Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
DA CAPITALE DELLA PADANIA CON BOSSI E MARONI A CITTA’ COME TANTE… OGGI IL CANDIDATO SINDACO NON E’ NEMMENO ISCRITTO AL PARTITO
Come Pachino per i pomodori, Andria per la mozzarella o San Daniele per il prosciutto. A Varese la Lega è un prodotto tipico. Una di quelle realtà talmente radicate sul territorio da risultare inscindibili.
Eppure oggi l’impensabile è diventato possibile. Varese è una città come tante. “Colpa” di Salvini, che ha ripudiato la vecchia logica del campanile o, meglio, ha moltiplicato i campanili per cento, mille, ottomila. Varese, anzi Varès, è diventato un nome da sfoggiare su una felpa, al pari di Perugia, Monza o Roma. Sulle felpe ogni città è uguale all’altra.
Così la città , un tempo culla del pensiero leghista, cartina di tornasole degli umori stessi del partito, non è più un asset strategico, non è più la città dove vincere a tutti i costi. Anzi, meglio prendere le distanze da quella base un po’ ingombrante, che ricorda troppo le radici secessioniste del partito e puntare addirittura su un candidato esterno al partito.
Un “uomo del fare”, senza tessera in tasca, che possa piacere ai leghisti, ma non solo a loro.
Varese ha vissuto il suo ultimo appuntamento con le urne nel 2011. Allora il Carroccio era ancora nelle mani di Umberto Bossi e del suo cerchio magico. Era ancora considerata il perno del movimento. La capitale morale della Padania. Il luogo da dove tutto è nato. La città della prima sede, delle prime battaglie in consiglio comunale.
Cinque anni fa, se pur al secondo turno, le cose andarono come sarebbero dovute andare. Vinse Attilio Fontana, l’uomo della Lega Nord. Varese è rimasta protagonista della storia leghista anche nei mesi e negli anni successivi, quelli delle lotte intestine e della prima stagione del rinnovamento, quando il partito è stato sfilato dalle mani di Bossi, travolto dagli scandali assieme a collaboratori e familiari.
Dopo di lui è arrivato l’uomo simbolo della Lega in città , Roberto Maroni, che proprio a Varese nel 1985 mosse i primi passi sui banchi dell’opposizione, in consiglio comunale.
Con queste premesse è difficile pensare alla città senza una guida saldamente ancorata alla storia del Carroccio.
Negli ultimi 23 anni è sempre andata così: fino al 1997 con Raimondo Fassa. Dal 1998 al 2005 con Aldo Fumagalli, costretto alle dimissioni da uno scandalo. Dal 2006 ad oggi con il doppio mandato del sindaco uscente Attilio Fontana (che oggi, come annunciato da tempo, non è in lista).
La storia è fatta di cicli e quello di Varese capitale della Lega è finito quando il partito è passato sotto la guida del milanese Matteo Salvini.
Così anche a queste latitudini non è più fantasia pensare ad una città senza trazione leghista. Per lui la partita varesina “non è più strategica”, come mormora qualcuno dalle retroguardie leghiste, con la voce rotta dal ricordo degli antichi fasti. Chiaramente il segretario federale non lo ammetterà mai. Anzi. Quando si spinge a calcare i palchi della provincia, la retorica è quella di una volta, le parole d’ordine nuove si mescolano a quelle di sempre.
Manca però l’antica e solida certezza di avere un ruolo chiave nello scacchiere politico: “siamo diventati come Como, Monza o un qualsiasi capoluogo di provincia” lamenta qualche militante.
La Lega, comunque vadano le elezioni, ne uscirà rimaneggiata.
Il candidato scelto dal centrodestra, Paolo Orrigoni, è un giovane uomo di impresa, non ha tessere in tasca e fino a prima della sua candidatura si è occupato della gestione della catena di supermercati fondata dal padre.
Si presenta con una propria lista di sostegno, sul modello della lista che sostenne Maroni alle regionali del 2013.
