfare, le aziende ostili alle gravidanze, la mancanza di congedi maschili, ma anche fattori culturali.
«L’idea sempre più radicata nelle coppie è che al figlio si debba dare tutto. Altrimenti è meglio non farlo nascere. Le donne oggi vivono una contraddizione: da una parte la maternità  è ostacolata da fattori oggettivi, dall’altra è enfatizzata all’estremo. Così, spesso, si finisce per rinunciare».
Un quadro noto, eppure poco o nulla si è mosso.
Lo sottolinea, con amarezza, Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, ex sindacalista con una conoscenza profonda dei nodi che bloccano la realizzazione della maternità  (a due anni dalla nascita di un figlio una donna su quattro non è più occupata).
E, per Fedeli, le parole chiave sono due: lavoro e padri. «Con il Jobs Act abbiamo provato a dare delle risposte, abbiamo ripristinato la legge contro le dimissioni in bianco. Ma è ancora troppo poco. Il cuore è nel lavoro delle donne: se non si investe sull’occupazione femminile, e sulla possibilità  delle potenziali madri di “dividere” il carico della famiglia, i bambini continueranno ad essere pochissimi».
Per diventare genitrici, chiarisce Fedeli, le ragazze vogliono essere prima di tutto autonome.
«Ma la gravidanza è ancora vissuta dalle aziende come un costo insostenibile e, quindi, scoraggiata. Così per non restare disoccupate le ragazze rimandano». E quando coraggiosamente un figlio lo mettono al mondo, e si trovano a dover conciliare la famiglia con la professione, vengono emarginate.
«I ritmi del lavoro sono pensati al maschile: più ore dai all’azienda, più vieni premiato. Ma questo, se hai un bambino, non puoi più farlo». E qui entrano in gioco mariti e compagni, per i quali Fedeli ha presentato una proposta di legge di congedo di paternità  obbligatorio di 15 giorni. «Le esperienze europee ci dimostrano che se si condivide, le donne fanno i figli. E allora è da qui che si può cominciare »
Ci sono però esperienze virtuose. Arianna Visentini fa parte di un team specializzato nella conciliazione tra maternità  e lavoro.
«Sono sempre di più le aziende che ci chiamano, di solito multinazionali. Ci occupiamo di gestire sia l’assenza della lavoratrice- madre sia il suo rientro. Durante la gravidanza l’aiutiamo a restare in contatto con l’azienda, al suo ritorno la sosteniamo nell’ottica dello smart-working, lavoro da casa e flessibilità . Abbiamo visto che nelle aziende che applicano queste buone pratiche crescono le maternità ». Dimostrazione dunque che la conciliazione è una realtà  possibile.

Maria Novella De Luca
(da “La Repubblica”)

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