Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
L’AZIENDA ITALIANA REPLICA DURO: “NON TOLLERIAMO FORME DI ODIO RAZZIALE”
Ai militanti di Pegida non è piaciuta l’idea dell’azienda Ferrero di impreziosire le confezioni dei cioccolatini Kinder con le immagini dei calciatori della nazionale tedesca da bambini, in occasione dei campionati europei di calcio.
Il motivo è che nella selezione degli 11 calciatori scelti ci sono anche Jèrome Boateng e Ilkay Guendogan, il primo di origine ghanese, il secondo turca, che secondo i militanti del movimento xenofobo e anti-islamico non rappresentano la vera anima nazionale tedesca.
Su una pagina Facebook di Pegida del Land Baden-Wuerrtemberg, i militanti di Pegida hanno colto l’occasione per diffondere messaggi d’odio, stigmatizzando la scelta dell’azienda italiana e lanciando appelli al boicottaggio delle amate barrette al cioccolato.
“Mi fanno vomitare”, “Non li compro più”, “Povera Germania” sono alcuni dei commenti comparsi nei post, fino a un commento che vorrebbe essere ironico: “Sono forse foto segnaletiche di futuri terroristi?”
Sulla pagina di Pegida, non viene neppure indicato il fatto che le due confezioni incriminate fanno parte di un’edizione speciale per gli Europei di calcio
La reazione di Ferrero non si è fatta attendere. “Ci distanziamo espressamente da ogni forma di odio razziale o discriminazione”, ha scritto l’azienda sulla sua pagina Facebook dove aveva presentato l’edizione speciale dei cioccolatini Kinder, “e non le accettiamo nè le tolleriamo neppure nella nostra comunità di Facebook”.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
BEN 4.900 DEI PEZZI NON AVEVANO LE CARATTERISTICHE RICHIESTE DALLA NORMA, MA IL PROCESSO FINIRA’ CON LA PRESCRIZIONE
Isolatori sismici, ancora un rinvio per il processo: sarà prescrizione.
Dovrebbe bastare questo titolo sparato giorni fa in copertina dal giornale online news-town.it, in un Paese serio, per scatenare sacrosante reazioni di indignazione.
Perchè quello che la magistratura non riesce a portare a termine a l’Aquila prima che evapori tutto nel nulla per esaurimento dei termini non è, come già avevamo scritto, un processo qualunque.
È un processo dove lo Stato avrebbe dovuto metter la faccia per fissare un principio: sulla prevenzione dei terremoti non si scherza.
Tanto più dopo una catastrofe come quella del 2009 in Abruzzo.
Ricordate?
Subito dopo il sisma il governo Berlusconi varò un progetto (C.a.s.e.) per fare 19 «new town» con 4.600 appartamenti antisismici in palazzine che come moderne palafitte si basassero su innumerevoli pilastri dotati di isolatori in grado di attenuare con l’elasticità l’impatto di future scosse. Giusto.
Il guaio è che 4.899 di questi isolatori, forniti dalla Alga, non avevano il «bollino» Eta (European Technical Approval) dopo i test che «sollecitano le strutture simulando strappi tellurici in tre direzioni come nei terremoti veri».
La perizia di Alessandro De Stefano e Bernardino Chiaia del Politecnico di Torino confermò: gli isolatori della milanese Alga presentavano «materiali diversi da quelli forniti in gara», l’acciaio non era come fissato di 2,5 millimetri ma solo di 2, c’erano «criticità ai fini del funzionamento e della sicurezza» e così via.
Tanto che, sottoposto il dispositivo a stress, il risultato era stato «un grave danneggiamento del dispositivo stesso spiegabile come conseguenza del fenomeno stickslip».
Bene: il processo per definire la verità giudiziaria sulle responsabilità , implicitamente riconosciute dagli stessi imputati se è vero che il legale dell’azienda parlò di «oltre 2.000 dispositivi che la stessa Alga intende sostituire prima dell’esito dell’incidente probatorio», è cominciato tra cavilli e ostacoli vari con un ritardo abissale.
E da allora si trascina, vergognosamente, di rinvio in rinvio con la difesa che pare puntare diritta sulla prescrizione.
Che sarebbe una vera schifezza.
