Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
IL RITIRO DI FASSINA AVVANTAGGIA IL CANDIDATO DEL PD
Dagli ultimi sondaggi politici su Roma emergono clamorose novità nello scenario elettorale che vede i 5 stelle fortemente insidiati dal PD.
La società autrice del sondaggio è la Tecnè su committenza della RTI.
Il campione stimato infine è stato di mille unità con un livello di significatività (o margine di errore dello 0,1%).
L’ultimo sondaggio politico su Roma fa registrare delle significative variazioni rispetto a quanto riportato nella precedente rilevazione effettuata dalla stessa Tecnè il 5 maggio.
Tale fenomeno è dovuto principalmente all’uscita di scena di Stefano Fassina e a una lieve flessione dei due candidati del centrodestra Giorgia Meloni e Alfio Marchini. Tutto ciò, secondo i recenti sondaggi politici, ha finito col favorire il candidato del Partito Democratico Roberto Giachetti passato nel giro di una settimana, dal 20 al 27% dei consensi.
Le rilevazioni mostrano ancora saldamente in testa la candidata del Movimento 5 Stelle Virginia Raggi con il 30,2% delle preferenze.
Mentre due candidati del centrodestra Giorgia Meloni e Alfio Marchini, risultano essere in sostanziale parità al 19% .
(da agenzie)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
CRESCE IL MALUMORE TRA I PARLAMENTARI DEL MOVIMENTO PER LA GESTIONE DEL CASO PIZZAROTTI DA PARTE DI DI MAIO, ANCHE LA BASE E’ SPACCATA
“Prendete un treno, incontratevi a metà strada e parlatevi. Se volete vi accompagno…”. Tatiana Basilio, deputata del Movimento 5 Stelle, è una grillina abituata a dire le cose senza girarci troppo attorno e si rivolge direttamente a Luigi Di Maio e a Federico Pizzarotti: “I problemi non si risolvono mandando una mail o pubblicando vecchi messaggi whatsapp. Non sono questi i principi del Movimento”.
È una delle poche voci in chiaro, molti parlamentari pentastellati esprimono il proprio scontento, ma preferiscono non uscire allo scoperto.
Il caso del sindaco di Parma, quindi la sospensione decisa dai vertici pentastellati, ha colto di sorpresa molti di loro.
Ma soprattutto, a gettare deputati e senatori nello sconforto e a mandare quasi in tilt il Movimento, sono gli strumenti utilizzati: una mail firmata “staff Beppe Grillo” in cui si chiede a Pizzarotti di fornire la documentazione relativa all’avviso di garanzia per abuso di ufficio e il conseguente rifiuto da parte del sindaco perchè il mittente è anonimo.
Poi ecco che arrivano la sospensione e la pubblicazione di messaggi, che non hanno mai avuto risposta, inviati da Pizzarotti a Di Maio.
Nel caos generale è quest’ultimo in particolare, a finire sotto attacco. Sia in quanto responsabile Enti Locali del Movimento, e quindi colui che ha l’incarico di gestire i Comuni amministrati dai 5 Stelle, ma soprattutto perchè considerato da più parti il leader in pectore dei grillini, quello con i maggiori contatti con Milano e Genova, quindi con Davide Casaleggio e Beppe Grillo.
Contro Di Maio si scaglia nuovamente Federico Pizzarotti, che ieri lo aveva chiamato in causa direttamente per non essersi interessato della questione Parma e oggi lo invita “ad andare sul posto invece di stare in tour”; secondo il sindaco di Parma infatti “con una crisi di questo tipo credo che si debbano annullare gli impegni”.
Contro Di Maio si scatena il fuoco amico pentastellato.
“Se Di Maio e Pizzarotti vogliono continuare a scannarsi, adesso si parla anche di querele, facciano pure – dice un senatore pentastellato che preferisce restare anonimo – noi continuiamo a lavorare nelle commissioni e a Palazzo Madama. È il motivo per cui siamo stati eletti. Ma il Direttorio sappia che in questo modo facciamo del male a noi e alla politica”.
Nel Movimento si percepisce quasi un senso insofferenza davanti a questo regolamento di conti interno tra il sindaco ribelle, che già nel 2014 era entrato in rotta di collisione con Gianroberto Casaleggio, e i vertici del Movimento.
A pesare è anche la disparità di trattamento: via il dissidente Pizzarotti, salvo invece l’ortodosso Filippo Nogarin, anche lui indagato, ma difeso dal Direttorio senza neanche una votazione online sul blog come prevederebbe il regolamento.
Già la senatrice Elisa Bulgarelli aveva sintetizzato così quanto successo nell’ultima settimana: “Oggi il partito 5 stelle esulta, il Movimento 5 Stelle muore un altro po’”. Un altro po’, perchè la sospensione di Pizzarotti è stato solo un nuovo strappo che si è consumato tra i grillini.