Con lui nomi noti dello sport (da Cecco Vescovi a Noemi Cantele), dell’impresa e della cultura varesina. Una lista destinata a fare ombra a quelle di partito, dalla Lega a Forza Italia, passando per Fratelli d’Italia e Varese Popolare.
Unico nome di peso messo in campo dalle corazzate è quello di Roberto Maroni.
La narrazione leghista vuole che sia stato catapultato in lista dal segretario cittadino Marco Pinti con un’investitura a mezzo stampa, che il governatore ha poi accettato di buon grado.
Nella realtà dei fatti, in maniera più o meno consapevole, la candidatura di Maroni ha avuto il piacevole effetto collaterale di far slittare al 23 giugno le udienze del processo che lo vede imputato a Milano per turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e di induzione indebita per presunte pressioni per far ottenere un lavoro e un viaggio a Tokyo a due collaboratrici.
Se fino a cinque anni fa il centrosinistra si approcciava alle elezioni amministrative di Varese pensando, nella migliore delle ipotesi, a come perdere con dignità , oggi lo schieramento guidato dal Pd pensa seriamente alla vittoria.
Lo fa, confortato dai sondaggi (di cui è lecito dubitare), con il candidato dem Davide Galimberti che ha messo insieme una coalizione eterogenea (c’è chi dice “troppo”), che raggruppa 5 liste: dalla sinistra un po’ chic alla lista “Cittadini per Varese” infarcita di personaggi con un solido passato nel Pdl.
A complicare le carte in casa Lega Nord anche la lista presentata da Stefano Malerba, per mesi candidato in pectore del centrodestra (poi scaricato per Orrigoni) che con la sua “Lega Civica” potrebbe rosicchiare punti vitali a Carroccio &Co, soprattutto nell’ottica di un probabile secondo turno.
Dato da non sottovalutare anche l’assenza della lista Movimento Cinque Stelle.
Qui, dove il Movimento aveva eletto un consigliere alle passate elezioni, ma al momento di pensare alla candidatura due fazioni si sono contese l’ufficialità fino all’ultimo con il risultato di aver indotto i vertici del movimento a non concedere il simbolo a nessuna delle parti in causa.
Al di là dell’esito del voto, però, quel che è certo è che la notte dei risultati non si guarderà a Varese per misurare la potenza della Lega nel suo feudo.
Una realtà fotografata dall’analisi di Gianluigi Paragone, giornalista che alla Lega deve molto ma che ora liquida così l’esperienza varesina: “23 anni di potere, una grande illusione”.
Alessandro Madron
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
COME LI VEDREBBE IN PUBBLICITA’. MARCHINI SPONSOR DI UN PROFUMO MASCHILE, LA RAGGI DI UN FARMACO DA BANCO, LA MELONI DI UNA PASTA A GRANO DURO, GIACHETTI DI UN FUORISTRADA”
C’è il sexy, la “studentessa”, la ragazza cresciuta e il trasandato.
Sono i profili definiti dal pubblicitario Cesare Casiraghi, della Casiraghi&Greco, dei quattro maggiori candidati a sindaco di Roma.
Telegenia ed efficacia mediatica i criteri scelti per valutare decine di ore di filmati dei quattro protagonisti della campagna romana.
Chi e quale personaggio scegliere in caso di spot pubblicitario?
Certamente il “bell’Alfio”. «Si presenta molto bene, è diretto nelle risposte alle domande che gli vengono poste e conciso nei concetti che esprime senza troppi bizantinismi – spiega Casiraghi — ha inoltre più degli altri un naturale talento alla presenza in video, sia nella postura, che nella mimica facciale, spesso sorridente e forse più degli ha il fisique du role. Lo vedrei bene come testimonial di un profumo pour homme».