La prossima udienza, dove dovrebbero confrontarsi il perito dell’accusa Alessandro De Stefano, docente al Politecnico di Torino, e gli esperti chiamati a difesa dei due imputati Gian Michele Calvi e Agostino Marioni, direttore dei lavori del progetto C.a.s.e. e dirigente della Alga, è prevista il 21 ottobre.
Ma ci arriveremo mai, a quel confronto?
Gian Antonio Stella
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
SONO 23.000 LE FAMIGLIE IN LISTA D’ATTESA MA OGNI ANNO VENGONO RIASSEGNATI SOLO UN CENTINAIO DI IMMOBILI SU MILLE LIBERATI.. L’ATER DELLA REGIONE GESTISCE 50.000 APPARTAMENTI, IL COMUNE 16.000
Ventitremila famiglie in lista d’attesa. Mille appartamenti di proprietà pubblica liberati ogni anno di cui appena un centinaio riassegnati agli aventi diritto.
Ma soprattutto una gestione delle case popolari che fa acqua da tutte le parti pesando sulle tasche dei cittadini a causa della scarsa trasparenza nel sistema di assegnazione degli alloggi, della mancanza di controlli e dell’assenza di una strategia di recupero delle morosità .
Il risultato? “Gli alloggi assegnati oggi sono relativi a richieste presentate nel 2012. E’ un lasso di tempo lunghissimo che viene usato quasi come un alibi per le occupazioni di chi è in stato di necessità ”, denuncia Daniele Barbieri, segretario generale del sindacato unitario degli inquilini Sunia. Come se non bastasse, poi, Comune e Regione si rimpallano le responsabilità politiche di un sistema che non funziona e che periodicamente torna alla ribalta per le case assegnate a prezzi stracciati a chi non ne ha diritto.
È con questi presupposti che l’emergenza abitativa della Capitale si prospetta uno dei temi più spinosi per il prossimo inquilino del Campidoglio che, da un lato, dovrà rispondere alla domanda di edilizia sociale e di manutenzione degli immobili nella Capitale e dall’altra far quadrare i conti intervenendo per eliminare gli abusi.
La partita è decisamente delicata. Anche perchè in ballo ci sono i delicati equilibri di potere fra Comune e Regione: se, infatti, al Campidoglio appartengono circa 16mila alloggi nella città di Roma, alla Regione fa capo invece l’Ater, l’azienda romana che si occupa di gestire poco meno di 50mila appartamenti ex Iacp di cui 499 di proprietà del Comune.
I rapporti fra i due enti sono però assai tesi come testimonia il fatto che, il 7 aprile scorso, il Comune ha chiesto e ottenuto il pignoramento dei conti dell’Ater dopo che Equitalia ha accertato 72 milioni di cartelle esattoriali per mancati pagamenti della tassa sulla casa sin dagli anni ’90.
Per evitare il collasso dell’Ater, il Comune, la Regione e l’azienda hanno avviato una negoziazione per definire un rientro a tappe forzate sulla falsariga di quanto previsto nel piano finanziario Ater 2016.
Il problema è che però l’Ater vive solo degli incassi degli affitti e non produce utili. Inoltre è sotto pressione per via della morosità degli inquilini.
Senza contare che per legge è obbligata ad ammodernare gli impianti (ascensori inclusi, negli immobili con anziani e portatori di handicap) con investimenti spesso rimandati a danno degli inquilini che minacciano ritorsioni legali.
Difficile quindi immaginare che l’Ater possa facilmente restituire il dovuto al comune, verso il quale vanta a sua volta un centinaio di milioni di crediti.
Se si esclude un apporto di risorse da parte della Regione, per l’azienda guidata dal commissario straordinario Giovanni Tamburino c’è una sola soluzione: quella del taglio dei costi per realizzare economie da destinare al pagamento del debito con il Campidoglio.
L’operazione non è contabilmente impossibile: come risulta dalla nota integrativa al bilancio di previsione 2016, l’Ater realizza circa 132 milioni di ricavi, ma spende poco meno di 26 milioni per i dipendenti e ben 62,7 milioni per i servizi.
Una voce, quest’ultima, in cui confluiscono i costi di gestione dei condomini come spese di acqua, energia elettrica e riscaldamento (rispettivamente 10, 6 e 18,299 milioni), ma anche 1,182 milioni di compensi per professionisti, 1,6 milioni di spese postali, circa 200mila euro di emolumenti cda e collegio dei revisori, 50mila euro di assicurazioni autovetture.