Sempre la deputata Basilio, che fa presente come il Comune di Parma adesso abbia i conti in ordine proprio grazie a Pizzarotti, fa appello al dialogo.
Dialogo che in questa circostanza appunto non c’è stato: “Alle volte bisognerebbe fare una bella discussione, anche litigare, ma poi mettere un bel punto. Si va a capo, si volta pagina e si inizia un nuovo capitolo per il bene del Paese con gli obiettivi che tutti noi eletti, compreso Pizzarotti, perseguiamo da quattro anni. È così che si fa in una grande famiglia come il Movimento 5 Stelle. Io la vedevo e voglio vederla ancora così”.
Il senso di smarrimento è generale, anche tra gli attivisti che, come dimostra un’analisi condotta dal sito de La Stampa, sono spaccati a metà tra chi è d’accordo con la sospensione e chi no.
Alcuni deputati rispondono al telefono e dicono: “Io non ho capito cosa sta succedendo. Anzi, non ci ho capito più niente. Chiedete a Di Maio”.
Il leader in pectore prova a difendersi dagli attacchi interni e anche da quelli che arrivano dal Pd: “Io penso che il M5S abbia semplicemente applicato una regola. Abbia fatto rispettare le regole. Avevamo un avviso di garanzia nascosto per tre mesi e questo è un dato inconfutabile. E per questa ragione noi abbiamo applicato una regola. Siamo il Movimento 5 Stelle, non il Partito Democratico”.
Contro Di Maio si scatena il Partito Democratico che cavalca l’onda per colpire il mondo pentastellato nel suo punto debole, cioè l’amministrazione locale alla vigilia del voto.
Interviene ironica il ministro Maria Elena Boschi: “Credo che mandare una email anonima per chiedere a una persona di lasciare, una persona che poi è un sindaco eletto dai cittadini ci riporti, onestamente, molto indietro nel tempo. Non credo che in un partito democratico si possa mandare una mail anonima”.
Anche il capogruppo democratico alla Camera, Ettore Rosato non si risparmia: “Noi, migliaia di iscritti, circoli e amministratori. Chi sbaglia risponde alla legge e non al guru”.
Poi, tra gli altri renziani, Ernesto Carbone lo definisce il “reuccio di una corte bizantina”, per Stefano Esposito Di Maio “è sempre più isolato”.
Anche il presidente Matteo Orfini lancia l’affondo: “Il grillino sindaco di Pomezia ha ammesso candidamente di aver nascosto per mesi di aver ricevuto anche lui un avviso di garanzia (poi archiviato). Dunque immagino che Di Maio ora provvederà a sospendere pure lui”.
In effetti anche questo passaggio non è sfuggito ai più ortodossi tra i grillini che, alla luce delle tante contraddizioni, ricordano quell’intervista in cui lo stesso Di Maio diceva che per un avviso di garanzia un rappresentante delle istituzioni deve dimettersi.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
IN QUELL’INTERVISTA IN CUI SOSTENNE CHE DI FRONTE A UN AVVISO DI GARANZIA TUTTI DOVREBBERO DIMETTERSI DISSE UNA GRANDE CAZZATA
Capisco che la cosa imbarazzi e ferisca i 5 Stelle, ma l’errore non lo hanno fatto (al momento) Nogarin o Pizzarotti: lo ha fatto Di Maio.
Perchè Pizzarotti dovrebbe dimettersi? Al momento (e sottolineo al momento) il suo avviso di garanzia per abuso d’ufficio è effettivamente, come lui stesso ha detto, “un atto dovuto”.
Pizzarotti è indagato in merito alle nomine del direttore generale e di un consulente del Teatro Regio. Con lui sono indagati l’assessora alla Cultura (Laura Ferraris) e tre membri del CdA del Teatro Regio.
Le due nomine furono decise al di fuori del bando pubblico perchè, al termine della “ricognizione esplorativa” (cioè il bando), nessuno dei trenta candidati parve avere i requisiti necessari. Così fu deciso, da Pizzarotti e dai quattro indagati, di prendere due dirigenti fuori dalla rosa.
L’indagine nasce da un esposto in Procura presentato dal senatore Pd Giorgio Pagliari. Questo esposto ha aperto un’indagine. Ne consegue che Pizzarotti sia indagato come risultato di un “atto dovuto”. Nè più nè meno.
Se si dimettesse sarebbe un imbecille, e Pizzarotti imbecille non è.
Vale per ora sostanzialmente lo stesso per Nogarin, indagato a seguito (pure qui) di un normale atto amministrativo (ha assunto precari alla nettezza urbana di Livorno).