Bocciato invece Roberto Giachetti, «un po’ troppo trasandato», nel look, frequentemente con la barba. «In generale però non lo sceglierei come volto per una mia campagna di un prodotto che voglia vendere al più vasto mercato – analizza il pubblitario – a lui affiderei il ruolo di protagonista in uno spot di un fuoristrada».
Virginia Raggi, giovane, curata nel look, ricorda, sempre secondo l’esperto, «una brava studentessa più concentrata nel fare colpo sul professore che sull’audience. Una maggiore naturalezza, qualche puntualizzazione di meno e qualche spunto di ironia o spirito in più la renderebbe televisivamente più sexy e più efficace come testimonial. Sarebbe un’ottima testimonial per un prodotto medicale da banco».
Promossa anche Giorgia Meloni che negli ultimi anni ha lavorato molto sulla sua immagine. Resta il carattere “verace”, «in tv sa essere chiara e precisa nell’eloquio quando la conversazione è non troppo agitata. Alternativamente, quando si lascia prendere troppo – valuta Casiraghi – eccede nella gestualità in una mimica facciale che la fa apparire un po’ “buffa”. La sceglierei come testimonial per un brand dell’agroalimentare, magari una pasta di grano duro».
Un’analisi particolare, quella del pubblicitario, che tuttavia, nella campagna più «social» di sempre può avere un’influenza se non decisiva quanto meno interessante sulla capacità di attrarre elettorato dei singoli candidati.
O forse chissà , può essere uno spunto di riflessione in caso di sconfitta e immaginare magari, se non proprio un’altra professione, di migliorare aspetti oramai predominanti anche in politica.
(da “il Tempo”)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
“NON NE HA BISOGNO, NE HA GIA’ TANTE IN GIRO PER L’ITALIA”… “UN EBREO E’ VISSUTO A CASA NOSTRA E HA PIANTO QUANDO GIORGIO E’ MANCATO, LA COMUNITA’ EBRAICA INSULTA LA MEMORIA DI UN UOMO PERBENE”
“La strada intitolata a mio marito Giorgio Almirante? Non la voglio, non ci serve, è inutile che la propongono. Almirante era una persona troppo corretta, troppo perbene, troppo signore per essere insultato in questa maniera da chi non vuole una strada intitolata a lui”.
Così a La Zanzara (Radio24) la vedova di Giorgio Almirante, Donna Assunta, commenta l’iniziativa strumentale di Giorgia Meloni e la protesta conseguente della comunità ebraica.
“Mio marito non ha bisogno di una via a lui intitolata” — prosegue — “Ce ne sono tante di strade a lui dedicate. Questi che non vogliono una via per Almirante se la facciano loro la strada, magari prestissimo. Mio marito non merita questo atteggiamento”. Donna Assunta si rende protagonista di una infuocata polemica con uno dei conduttori, David Parenzo, al punto che interrompe bruscamente la prima telefonata. Ricontattata dalla trasmissione, ribadisce al giornalista: “Lei dice che mio marito difendeva la Rsi e la razza? Si vergogni. Giorgio aveva solo 17 anni, andava al liceo e adesso lo volete accusare di queste fesserie. La invito a non dire più queste cose. E si deve vergognare chiunque le ripeta. Lei è un ignorante di infima qualità , un povero demente“.
E aggiunge: “Ma vi rendete conto del cretinismo degli italiani? Tra l’altro, a casa nostra ha vissuto un ebreo con tutta la sua famiglia. Era un nostro intimo amico e se c’è uno che ha pianto davvero la morte di Giorgio è questo qui”.
Poi, nel clou dello scontro con Parenzo, si congeda frettolosamente: “Vi saluto. Non parlo coi cretini io”
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
MENTRE LA CLINTON CHE RAPPRESENTA IL VECCHIO APPARATO DEI DEMOCRATICI E’ DATA ALLA PARI CON TRUMP, SANDERS VINCEREBBE CON 15 PUNTI DI DISTACCO
Il clan di Hillary Clinton non nasconde la sua irritazione verso il senatore del Vermont, che si ostina a restare in gara.