“In assenza di ulteriori risorse esterne, si potranno solo ridurre i costi del servizio, già ai minimi storici, tagliare i costi interni o vendere il patrimonio immobiliare per sistemare il bilancio senza risolvere realmente i problemi dell’Ater e più in generale quelli del meccanismo di funzionamento delle case popolari e di tutti gli incentivi pubblici stanziati per contrastare il disagio abitativo” spiega a ilfattoquotidiano.it Emiliano Guarneri, responsabile su Roma del sindacato degli inquilini Sunia.
Se questa è la situazione degli immobili gestiti a Roma dall’Ater, le cose non sono molto diverse per gli alloggi che fanno parte del patrimonio abitativo del Campidoglio come testimonia la ricognizione depositata alla Corte dei Conti dal commissario Francesco Paolo Tronca.
“In questa fase il Patrimonio e l’Avvocatura stanno continuando le verifiche sui titoli e l’eventuale aggiornamento dei canoni — spiegano dallo staff del commissario Tronca — Per quanto riguarda gli alloggi popolari (Erp) la stima degli sgomberi si attesa sui 5 a settimana con la puntuale riassegnazione degli immobili agli aventi diritto. Dall’inizio del mandato di Tronca sono stati assegnati oltre 260 alloggi, di gran lunga più di quanto si sia fatto nelle passate gestioni”.
Nonostante l’impegno del Comune, le procedure però restano lunghe, lente e ripetitive: per beneficiare di un bonus casa o fare richiesta di un alloggio pubblico o ancora domandare un contributo per le spese bisogna compilare moduli diversi che, fra l’altro, creano differenti graduatorie per l’area metropolitana romana senza peraltro confluire in un’unica banca dati.
Così accade che le liste di attesa si moltiplicano e i tempi si allungano: per ottenere l’agevolazione richiesta da Comune o Ater ci vogliono ormai più di quattro anni dal momento della presentazione della domanda.
“Gli alloggi in assegnazione oggi sono relativi a richieste presentate nel 2012. E’ un lasso di tempo lunghissimo che viene usato quasi come un alibi per le occupazioni di chi è in stato di necessità . Cambiando le regole del gioco le cose possono sensibilmente migliorare — spiega il segretario generale Sunia, Daniele Barbieri — Oggi più che mai, in condizioni di risorse scarse, riteniamo indispensabile il miglioramento della gestione del patrimonio di edilizia pubblica”.
In che modo? Con un bando unico che consenta la creazione di una sola graduatoria sempre aperta e aggiornata che incrocerà i dati degli immobili e delle agevolazioni disponibili assegnando subito il dovuto a chi ne ha diritto.
“In questo modo si velocizzeranno le pratiche, si conoscerà il fabbisogno della popolazione in tempo reale e si conterrà il fenomeno delle occupazioni abusive” conclude Barbieri ricordando che l’operazione andrebbe accompagnata da una seria strategia di recupero delle morosità .
Al prossimo inquilino del Campidoglio andrà insomma il compito di avviare una vera rivoluzione nel sistema di assegnazione delle case popolari.
Sempre che il futuro primo cittadino voglia davvero smantellare un sistema opaco troppo spesso utilizzato come serbatoio di voti dalla politica comunale e regionale.
Fiorina Capozzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
IL DRAMMA NEL DRAMMA NEL CANALE DI SICILIA
In una giornata funestata dal naufragio davanti alle coste libiche, un altro cadavere si aggiunge alla lista dei morti, quello di una donna che ha perso la vita durante la traversata nel Canale di Sicilia; ma prima di morire ha consegnato la sua bimba di soli 9 mesi a una compagna di viaggio, che l’ha portata sana e salva a Lampedusa.
Stamattina una motovedetta della Capitaneria di porto ha sbarcato una ventina di persone, in prevalenza donne, che avevano necessità di cure: presentavano ustioni da benzina sul corpo.
Con loro viaggiava la piccola, in braccio a una ragazza.
I migranti sono stati tutti trasportati all’ambulatorio dell’isola, e con loro la bimba, che ha ricevuto le cure di Pietro Bartolo, il medico che presidia l’unico avamposto sanitario di Lampedusa e il cui lavoro più che ventennale è uscito dall’ombra, insieme alla sua umanità , con il film di Gianfranco Rosi “Fuocoammare”.