Chi fa cadere su di loro le colpe dei disastri immani commessi da decenni di governi orrendi di centrodestra e centrosinistra, o è una Picierno o è in totale malafede. O entrambe le cose.
Pizzarotti è appena stato sospeso dal M5S, che lo accusa di non avere avvertito per tempo in merito a un avviso di garanzia di cui sapeva da mesi. “Sapeva della indagine, trasparenza è primo dovere”.
Sarà , ma messa così sembra più che altro un dispetto a un dissidente che non una scelta logica
Allo stato attuale, nessuno dei due deve dimettersi. Perlomeno per ciò che ci è dato sapere dagli atti.
Discorso diverso sarebbe, per esempio, se Pizzarotti avesse nominato amici o parenti (do you know Alemanno?).
Come scrive Marco Travaglio stamani: “E’ ovvio che Pizzarotti non si debba dimettere solo perchè è finito nel registro degli indagati: altrimenti, per far fuori un sindaco, basterebbe una denuncia dell’opposizione. E così tutti i sindaci di Italia cadrebbero come birilli”.
Non diciamo sciocchezze, su: quelle lasciamole all’Unità e a Mary Therese Meli.
Si dirà : eh, ma tutta (o quasi) la stampa equipara Parma e Livorno a Lodi o gli altri 3987 casi che riguardano e costantemente travolgono il Pd renziano. Sai che scoperta.
Lo avevamo già visto con Quarto, assurta a centro del mondo sebbene il sindaco 5 Stelle avesse avuto l’unica colpa di negare il ricatto subito, opponendosi però (che è quel che più conta) alle infiltrazioni camorristiche.
Non mi pare la stessa cosa fatta, per dire, dal Presidente campano del Pd.
L’informazione, in Italia, funziona quasi sempre così: se sbaglia il Pd è normale, se (forse) sbaglia il M5S bisogna invadere la Polonia. E’ così dal primo V-Day dell’8 settembre 2007.
C’è però un punto che i 5 Stelle non devono negare: la responsabilità di Luigi Di Maio. Ha sbagliato e non possono non ammetterlo.
Lasciamo stare i deliri che qua e leggo in Rete, tipo “giustizia a orologeria per far perdere al M5S le amministrative”: erano le stesse cose che diceva Berlusconi, e se i grillini vogliono continuare a definirsi “diversi” dagli altri devono isolare al più presto questi casi umani che hanno frainteso la politica per calcio e tifano neanche fossero in curva.
La stessa Virginia Raggi, a Radio Città Futura, se da un lato ha giustamente detto come “sia doveroso capire bene quali siano le circostanze prima di poter dire qualcosa”, dall’altro lambisce pericolosamente il berlusconismo più becero laddove afferma che “altrimenti si avrebbe una sorta di strapotere della magistratura“.
Certi toni lasciamoli ai Brunetta qualsiasi.
Il punto è un altro: se siamo tutti d’accordo che esista caso e caso, e che ci si debba dunque dimettere ben prima della sentenza definitiva di fronte all’evidenza di un’accusa infamante, o di una intercettazione imbarazzante (i casi Guidi, Graziano, Uggetti, etc), occorre anche essere tutti serenamente d’accordo che tutto questo imbarazzo nei 5 Stelle sia stato generato da “quella” intervista di Luigi Di Maio.
Sento già i difensori a oltranza del grillismo: “Eh, ma Luigi voleva dire altro, intendeva sottolineare la scarsa attenzione di Renzi alla questione morale, etc”. Certo. Ma la forma è sostanza e non l’ho deciso io di fare il parlamentare e di correre pure come Presidente del Consiglio. Lo ha deciso Di Maio.
E per Di Maio la forma è appunto sostanza. Non conta solo quello che vuole dire, ma anche e soprattutto ciò che dice. E come ciò venga percepito.
Oltretutto, essendo un 5 Stelle, Di Maio è condannato alla mitraglia anche solo se sbaglia un congiuntivo. Renzi può sbagliare sempre (e lo fa), Di Maio non può sbagliare mai.
C’è poco da girarci intorno: quella intervista, e quella frase, furono una cazzata. Una gigantesca cazzata.
Anche contenutistica, perchè Di Maio — sostenendo genericamente che tutti dovessero dimettersi dopo un avviso di garanzia — neanche pareva dimostrare di conoscere la differenza minima tra “indagato” e “imputato”.
Nulla di grave, tutti sbagliano. Io per primo. Pensate: per un po’ ho persino creduto alla buona fede di Luis Eccetera Orellana. E per un po’ ho persino creduto alla Befana che vien di notte con le scarpe tutte rotte.