Come minimo, pur piazzandosi secondo per voti e delegati, vuole arrivare alla convention di luglio per condizionarla.
Ma non esclude affatto di poter battere Hillary in California e con un colpo simile rimettere in discussione la nomination.
La sua pervicacia, vista dal versante di Hillary, è distruttiva. Prolunga lo scontro interno al partito democratico. Radicalizza i seguaci di Sanders, rendendo più difficile ricompattare tutte le anime della sinistra in vista dello scontro finale.
Distrae Hillary da quello che dovrebbe essere lo sforzo principale cioè attaccare Donald Trump.
Sanders nel linguaggio che usa per condannare l’establishment politico venduto alle lobby, non sembra fare molte distinzioni tra politici democratici e repubblicani.
Un po’ come Ralph Nader, il candidato verde che nel 2000 prese appena lo 0,4% dei voti, sufficienti però (con l’aiuto dei brogli e della Corte suprema) a regalare la Casa Bianca a George Bush.
Ma la narrazione che viene dal campo di Sanders è molto diversa.
E gli sviluppi degli ultimi giorni impongono di prestarle almeno un po’ di attenzione. Anzitutto i sondaggi.
Per quel che valgono, dicono che è in atto una spettacolare rimonta di Trump sulla Clinton, il tycoon newyorchese avrebbe annullato l’ampio vantaggio di Hillary e sarebbe ormai in un pareggio virtuale.
Al contrario, in caso di duello Sanders-Trump gli stessi sondaggi continuano ad assegnare a Sanders una decina di punti di vantaggio.
Poi c’è lo scandalo o presunto scandalo di molestie sessuali che Trump ha tirato fuori contro Bill Clinton.
Sondaggi e scandali convergono nel dire una cosa: Hillary ha molte debolezze, che si possono riassumere in una sola, lei è percepita come un’esponente dell’establishment. Con tutti i segni negativi che questo comporta.
Dal peso della sua storia passata (gli scandali del marito) ai legami con Wall Street.
La novità della prima donna che può diventare presidente, viene quasi cancellata dal fatto che questa è una professionista della politica da sempre, fa parte di quelle èlite contro le quali soffia impetuoso il vento del populismo.
Sanders fa politica da una vita anche lui, ma è sempre rimasto ai margini dell’establishment, in tutti i sensi. Non era neppure iscritto al partito.
E’ senatore di un piccolo Stato del Nord. E’ sempre stato una voce fuori del coro. Non ha preso soldi dalle lobby.
Per questo Sanders si sente non solo autorizzato ma obbligato a continuare la sua campagna: convinto che per battere Trump è proprio lui il cavallo giusto.
Federico Rampini
(da “La Repubblica”)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
“I NOSTRI ASSOCIATI NON POSSONO ORGANIZZARE COMITATI PER IL SI”
«È un dovere di tutti i cittadini vigilare sulla nostra democrazia, oggi sempre più in pericolo».
Carlo Smuraglia, classe 1923, partigiano combattente, già docente di Diritto del lavoro alla facoltà di Scienze politiche di Milano e senatore della Repubblica fino al 2001, chiarisce la posizione dell’Associazione nazionale partigiani sul referendum costituzionale.
E, come presidente dell’Anpi da cinque anni, lo fa evitando accuratamente che ciò possa essere interpretato com e una replica al ministro Maria Elena Boschi, che ha dichiarato: «I veri partigiani voteranno sì».
Professor Smuraglia deferirà gli iscritti contrari alla linea ufficiale dell’Anpi che è per il No al referendum?
«Non l’ho mai detto. Si cerca di alzare i toni. Questo non fa bene al Paese. Il referendum è la massima espressione della libera scelta dei cittadini. Non intendiamo assumere provvedimenti disciplinari contro nessuno. Non è così che si risolvono i problemi. Ma l’Anpi è una associazione e l’iscritto deve attenersi alle decisioni della maggioranza».