Ecco cosa racconta Bartolo: “L’ho visitata, sta bene. Le abbiamo dato del latte, cambiato i vestiti. Era leggermente disidratata, ma niente di serio. E’ rimasta in ambulatorio per alcune ore, poi l’ho accompagnata io stesso nel centro d’accoglienza, consegnandola alla polizia. E’ in buone mani”.
E aggiunge sconsolato: “I migranti sentiti hanno riferito tutti la stessa versione e questo ci fa pensare che le cose siano andate proprio così, che la mamma della bimba sia proprio morta”.
A distanza di ore, infatti, è crollata la speranza che la donna potesse trovarsi tra i 120 migranti giunti successivamente al molo con un altro mezzo della Guardia costiera.
Lampedusa, che non ha mai fatto il callo alla tragedia dei migranti, cerca di dare un nome alla piccola, probabilmente giunta dal Mali.
Oggi altri bambini, ben 250, ma con i loro genitori, sono arrivati al porto di Palermo sulla nave Dattilo della Guardia costiera che aveva a bordo 1.045 persone soccorse nel Mediterraneo.
(da “Huffingtonpost“)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
LA DENUNCIA DE “EL PAIS”: GLI ALIMENTI PER I SOLDATI SAREBBERO STATI RIVENDUTI SUI MERCATI DI BEIRUT PER UN GUADAGNO DI 4 MILIONI
Un traffico di cibo per un ammontare di quattro milioni di euro vedrebbe al centro il contingente Onu Unifil, di stanza in Librano per monitorare la pace tra Israele e le milizie di Hezbollah.
Lo riporta il quotidiano spagnolo El Pais che in un’articolata inchiesta indicherebbe anche nei battaglioni Ghana (870 caschi blu) e Italia (1206 soldati e attualmente al comando del distaccamento) quelli più coinvolti nel traffico di alimenti.
La gola profonda
Secondo quanto riporta il giornale spagnolo il cibo, inviato come rifornimento delle truppe, sarebbe stato sottratto per poi essere rivenduto all’esterno.
L’Inchiesta di El Pais parte dalle rivelazioni di tre operatori internazionali e tre locali di Unifil relative a quanto avveniva nei 21 centri di distribuzione degli alimenti destinati ai 10.000 caschi blu del contingente.
La gola profonda, R.D., dipendente di un’impresa subappaltatrice dell’italiana Es-Ko, che dal 2006 al 2015 ha vinto gare per diversi milioni di euro, dichiara che è almeno dal 2010 che il traffico va avanti.
Incaricato di supervisionare la distribuzione per conto di Es-Ko, R.D. avrebbe riferito alla ditta italiana di alcune irregolarità .
«Mi chiesero delle prove e a quel punto decisi di far credere ai miei colleghi che mi interessava entrare nella truffa». Le testimonianze dei sei dipendenti hanno confermato quanto raccontato dal supervisore, oggi sospeso dall’incarico in attesa di accertamenti sul suo operato.
Il portavoce: “Non c’è ancora alcuna prova, ma indaghiamo da tempo”
Il portavoce di Unifil, Andrea Tenenti, ha dichiarato che al momento «non ci sono ancora prove che possano confermare una sistematica operazione legata al traffico di alimenti, o ancor meno il coinvolgimento di alcuni contingenti» anche se ha confermato che «da tempo» l’Unifil sta svolgendo indagini interne sulle denunce e che gli accertamenti continuano.
Anche il direttore general del ministero libanese, Alia Abbas, ha confermato che sono in corso delle inchieste.
Mentre la Procura militare di Roma ha deciso di verificare la notizia: «Si tratta di acquisire le informazioni e di stabilire se sussistono profili di rilevanza penale militare» ha dichiarato all’Ansa il procuratore militare di Roma, Marco De Paolis.
Come avveniva la truffa
Nell’inchiesta giornalistica di El Pais, la gola profonda ha raccontato anche il meccanismo che vedrebbe coinvolti alcuni caschi blu.
Il cibo veniva trasportato da sette camion (per un totale di 80 tonnellate di carico) dal magazzino centrale di Kasmiyeh ai centri di distribuzione.