Ma se a sbagliare è il candidato (de facto) Premier della maggiore forza di opposizione, l’errore fa più rumore. E Di Maio lo sa. Lo sa bene.
C’è, all’interno dei 5 Stelle, una sorta di gelosia nei confronti di chi — Di Maio su tutti — è diventato troppo più importante degli altri.
E’ una gelosia stupida, se nasconde solo l’invidia per chi è più famoso di te (cosa peraltro giustissima: se Di Battista va in tivù più di una Lombardi c’è un motivo. Di Battista sa fare tivù, la Lombardi no. O sa farla per il Pd, perchè induce a votare tutti tranne il M5S). Se però quella “gelosia” tradisce non invidia, ma la paura che si vada così perdendo l’originaria natura collettivista dei 5 Stelle, allora non è una paura stupida. O perlomeno non del tutto infondata.
Le prossime settimane ci diranno molto sulla capacità effettiva dei 5 Stelle nel metabolizzare gli errori e nel gestire un difficile percorso di crescita che li costringe a diventare adulti in fretta. Molto in fretta.
Si diventa adulti anche e soprattutto sbagliando: purchè però si ammetta l’errore.
Che, al momento (e sottolineo al momento), non è di Nogarin o Pizzarotti, che in città devastate (dagli altri) se non altro ci stanno provando, ma di Luigi Di Maio.
Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
AUTOGOL, AUTOLESIONISMO, BOOMERANG: BOCCIATA LA SCELTA
Autogol, autolesionismo, boomerang. Così sui principali quotidiani italiani viene analizzato lo scontro fra Federico Pizzarotti e i vertici del Movimento 5 Stelle, che ha portato alla sospensione — e quasi certa prossima espulsione – del sindaco di Parma, protagonista del principale successo nella storia di M5S a livello nazionale.
Le voci critiche sono pressochè unanimi e appartengono tanto a firme considerate particolarmente critiche quanto a quelle solitamente più vicine alle corde del Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio.
“Il Movimento 5 Stelle dimostra di non riuscire a risolvere le sue ambiguità . Da una parte la ricerca forsennata di una purezza ontologica e dall’altra l’incapacità di rispettare le regole della democrazia” scrive Claudio Tito su Repubblica, evidenziando il diverso trattamento riservato dai vertici di M5S al sindaco di Livorno Filippo Nogarin, anch’egli indagato ma tuttora sostenuto dall’alto. La sospensione di Pizzarotti viene letta come conseguenza di “una forma di integralismo che non accetta dissenso o anche soltanto opinioni articolate”. Dentro M5S “quando l’unica strada che si segue è quella fondamentalista della superiorità morale e politica, tutto si trasforma in una caccia alle streghe”.
Sul Corriere della Sera l’analisi è affidata a una voce solitamente molto critica verso il Movimento 5 Stelle, Pier Luigi Battista.
Anche lui vede nella disparità Pizzarotti/Nogarin “criteri elastici, arbitrari, disancorati da regole certe”. Dentro M5S il “morbo forcaiolo che replica i fasti forcaioli del 92 e li declina con un furore incontenibile si sta trasformando in un clamoroso boomerang” e diventa un “crampo settario al punto che il giudizio su un amministratore indagato finisce per dipendere dall’eventuale violazione delle regole del Movimento e non dalla eventuale violazione della legge”. Per Battista M5S si comporta da “setta” con “l’arbitro che diventa esso stesso norma”.
Marcello Sorgi firma l’editoriale per La Stampa e sottolinea che “le contraddizioni fra le prime affermazioni dei vertici del Movimento, da Di Maio a Fico, che sulla caduta delle teste dei sindaci prendevano tempo, e la durezza della decisione anonima dello “staff” di Grillo, si spiegano con i cigolii della catena di comando dopo la scomparsa di Casaleggio e il rallentamento del lavoro sulla rete, che serviva a indirizzare i militanti”.
Sul Manifesto, che apre il quotidiano con la foto di Beppe Grillo e il titolo “L’inceneritore di Parma”, Norma Rangeri parla di “sguardo corto dei 5 Stelle”.
Nel suo fondo, la direttrice scrive di una “sentenza di espulsione su un caso inesistente” decisa senza discussione, senza confronto e senza valutazione di merito. Si tratta della “plateale rappresaglia nei confronti di un sindaco con il grave difetto di svolgere il mandato ricevuto dai cittadini. È così evidente la pretestuosità della motivazione usata per risolvere i conti in sospeso tra Pizzarotti e Grillo che la scelta di buttarlo fuori dal Movimento si riveli alla fine un boomerang destinato a colpire proprio chi lo ha lanciato”.