È giusto che l’Anpi detti una linea sul voto referendario?
«Perchè non dovrebbe? È una libera associazione. Nello statuto c’è una norma precisa che ci obbliga a difendere la Costituzione contro ogni attacco, a far rispettare sempre lo spirito in cui è stata elaborata. È nelle nostre finalità e se non prendiamo posizione in materia di Costituzione tradiamo la nostra vocazione».
Vi sentite sotto attacco?
«Certamente. Invece di fare quello che si dovrebbe fare in una campagna referendaria onesta, e cioè informare i cittadini, esporre le proprie ragioni, si provoca e si divide».
Come siete arrivati al No?
«Il 21 gennaio, il comitato nazionale ha deciso di aderire alla campagna referendaria, dopo due anni di ragionamenti a riprova che non c’è rigidità da parte nostra, e a manifestazioni per evitare lo stravolgimento dei contenuti e del significato della nostra Costituzione. Il 5 marzo ho firmato una circolare che precisa i limiti del dissenso».
Cioè?
«Ogni iscritto è libero di esprimersi e votare come vuole. Ma non di fare atti contrari alle deliberazioni del comitato nazionale, perchè secondo il nostro regolamento gli iscritti sono tenuti a rispettare lo statuto e a non fare nulla che dannegg i l’associazione».
Quindi non possono organizzare comitati per il Sì?
«Esatto».
Una ragione per il No.
«La riforma toglie ai cittadini una rappresentanza in una delle due Camere, una rappresentanza vera».
C’è chi sottolinea che anche il Pci fosse per abolire il bicameralismo perfetto?
«Ci sono momenti storici in cui ci si pone in una posizione, poi si cambia. Ma noi non siamo dipendenti dall’ex Pci».
Alle feste dell’Unità ci sarete?
«Di norma ci invitano per parlare di Resistenza e libertà . Ma se quella festa o qualunque altra si trasformerà in luogo di propaganda, non avremo motivo di andarci».
Paola D’Amico
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
ANCHE IL SINDACO IN PASSATO ERA STATO MINACCIATO PER LA SUA ATTIVITA’ DI ACCOGLIENZA AI PROFUGHI
Due cartucce e un messaggio chiaro: “Dimettiti”.
Torna nel mirino della criminalità l’amministrazione comunale di Riace, il piccolo Comune della costa jonica calabrese divenuto noto per le pratiche di integrazione dei migranti, che hanno catapultato il sindaco, Mimmo Lucano, al 40esimo posto della classifica di Fortune dei leader più influenti al mondo.
Destinatario del messaggio intimidatorio è il suo braccio destro, Maurizio Cimino, vicesindaco del “paese dell’accoglienza”.
È stato lui, ieri mattina, a trovare l’inquietante messaggio che qualcuno nella notte gli ha lasciato sul parabrezza dell’auto.
Come ogni giorno, poco prima delle 8, Cimino era entrato in macchina per recarsi in Comune, quando ha notato dei fogli di giornale ripiegati sotto il tergicristallo. Perplesso, è sceso dall’auto per rimuoverli, ma nel tirarli via si è accorto che all’interno c’erano due cartucce calibro 12 e un pezzo di carta con la scritta “Dimettiti”.
Immediatamente ha chiamato i carabinieri che hanno sequestrato il materiale e avviato le indagini.
Nessuno si sbilancia su possibili autori o movente. Al momento, gli investigatori battono tutte le piste.
“Non mi sarei mai aspettato un simile gesto, nè riesco a pensare a qualcosa che abbia potuto spingere qualcuno a indirizzare nei miei confronti un tale atto”, ha dichiarato Cimino, secondo il quale non c’è nulla, nè nella sua vita privata, nè nel suo lavoro quotidiano, che possa spiegare la grave intimidazione che ha ricevuto.
Non è la prima volta che l’amministrazione comunale di Riace finisce nel mirino.