I camion, una volta caricati, venivano chiusi con una sbarra che riporta un codice poi ricopiano in una nota di carico. Quest’ultima indica le quantità di cibo e i nomi dei prodotti e deve essere firmata da un soldato e controfirmata da due dipendenti del magazzino.
In quel momento scattava la truffa. «Prima di uscire dal magazzino – racconta R. D. – gli autisti inviavano la nota di carico con whatsApp ai caschi blu dei diversi punti di distribuzione e questi guardavano quanto cibo richiesto fosse già disponibile nel centro di cui erano titolari. Una quantità identica alle eccedenze veniva quindi trattenuta sul camion per poi essere rivenduta all’esterno del contingente.
In un mercato alla periferia di Beirut sono state trovate confezioni di gamberi surgelati con etichette che recitano: «Prodotto non destinato alla vendita. Solo per il consumo interno ed esclusivo dell’Onu».
Solo la vendita in nero dei gamberi surgelati, dopo l’innalzamento dei prezzi del 2005, avrebbe fruttato oltre mezzo milione di euro ogni anno.
Appena approvato il rifinanziamento per 155 milioni
Giusto qualche giorno fa, il 16 maggio, è stata autorizzata la proroga per tutto il 2016 della partecipazione del contingente italiano alla missione Unifil in Libano per una spesa di 155 milioni e 639mila 142 euro.
(da “La Stampa”)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
IL QUOTIDIANO INGLESE: “ACCORDO RITOCCATO, SOSTITUENDO LA PAROLA “PRESTITO” A “VENDITA”… NEGLI USA IL PRESTITO E’ ESENTASSE, LA VENDITA SOGGETTA AL 40% DI TASSAZIONE
Una frode al fisco da decine di milioni di dollari.
Nel giorno in cui festeggia l’ennesima vittoria alle primarie (76 per cento dei voti nello Stato di Washington) e in cui ripartono le contestazioni violente contro di lui (scontri con la polizia in New Mexico), su Donald Trump piovono accuse pesanti in un campo su cui negli Stati Uniti è vietato scherzare, quello del fisco.
A lanciarle è il quotidiano britannico Telegraph, entrato in possesso di documenti che proverebbero la “frode fiscale” della quale si sarebbe reso responsabile il tycoon di New York, ormai sicuro candidato alla Casa Bianca per il Grand Old Party, il partito repubblicano.
The Donald, spiega il giornale in un lungo e dettagliato articolo apparso nella sua edizione online nel primo pomeriggio, ha messo la propria firma su un accordo commerciale con il Bayroc Group (l’azienda immobiliare che all’epoca – circa dieci anni fa – stava costruendo il famoso TrumpSoHo, il grattacielo nel quartiere trendy newyorchese di SoHo).
Oltre al grattacielo l’accordo con Bayrock prevedeva anche altri due progetti per i quali il candidato-miliardario aveva concesso l’uso del suo nome e nel 2007 concluse un accordo con un’azienda islandese (FL Group) che aveva acconsentito ad un investimento di 50 milioni di dollari in quattro consociate di Bayrock.
L’investimento fu in seguito mascherato da ‘loan’, un prestito.
Per le leggi dello Stato di New York la vendita di una quota di partecipazione in una società comporta da parte dei soci il pagamento di oltre il 40 per cento di tasse sui “guadagni” (cifra che si basa sull’aliquota fiscale massima) ma se l’investimento viene registrato come un prestito, il pagamento non è dovuto.
Alcuni ex dipendenti di Bayrock (che hanno fatto causa all’azienda) sostengono adesso che l’accordo “era stato strutturato” in maniera fraudolenta, in modo da evadere circa 20 milioni di dollari di tasse, attraverso la vendita (anche essa mascherata) di partecipazioni.
Inoltre i partecipanti all’accordo (tra cui dunque anche Trump) mascherarono la vendita sotto forma di prestito per evitare il pagamento di circa 80 milioni di tasse dovuti in base alle stime sui profitti futuri derivanti dall’investimento immobiliare.
Il Telegraph ha ottenuto le copie delle lettere che Trump firmò sia per la versione originale dell’accordo che per quella successivamente modificata come “prestito”. I documenti, ha reso noto il giornale, sono stati inviati in copia a Trump e ai suoi avvocati, per consentire loro il diritto di replica.