Sul Messaggero, Mario Ajello scrive che “questo episodio contiene una serie di brutte morali. Una è quella dell’esemplarità . Ovvero, il primo vincitore nella storia grillina, quello che fu il simbolo della nuova politica contraria alla classica politica e che ha conquistato una città importante dell’Italia artistica e produttiva e da molti non viene neppure considerato un cattivo amministratore, diventa l’esempio più eloquente di come il Dio della Purezza Pentastellata non guarda in faccia a nessuno quando deve castigare”. C’è poi “la doppiezza” per cui quello che vale per Pizzarotti non vale per Nogarin. “L’epurazione non è mai un sacrificio necessario — conclude Ajello — e può diventare invece un micidiale boomerang”.
Marco Travaglio firma il fondo sul Fatto Quotidiano, che ospita poi più opinioni sul caso Pizzarotti.
“Come trasformare una scelta di per sè sacrosanta — la sospensione dal Movimento di un amministratore indagato — in una plateale ingiustizia e in un clamoroso autogol. Ingiustizia perchè il sindaco di Livorno Filippo Nogarin, indagato anche lui e per bancarotta fraudolenta (reato, sulla carta, più grave dell’abuso di ufficio contestato al suo collega parmigiano) non è stato sospeso. Autogol perchè è ampiamente prevedibile che l’inchiesta su Pizzarotti, scaturita come atto dovuto dalla scombiccherata denuncia di un avversario politico (un senatore Pd) finirà nel nulla”. Secondo Travaglio sospendere solo Pizzarotti “è un regalo ai vecchi partiti che a Parma hanno portato il Comune al fallimento”. Oltretutto Pizzarotti è il simbolo della vittoria grillina e “una bandiera storica non andrebbe ammainata, ma anzi sventolata con orgoglio”.
Sempre sulle pagine del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi vede “una sorta di autocondanna alla zavorra”, per cui “ogni volta che sono lanciatissimi verso grandi traguardi, si sabotano da soli”.
Secondo Flavia Perina “è il doppio taglio della parola onestà gridata in piazza”, un doppio taglio “affilatissimo, talvolta mortale”: M5S non dà un bello spettacolo anche “per lo stalinismo 2.0 delle 5 righe anonime con cui “lo Staff” ha chiesto conto a Pizzarotti delle indagini”.
Per Antonio Padellaro “la sospensione adottata dai vertici rischia di assumere gli sgradevoli contorni di una ritorsione nei confronti di un iscritto troppo indipendente”; così si finisce per dar “ragione agli avversari quando li definiscono come una setta intollerante e forcaiola”.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
SICURAMENTE NON NE GIOVERANNO MARCHINI E LA MELONI
Contasse solo la statistica, la domanda si ridurrebbe a una soltanto: chi ci guadagna, adesso che un tribunale ha costretto Stefano Fassina in panchina?
E chi può ambire ai consensi di una sinistra radicale ormai orfana di candidati? Saranno pure pochi voti, ma nell’aspra contesa per il Campidoglio sembrano davvero decisivi.
«Una parte finirà nell’astensione – sostiene il professore Roberto D’Alimonte – il resto si dividerà tra la Raggi e Giachetti. Questa vicenda svantaggia il centrodestra».
Ecco il paradosso di un pasticcio fatto di firme e moduli, allora: il fallimento di una lista nata per sgambettare Renzi e infastidire i cinquestelle sarà ossigeno proprio per gli odiati avversari.
«Se in questa storia dovessi immaginare un ranking del beneficio — ragiona la sondaggista Alessandra Ghisleri (Euromedia Research) — allora direi: Raggi, Giachetti e Marchini»
Mai come stavolta la Capitale è terra di conquista per le pulsioni più estreme e impronosticabili.
«È molto difficile prevedere cosa accadrà — ammette Roberto Weber di Ixè — Quello che posso dire è che a Roma ci sarà una risposta dell’elettorato molto radicalizzata ». Il punto politico parte esattamente da questo ragionamento: se chi sceglie Fassina lo fa in chiave anti-renziana, come potrà virare sul Pd e avvantaggiare proprio Giachetti? «Il motivo — spiega Antonio Noto, a capo di Ipr – è statistico. La quota marginale che andrà al candidato del Pd sarà importantissima. Dovesse guadagnare anche solo il 2% dei voti, questi potrebbero essere decisivi per andare al ballottaggio. Anche perchè questi elettori di certo non sceglieranno nomi di centrodestra».
Marchini e Meloni, appunto. Osservano la palude burocratica in cui sono finiti i vendoliani e non sembrano darsi pace.
Marchini avrebbe preferito un altro finale. «Non credo che ci sia dietro un disegno, penso però che bisognerebbe dare rappresentanza anche a questa sinistra. Abbiamo di fronte uno scenario pericoloso per la tenuta sociale della città . Ha visto i disordini di ieri? Non credo siano casuali».