Nel 2014, in occasione delle ultime elezioni comunali, i cani del figlio del sindaco sono stati avvelenati e qualcuno ha sparato contro il portone dell’associazione Città Futura, vero e proprio fulcro dell’attività di accoglienza a Riace, e contro la taverna solidale “Donna Rosa”.
Nel 2013 invece, le politiche di accoglienza di Mimmo Lucano hanno infastidito gli attivisti dello sconosciuto Partito nazionalista, che hanno ben pensato di far recapitare in Comune una lettera di insulti e minacce, con cui si prometteva al sindaco “battaglia come hanno fatto i fratelli del Ku Klux Klan”.
Nessuno degli autori delle minacce che nel tempo hanno colpito il sindaco e l’amministrazione di Riace è mai stato identificato, ma Lucano e la sua squadra si sono sempre detti tranquilli perchè ogni volta che la criminalità — organizzata e non — ha bussato alla loro porta, il paese non ha esitato a schierarsi a difesa dei suoi amministratori.
Alessia Candito
(da “La Repubblica”)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
PANICO IN SALA E MOLTI CORRONO FUORI, PREOCCUPATI PER L’AUTO… CADE IL MITO DELLA DIVERSITA’ ANTROPOLOGICA DEI GRILLINI
Siamo a Piana del Sole, periferia della Capitale, la scena è da tipica campagna elettorale: c’è una sala, con il candidato sindaco grillino Virginia Raggi e il deputato, sempre dei 5 Stelle, Stefano Vignaroli.
Nello spezzone di video si intravede una slide sul tema dei rifiuti.
A un certo punto un signore interrompe l’incontro: «Chi ha chiamato i vigili, che stanno a fa’ le multe?!».
Poi quasi si scusa: «Non voglio fare “terrorismo”, ma…».
Immediatamente scatta il panico tra il pubblico e dalla sala vanno via in tanti preoccupati dell’intervento sanzionatorio dei vigili urbani.
E Virginia Raggi? La candidata grillina sembra spiazzata, sorride ma non commenta nè «bacchetta» sull’accaduto.
Ci pensa invece Vignaroli: «A Piana del Sole non si vede un vigile nemmeno…», con una battuta che ci si aspetterebbe da un «italiano impenitente» (fino a qualche anno fa si sarebbe detto «un berlusconiano») sorpreso in doppia fila.
Il video che gira in rete, come era prevedibile, ha scatenato ironia e polemica: soprattutto nei confronti dell’intransigenza a targhe alterne che da qualche settimana (tra inchieste e «sospensioni») sta interessando i Cinque Stelle.
Non si spiega, in effetti, la reazione scomposta dei presenti— di cui è lecito ipotizzare la simpatia per il MoVimento di Beppe Grillo — all’annuncio del signore trafelato se, parafrasando la retorica pentastellata, questi non avevano proprio nulla da temere dal vigile.
A meno che qualcuno — tra il pubblico o sul palco – pensava in cuor suo che la «superiorità antropologica», nell’accezione grillina, potesse finire anche in doppia fila.
Antonio Rapisarda
(da “il Tempo“)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
IL CANDIDATO PRESENTA LA SUA GIUNTA DI PESO MENTRE UN RENZI OTTIMISTA SCENDERA’ AL SUO FIANCO: ORA LA RAGGI FA MENO PAURA
Può sembrare strano, ma c’è un’aria nuova nel Pd romano, fino all’altro ieri fiaccato dalla paura che la zavorra del passato non desse troppe chances di arrivare al ballottaggio.
E invece complici gli ultimi sondaggi prima del congelamento a norma di legge, che fotografavano una frenata della Raggi e una crescita di Giachetti malgrado il rientro in campo di Fassina, la sensazione che «ce la possiamo fa’» si è diffusa fino ai piani alti. Tanto che Renzi potrebbe scendere nel parterre capitolino il 2 giugno, per dare una volata al suo uomo verso la agognata conquista del ballottaggio.