A giro di posta il legale di The Donald Alan Garten ha risposto sostenendo che il miliardario newyorchese “non ha avuto nulla a che fare con quella transazione” e firmando le lettere si limitò a riconoscere l’accordo in veste di “socio accomandante”. Secondo l’avvocato Trump pur firmando “non stava assolutamente approvando l’accordo”.
Per il Telegraph invece le copie del contratto finale dimostrano senza alcun dubbio che l’accordo richiedeva anche l’approvazione di Trump.
Toccherà adesso stabilire all’Irs (il fisco Usa), qualora lo scoop del Telegraph venga riconosciuto come seria documentazione, se procedere o meno contro The Donald per l’eventuale frode fiscale.
Sicuramente diventeranno maggiori le pressioni per costringerlo a rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi (rese pubbliche finora in modo incompleto”.
Intanto, continua a smarcarsi dal dare il suo endorsement al discusso e controverso unico candidato rimasto in corsa nelle primarie dell’Ogp lo speaker della Camera Usa, Paul Ryan.
Che rifiuta di voler sostenere Trump per la nomination repubblicana per la presidenza Usa, dicendosi non pronto ad appoggiare un neofita della politica che non ha mai occupato una carica elettiva.
In un incontro con i giornalista a Capitol Hill, Ryan ha negato precedenti notizie secondo cui avrebbe sostenuto Trump.
(da “La Repubblica”)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
CLAMOROSO AUTOGOL DEL LEGHISTA CHE SI GIOCA IL VOTO DEI ROMANI, IMBARAZZO DELLA MELONI, IRONIA DI STORACE: “GIORGIA INTITOLI A SALVINI UNA RAMPA DEL GRA A PAGAMENTO”
Non solo la strada ad Almirante, ma anche la vecchia storia del pedaggio sul Grande Raccordo Anulare.
A tirarla fuori il leader della Lega, Matteo Salvini, ancora, evidentemente, poco pratico della Capitale.
«Il Gra va pagato? Il modello è quello svizzero: una volta all’anno, un bollino» dice candido candido Salvini ai microfoni di Radio 24 a La Zanzara.
«Il sistema autostradale italiano lo uniformerei alla maniera svizzera – incalza – lo farei pagare 40 euro da Nord a Sud, e giri dove vuoi e come vuoi».
Peccato che l’Italia non è la Svizzera e che Roma non è Losanna.
Scoprire poi il “nervo” aperto del pedaggio sull’unico anello che circonda la Capitale, e dunque senza alternative credibili, è stata senza dubbio una bella scivolata su una buccia di banana.
Una chicca per gli avversari, guidati dal leader de La Destra, Francesco Storace che dapprima incalza la candidata sindaco di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: «Salvini ci faccia capire. Siamo a Roma e non in Svizzera. Davvero vuol far pagare il Grande Raccordo Anulare? È questa la rivoluzione per la Capitale? Parole chiare, per favore, anche dalla candidata sindaco che parla d’altro…», poi l’immancabile ironia: «La Meloni intitoli a Salvini una rampa del Raccordo a pagamento».
Il tempo passa, la Meloni tace.
«La proposta del duo Salvini-Meloni di voler far pagare il pedaggio a chi prende il Gra è da Trattamento sanitario obbligatorio. Triste epilogo per la Meloni e il suo partito – attacca il capolista e coordinatore della Lista Marchini, Alessandro Onorato – facevano finta di difendere le periferie, mentre sono ormai i servi sciocchi della Lega Nord».
E ancora il Pd con Stefano Pedica, che bolla come «folle» la proposta di Salvini; e i verdi con Mascia: «Non servono ulteriori tasse, ma un concreto piano di mobilità sostenibile».
Ci mette il cappello anche il candidato sindaco del Codacons, Carlo Rienzi: «Dovrebbero essere pagati i romani per utilizzare il Gra nelle ore di punta, ipotesi assurda».
Non è la prima volta che la Lega di Salvini propone di introdurre il pedaggio per il Raccordo. Da ultimo nel novembre del 2013, quando l’allora candidato alla segreteria della Lega Nord, Matteo Salvini, scrisse su facebook: «Grande Raccordo Anulare di Roma, cioè la tangenziale, 68 chilometri di strada, 58 milioni di utenti all’anno. Gratis. Con tutto il rispetto per gli amici romani, è giusto? La Lega ha presentato un emendamento alla legge di Stabilità , per il pagamento del pedaggio anche lì. La proposta leghista passerà , o se ne fregheranno?».