Detto questo, l’imprenditore preferisce non dare ascolto alle interpretazioni degli istituti demoscopici: «È già difficile prevedere se chi ha votato Pd continuerà a farlo, figurarsi sapere se gli elettori di Sel sceglieranno il Partito democratico. Siamo nel campo della chiromanzia…».
Nel dubbio, comunque, a largo del Nazareno si festeggia. Numeri alla mano, un concorrente in meno non dispiace.
I sondaggisti sembrano confermare: «Prendiamo l’ottavo municipio, in particolare la zona di Garbatella con i suoi 44 mila abitanti – è l’esempio fornito da Ghisleri – Alle ultime comunali Sel ha preso il 9% e Fratelli d’Italia il 5%. E siccome quelli di Fassina non voteranno per la Meloni, Giachetti avrà certamente un vantaggio».
E se invece tutto si riducesse a un misero aggiustamento dello “zerovirgola”?
La pensa così il professor Alessandro Amadori, convinto che la ghigliottina sul candidato di Sinistra italiana sposti davvero poco: «Dovessi usare un’immagine, direi che Fassina – che pure considero potenzialmente spendibile – assomiglia in questa campagna a un cane sciolto senza collare: non si capisce che disegno abbia e perchè bisognerebbe votarlo. Penso quindi che i suoi elettori finiranno soprattutto nell’astensione».
(da “la Repubblica”)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
META’ DEI VOTI VERSO L’ASTENSIONE, IL 25% ALLA RAGGI E L’ALTRO 25% A GIACHETTI… MA QUALCUNO NON ESCLUDE ERRORI VOLONTARI
E’ stato depositato ufficialmente al Consiglio di Stato l’appello contro la sentenza con la quale nella tarda serata di ieri il Tar del Lazio ha confermato l’esclusione delle liste di appoggio alla candidatura di Stefano Fassina a sindaco di Roma per le consultazioni del 5 giugno prossimo. La terza sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Luigi Maruotti, deciderà lunedì sull’appello proposto. L’udienza è stata fissata alle 12.
“Qualche speranza ce l’avevamo. Purtroppo ha prevalso il piano formale su quello sostanziale. Comunque non ci arrendiamo” dice alla Stampa Stefano Fassina.
La metà dei suoi, dice, ora si asterrà .
“Io mi assumo la responsabilità politica di quello che è successo. Certo, siamo arrivati all’appuntamento un po’ affaticati e con una discussione al nostro interno perchè c’era chi aveva altre posizioni e voleva un’alleanza col Pd. Ma da qui a dire che qualcuno abbia giocato sporco ce ne corre. Io personalmente non lo penso. Sono sicuro che gli errori siano stati involontari”.
“Una ricerca dice che il 50 per cento finirà in astensione, un 25 per cento a Virginia Raggi dei 5 Stelle e un 25 per cento a Roberto Giachetti”, dice sui voti della sua lista. Il suo voto? “Guardi, non lo so e vorrei che lo decidessimo tutti insieme, a cominciare dall’assemblea che faremo martedì prossimo con i nostri 400 candidati”.
Quando a novembre ha detto che tra Pd e Cinque stelle avrebbe scelto questi ultimi Fassina spiega che parlava “di un’ipotesi nazionale e non romana”.
“Peraltro non ero nemmeno candidato ancora. Era solo un’ipotesi, magari polemica nei confronti di Renzi, ma solo un’ipotesi”, dice.
(da agenzie)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
“PRIMA DI GIUDICARE BISOGNA LEGGERE LE CARTE”
Il coinvolgimento di alcuni esponenti di spicco del MoVimento 5 Stelle nelle inchieste giudiziarie sta gettando scompiglio fra i più accaniti giustizialisti italiani, convertendone alcuni e preoccupando altri.
Le posizioni ferree del passato sembrano lasciare il posto alla prudenza, l’avviso di garanzia non viene più visto come una condanna e le dimissioni del politico indagato non sono più un mantra inflessibile.
Porre qualche domanda a colui che in molti dipingono come il giustizialista per eccellenza, e cioè il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, sceso in campo a difesa del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, indagato per abuso d’ufficio, e di quello di Livorno, Filippo Nogarin, sotto inchiesta per concorso in bancarotta fraudolenta, viene quasi naturale.
Travaglio, il MoVimento 5 Stelle si scopre garantista solo ora che alcuni suoi pezzi da novanta sono alle prese coi pubblici ministeri?