E con un tempismo degno di nota, Stefano Fassina fa sapere prima che Giachetti indichi la sua futuribile Giunta, che non lo appoggerà al ballottaggio: se lo avesse fatto dopo, qualcuno avrebbe potuto pensare che non si ritenesse soddisfatto dei nomi, che non fossero sufficienti i ponti gettati a sinistra.
E invece no, il candidato di Si e degli antagonisti preferisce chiudere la saracinesca qualche ora prima, dicendo che non appoggerà nessuno: forse consapevole che tra le sue fila, nella sinistra di Sel, molti pur senza ammetterlo, sarebbero più che propensi ad intese più o meno strette per appoggiare Giachetti al ballottaggio e poi raccoglierne i frutti in caso di vittoria.
Nessun inciucio coi partiti
Questo anche se l’interessato, cioè il candidato Pd, non solo chiarisce di aver scelto la sua giunta «in piena autonomia» e dunque senza accordi con i partiti, ma va ripetendo che «io non farò nessun apparentamento, andrò al ballottaggio con quelli che mi appoggiano ora, nessun accordo o inciucio, e per questo annuncio la giunta subito». Come a dire che una volta scoperti i nomi i giochi sono fatti e dopo nessun accordo sulle poltrone sarà possibile e tecnicamente fattibile.
Insomma nessuna tentazione.
«Il mondo è rotondo e a forza di andare a sinistra ci si ritrova a destra: non appoggiare Giachetti al ballottaggio significa scegliere la Raggi», sentenzia Matteo Orfini con una tesi che sarà il refrain di tutta la resa dei conti a sinistra di qui a un mese.
«Per noi le porte della ricostruzione del centrosinistra a Roma sono sempre aperte, perchè questo ci chiedono gli elettori». Ma il candidato della sinistra usa la carta dell’economia. «
Le distanze programmatiche con il Pd sono enormi. Giachetti propone di tornare alla Roma degli anni ’90 e 2000 che ha contribuito ad aumentare le diseguaglianze. Non ci sono le condizioni per una convergenza programmatica», sbatte la porta l’ex viceministro di Letta.
Segnali di fumo agli ex Pci
Peccato che per il popolo della sinistra, in caso di sfida all’Ok Corral con la Raggi, sarà difficile dire no a un ex comunista come Livia Turco, ex ministro dei governi Prodi-D’Alema, che Giachetti indica come assessore al welfare e immigrazione; o a tre ex assessori di Marino: Alfonso Sabella, capo gabinetto, presidio di tutte le firme di un’amministrazione a rischio come quella romana; Silvia Scozzese, bilancio e razionalizzazione della spesa del Campidoglio.
Per non dire del segnale verso l’anima più attenta al sociale, lanciato con la riproposizione di Marco Rossi Doria, maestro di strada ed ex sottosegretario alla Istruzione, quale assessore alla scuola-università -formazione.
Dunque sei donne e tre uomini, altro segnale preciso.
Mentre sul fronte della legalità , cruciale dopo mafiacapitale, pure Carla Ciavarella, dirigente penitenziario, al patrimonio; e Francesco Tagliente, ex Questore di Roma, alla sicurezza.
E poi Claudia Servillo, all’ambiente; Stefania Di Serio, trasporti; Marino Sinibaldi, per cultura e turismo.
«Con questa squadra parlo ai romani e anche al popolo della sinistra e vediamo quale sarà la risposta», dice Giachetti.
«Rispetto Fassina, ma sono più interessato agli elettori della sinistra romana».
Carlo Bertini
(da “La Stampa“)
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Maggio 24th, 2016 Riccardo Fucile
“IL PATRIMONIO DI MARCO? SOLO DEBITI, AVEVA VENDUTO TUTTO PER IL PARTITO”… “LA SUA EREDITA’ POLITICA A CHI PROSEGUE LA LOTTA, MA SIAMO DIVISI”
Il patrimonio di Pannella? Le sue battaglie e un debito da un milione di euro. Maurizio Turco, dieci anni da tesoriere del Partito radicale, non ha voluto parlare davanti alla salma del leader per non gettare altro sale su ferite profonde.