Per fortuna, se ne sono fregati.
Eppure, il «pallino» del Raccordo evidentemente è ancora talmente fisso nella mente di Salvini da proporlo nel bel mezzo della campagna elettorale che vede, per la prima volta a Roma, il centrodestra correre diviso proprio per una scelta sollecitata oltre misura dal leader del Carroccio.
In serata la penosa retromarcia di Salvini: ” Non ho mai pensato di far pagare il pedaggio Gra ai romani. Noi le tasse vogliamo abbassarle».
Peccato che esista la registrazione…
Soltanto dopo, arriva, finalmente la dichiarazione del ruota di scorta Giorgia Meloni: «di far pagare il Gra non se ne parla. Inventatevene un’altra».
C’è tuttavia poco da inventare.
A volte è sufficiente lasciar fare.
(da “il Tempo”)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
LA PROPOSTA FIRMATA INSIEME A GABRIELLA GIAMMANCO E’ APERTA A TUTTI I PARLAMENTARI … IL MODELLO E’ GIA’ LEGGE NEGLI USA, GRAN BRETAGNA, GERMANIA, FRANCIA E SPAGNA
Una legge per rendere possibili le adozioni ai single , anzi «alle persone singole non coniugate», come scrive Laura Ravetto nella sua proposta che ha prsentato stamattina a Montecitorio, insieme a Gabriella Giammanco, sua compagna di partito in Forza Italia, seconda firmataria della sua legge.
Oggi in Italia esiste una legge, la 183 del 1984, che le adozioni per i single già le prevede, ma soltanto in casi particolari, grazie al molto discusso articolo 44.
«Siamo rimasti uno degli ultimi Paesi in Europa che non si è posto il problema dell’adozioni per le persone singole», dice Laura Ravetto.
Quindi la deputata sciorina la lista dei Paesi dove i single possono adottare, dalla Germania alla Gran Bretagna, arrivando agli Stati Uniti passando per la Francia e la Spagna.
Poi aggiunge: «Io adesso sto per sposarmi e quindi non mi riferisco a me, ma sono convinta che ci sono tantissime persone, soprattutto donne, in grado di poter dare molto amore in caso di adozione».
Laura Ravetto ha preparato due proposte di legge, la prima «molto ottimistica» che prevede di modificare completamente la legge sulle adozioni, nel solco di quanto il Parlamento si sta già preparando a fare.
Quindi la seconda proposta: «In questa si modifica soltanto l’articolo 44, lì dove si prevede che un bimbo possa essere adottato da un single solamente se orfano».
Laura Ravetto non si preoccupa della reazione che la sua proposta di legge susciterà nel suo partito, non esattamente liberal su tutti i fronti.
Spiega: «Per una proposta come questa cerco consensi dentro tutto il Parlamento, non certo soltanto dentro Forza Italia».
Da oggi la possibilità di firmare è aperta a tutti gli altri parlamentari.
Alessandra Arachi
(da “il Corriere della Sera“)
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Maggio 25th, 2016 Riccardo Fucile
“VOI VI SIETE FATTI FREGARE”…. NEL SUD DURI SCONTRI CON LA POLIZIA
Cala una notte rosa e quasi africana sulla rotonda di Fos-de-Mer. Le ciminiere delle raffinerie sputano lame di fuoco alte nel cielo. I poliziotti restano immobili nel buio a separare fisicamente il passato e il futuro della Francia.
A terra sono rimasti pneumatici bruciati e sassi. Venti agenti della gendarmerie presidiano la rotonda per impedire altri blocchi. Il sole incomincia a tramontare sul mare, sulle raffinerie e su questo pezzo di Francia che lotta.
Che lotta e non vuole cambiare.
«Non credete a questa menzogna del progresso! Vi siete fatti fregare, voi italiani. Non faremo lo stesso. Questo legge sulla flessibilità del lavoro è un ritorno al passato, vogliono togliere di mezzo il sindacato e disporre dei lavoratori a piacimento. Lo chiamano futuro, ma è una nuova forma di schiavitù».