«Intanto chiariamo che garantismo e giustizialismo non c’entrano nulla con questa storia. Garantismo, infatti, significa solo che chi è sotto processo ha il diritto di difendersi. Detto ciò, è un’assoluta ovvietà che, quando qualcuno riceve un avviso di garanzia, bisogna leggere cosa c’è scritto. Se poi l’informazione di garanzia parte dopo la denuncia di un avversario politico, come nel caso di Pizzarotti, è assolutamente evidente che non c’è nessun dovere di dimettersi».
Lei, però, in passato di sconti ne ha fatti ben pochi.
«Altrochè se ne ho fatti. E poi non ho mai detto che se uno ha un’indagine in corso non può candidarsi o deve dimettersi. Ripeto, occorre innanzitutto capire quali fatti vengono addebitati. E poi, molto spesso, le dimissioni sono un dovere anche se non c’è un’indagine aperta. Se un politico viene ripreso ad abbracciare un boss mafioso, ad esempio, non commette un reato, ma se ne dovrebbe andare immediatamente»
Intanto Grillo ha approfittato dell’avviso di garanzia per sospendere dal movimento lo «scomodo» Pizzarotti.
«Ecco, la sospensione, che io ritengo assolutamente doverosa, è un discorso a parte. Un movimento, infatti, si autotutela stabilendo che, mentre sono in corso accertamenti giudiziari, l’indagato non deve far parte del partito, per poi rientrarvi in caso di proscioglimento. Solo che il M5S ha commesso un autogol con Pizzarotti, perchè l’automatismo indagine-sospensione non è previsto da nessuna parte. E, infatti, mentre il sindaco di Parma è stato sospeso, quello di Livorno no. Questo rende legittimo pensare che il provvedimento contro Pizzarotti sia dovuto al fatto che si tratta di un sindaco non allineato. Hanno compiuto una solenne cazzata».
Qualcosa, però, sta cambiando, se anche Matteo Renzi afferma che il giustizialismo della sinistra è stato un errore.
«La sinistra, intesa come partiti di sinistra, non è mai stata giustizialista. Se, invece, intendiamo la gente di sinistra, allora è diverso. Però i leader di Pds, Ds, Ppi, Margherita non possono essere etichettati come tali. Mino Martinazzoli, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino e Pier Luigi Bersani me li ricordo piuttosto inclini a salvare i propri indagati e a non infierire sugli altri. E Renzi è il loro figlio legittimo. Altro che svolta».
Luca Rocca
(da “il Tempo“)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
IL DOPO-CASALEGGIO E’ UGUALE A PRIMA
Una sospensione che va letta come epurazione in perfetto ‘Casaleggio style’. Gianroberto non c’è più ma le decisioni, con un epilogo strong, come dimostra il caso Pizzarotti, vengono prese comunque e con la stessa determinazione dei tempi in cui il fondatore, scomparso un mese fa a Milano, sanciva promozioni e punizioni.
La sospensione del sindaco di Parma è la prima vera presa di posizione della nuova gestione M5S a guida Davide ed è all’insegna dell’ “uno non vale uno” perchè Federico Pizzarotti viene allontanato mentre il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin, anche lui indagato, viene protetto.
In pratica, via il dissidente, salvo l’ortodosso.
Passaggio che non sfugge, per esempio, nella chat dei parlamentari pentastellati, dove più di qualcuno chiede chiarimenti: “Perchè uno sì e l’altro no?”.
I due del Direttorio, Alessandro Di Battista e Carlo Sibilia, non esitano nel rispondere: “Pizzarotti ha tenuto nascosto per mesi l’avviso di garanzia, non ha rispettato le regole, mentre Nogarin lo ha comunicato subito su Facebook”.
Ragionamento che non farebbe una piega se non fosse che il sapore della sospensione del primo cittadino di Parma ha un retrogusto di un rapporto ormai logorato (Pizzarotti e Direttorio non si sentono dallo scorso autunno) e ha anche un qualcosa di orwelliano, come lui ha lasciato intendere: “Non mando documenti a una mail anonima e a me sconosciuta. Fatemi chiamare da Luigi Di Maio, che non mi risponde da mesi e non si interessa dei Comuni”.
La mail anonima in questione è firmata, come sempre, “staff di Beppe Grillo” e chiede a Pizzarotti i documenti relativi all’avviso di garanzia per abuso d’ufficio.
La catena di comando che ha deciso le sorti di Pizzarotti ha funzionato così: deputati e senatori 5Stelle, quelli più ortodossi, si sono ribellati perchè con sindaci indagati cade a pezzi l’immagine del Movimento.
Quindi hanno chiesto, in maniera energica, al Direttorio di prendere subito provvedimenti, tanto che si erano detti pronti a mandare una mail a Beppe Grillo con la richiesta di un incontro. Incontro che sarebbe servito anche a parlare del caso Nogarin e più in generale del sistema Rousseau, ancora a molti sconosciuto. Addirittura l’intenzione era quella di richiedere anche la presenza di Davide Casaleggio.