Ma ora rompe il silenzio: «Questa camera ardente è stata aperta due anni e mezzo fa, quando si è concluso il congresso dei Radicali italiani. Da allora Pannella ha subito umiliazioni e insulti gratuiti. Purtroppo ho visto tanto sciacallaggio attorno a Marco».
È una scissione?
«Più che scissione, uno scisma. Noi abbiamo offerto un disarmo unilaterale. Loro hanno deciso di fare altro».
Ce l’ha con i giovani che guidano i Radicali italiani? Con Riccardo Magi, con Marco Cappato? Anche con Emma Bonino?
«Con quelli che dicono di aver vinto il congresso. Ci sono due linee politiche contrapposte. C’è un gruppo che si è coagulato attorno a Magi, Cappato e a Valerio Federico. Ora parlano di unità , ma su cosa? Dovremmo mettere in piedi il partito che loro volevano fare e Marco non ha mai voluto? Come può essere ricomponibile, dopo due anni e mezzo?».
Rottura insanabile.
«Hanno negato a Marco il confronto e il dibattito politico. In due anni, per 365 volte a mezzogiorno ci siamo riuniti nella nostra sede. E loro non partecipavano alle riunioni e, se attraversavano il salone, lo facevano per andare al bagno o a prendere un caffè. Senza salutare Marco. Per due anni e mezzo non li abbiamo quasi mai visti. In una delle ultime riunioni Marco disse “Voi ci accusate di voler distruggere il partito perchè noi vogliamo continuare a fare lotte radicali”. Sono loro che stanno personalizzando».
E il j’accuse della Bonino?
«Non mi interessa, a me interessa quel che si è detto nelle riunioni del partito. Per me stare con Marco non era visitare i malati, era impegno politico e umano. C’è un limite di decenza politica che non si può superare».
Perchè non c’è mai stato il chiarimento con la Bonino?
«Dopo la rottura politica lui ha sempre cercato il chiarimento. La chiamava e lei lasciava squillare. Mandava messaggi ed Emma non rispondeva. A Radio Radicale lo disse anche, “vediamoci, Emma!”. Ma lei no, non voleva chiarirsi».
Pannella ci ha sofferto?
«Sicuramente, sì».
A chi andrà l’eredità ?
«L’eredità di Marco sono le sue lotte politiche, dunque andrà a chi le porterà avanti».
E il patrimonio?
«Marco non aveva più niente. Si è venduto tutto per il partito, per finanziare la politica. Nella cassa del partito c’è un milione di euro, in debiti. Non c’è una guerra attorno alle spoglie di Pannella, c’è un dissesto manifesto».
Ha lasciato testamento?
«Anche se ci fosse riguarderebbe Marco Pannella, i suoi pacchetti di sigarette, le sue cravatte e due buchetti a Riccione che non ha fatto a tempo a vendere e che andranno ai parenti. E così è finito il patrimonio di Pannella».
E la radio, la sede, i simboli? Pannella ha lasciato scritto come gestire il suo lascito, materiale e immateriale?
«La “roba” è intestata a una associazione, che si riunirà e deciderà . Siccome gestivo con lui e sui miei atti c’è la sua firma, Marco non mi ha lasciato detto niente. Ci riuniremo per eleggere il nuovo presidente».
Cosa ha provato nelle ore del lutto ?
«Lo dico con la frase di Marco ai funerali di Luca Coscioni, quando vide che lo osannavano come un leader. ”I radicali sono buoni solo da morti”. Sa perchè la gente quando Pannella è morto si è emozionata? Perchè la tv di regime ha tirato fuori i fatti e l’Italia, per la prima volta, ha saputo chi era e si è riconosciuta».”
(da “il Corriere della Sera”)
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