Roger Lamur racconta la giornata che ha paralizzato la Francia dalla sua sedia di segretario generale della Cgt per il distretto di Bouches du Rhà’ne.
Marsiglia è a quaranta chilometri, la Camargue vicinissima. La televisione trasmette in continuazione la mappa dei benzinai rimasti a secco. Le code di automobilisti.
E dalle finestre dell’ufficio di Lamur si possono vedere quasi in faccia i poliziotti chiamati a presidiare la zona. La rotonda divide il deposito della Total e la sede del sindacato più arrabbiato di Francia.
«Erano le quattro e mezza del mattino quando sono arrivati – racconta Lamur – elicotteri, droni, cannoni ad acqua. Era ancora buio. Non hanno detto nulla e hanno iniziato a sparare. Sembrava la guerra».
Da ventiquattro ore, cinquecento lavoratori di Fos-sur-Mer, metalmeccanici, chimici e portuali, impedivano ai camion di uscire dal deposito per andare a distribuire il carburante.
Il governo ha deciso di intervenire. «E questa la chiamano democrazia!», tuona Lamur sotto un paio di baffi grigi Anni Settanta.
«Ci hanno costretti a rifugiarci nella sede del sindacato. Sembrava un assedio. Hanno bloccato tutte le uscite. Ci hanno tenuti prigionieri per due ore».
Non può essere un caso che sia successo proprio qui. Molti ricordano ancora il blocco delle raffinerie Toy-Riont del 1968, quando 15 operai su 300 riuscirono ad occupare e bloccare l’impianto per una settimana intera.
Erano giorni di camminate e biciclette, quasi tutte le auto ferme sotto casa. Allora Fos-sur-Mer era ancora chiamata «la California della Provenza», ma stava per diventare uno dei più importati poli siderurgici d’Europa.
Veniva qui un giovane Jean-Cluade Izzo, redattore per La Marseillaise e non ancora romanziere di successo, a raccontare la trasformazione.
«I circa 25 mila operai che lavoravano nei cantieri venivano dalla Turchia, dalla Jugoslavia, dal Maghreb. Il lavoro era a ciclo continuo, non si doveva fermare mai. E si stava consumando una terribile strage occulta. Ogni tanto qualche operaio spariva. Poi il corpo veniva ritrovato in una betoniera».
Questo si può leggere nella biografia di Izzo firmata da Stefania Nardini. È una storia che ancora senti raccontare nei bar.
«Siamo una città che ha pagato sulla sua pelle ogni singola conquista sindacale» dice Roger Lamour. «Non torneremo indietro».
Le barricate sulla rotonda hanno fatto quattro feriti e sei arresti. In mezzo alla bolgia, ancora prima che spuntasse l’alba, c’era anche Jean-Philippe Murru, nonni sardi, figli francesi, operaio dell’azienda chimica Kemone, insieme ad altri cinquecento. «Volevano chiudere la fabbrica. Stavano per mandare a casa noi e quelli della Assometal. Ma lottando, tutti insieme, siamo riusciti a scongiurare il pericolo. Avete capito? La precarietà serve a renderci tutti soli».
Cosa non va in questa nuova legge sul mercato del lavoro?
«Tutto non va» dice l’operaio Murru. «Ci possono licenziare a piacimento. Possono obbligarci a fare quanti straordinari vogliono, pagandoli di meno. Non garantiscono più la stessa assistenza sanitaria ai lavoratori. Ma la cosa più grave è che hanno imposto questa legge in totale disprezzo della democrazia, tagliando fuori il Parlamento».
Alle nove di sera, sul tavolo della sala riunioni ci sono vino e patatine.
Cosa farete? «Adesso abbiamo bisogno di qualche giorno per raccogliere le idee. Siamo provati dagli scontri. Prima di bloccare il deposito, avevamo fatto sei manifestazioni inutili. Ma torneremo in strada. Torneremo a far sentire la nostra voce».
Avete bloccato la Francia, dicono i telegiornali. «Non è vero. Il governo ha riserve di carburante per due mesi, ma ha preferito lasciare questo caos in modo da mettere la gente contro il nostro sindacato. Prima il caos, poi la guerra. Ecco la loro strategia».
Niccolò Zancan
(da “la Stampa”)
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