In questo modo, il Direttorio, che molti parlamentari soprattutto i senatori non amano, sarebbe stato scavalcato
Sotto pressione, i magnifici cinque – Di Maio, Di Battista, Fico, Sibilia e Ruocco – come ironicamente li chiamano ‘i falchi’, si sono rivolti a Beppe Grillo, che a sua volta ha coinvolto lo staff e soprattutto Davide Casaleggio, il quale ha preso la decisione definitiva.
“Pizzarotti è il primo epurato della nuova gestione”, dicono diversi deputati.
Ma alla senatrice Elisa Bulgarelli, molto vicina al sindaco di Parma, l’epurazione non va giù: “Oggi il partito 5 stelle esulta, il M5S muore un altro po’. Io sto nel M5S e rifiuto il Partito. Il Non Statuto rifiuta il partito”.
Poche parole, affidate a Facebook, per raccontare di come il Movimento sia cambiato, compresa la regola dell’uno vale uno.
Sta di fatto che la misura anti Pizzarotti è una mossa politica, utile al Direttorio per dimostrare che, dopo la morte di Casaleggio, il Movimento non è spaesato e stordito, come molti pensano che sia.
Piuttosto, a meno di un mese dal voto delle amministrative, i vertici pentastellati vogliono far vedere di non avere paura delle urne, tanto da prendere la decisione di cacciare proprio un sindaco.
Decisione che però implicitamente ammette una falla presente nella gestione dei territori e adesso l’effetto valanga è tra i rischi da mettere in conto.
L’addio del sindaco di Parma al Movimento – dato ormai per scontato – potrebbe portare a defezioni eccellenti tra i parlamentari, soprattutto “emiliani” simpatizzanti del primo cittadino parmigiano, visto come punto di riferimento anche da numerosi amministratori locali che hanno partecipato alla cosiddetta “Leopolda di Pizzarotti”, quando lui era stato escluso dal palco di “Italia a 5Stelle”.
In tutto ciò, quasi per mettere le mani avanti, il sindaco di Parma domenica scorsa si era affrettato a difendere, dalle colonne del Corsera, il collega di Livorno, dicendo che non ci si deve dimettere per un avviso di garanzia e che è troppo facile per i parlamentari fare opposizione senza sporcarsi le mani.
Parole che aveva fatto storcere il naso, per l’ennesima volta, ai vertici 5Stelle, che già da tempo cercavano il cavillo per far fuori il sindaco dissidente.
E adesso che il cavillo si è presentato si è consumato il delitto perfetto.
(da “Huffingtopost”)
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Maggio 14th, 2016 Riccardo Fucile
CARAPELLE CALVISIO, SETTE LISTE, MA QUATTRO COMPOSTE DA POLIZIOTTI E CARABINIERI CHE RISIEDONO FUORI REGIONE: “LO FANNO PER GODERE DI 30 GIORNI DI ASPETTATIVA, E’ UNA VERGOGNA”
Carapelle Calvisio è un minuscolo centro abruzzese a trenta chilometri dall’Aquila, con 85 abitanti effettivi e 67 elettori.
Un paese da record: alle elezioni amministrative di giugno corrono, infatti, ben 7 liste, per un totale di 62 candidati. In pratica un candidato per elettore.
Ma le stranezze non finiscono qui: quattro di queste sette liste sono composte in larga maggioranza da poliziotti, carabinieri, membri della polizia penitenziaria che risiedono fuori Abruzzo. I candidati consiglieri vengono da Napoli, Barletta, Catania, persino dalla Sardegna profonda.
Un fatto singolare denunciato dal sindaco uscente (ricandidatosi all’ultimo momento), Domenico Di Cesare: “Gli appartenenti alle forze di polizia hanno diritto a trenta giorni di aspettativa retribuita perchè la legge vieta loro di prestare servizio durante la campagna elettorale. Nulla da ridire, se le candidature fossero state presentate nei rispettivi Comuni di nascita o di residenza. Molti di loro, però, a Carapelle non ci sono mai stati, e forse ne ignoravano addirittura l’esistenza. È una vergogna, perchè tra i candidati c’è chi è di Barletta e lavora a Milano. E intanto si fanno un mese di ferie. Scriverò al prefetto, al ministro Alfano, a tutti i comandi delle forze dell’ordine perchè si ponga fine a questa storia”.
Gli fa eco uno dei candidati sindaci locali (anche se pure lui lavora fuori), Fabrizio Iannessa, leader della lista “Carapelle Vola”: “Il sindaco ha ragione. Purtroppo è la legge che prevede questa possibilità — racconta a IlFattoQuotidiano.it — ma la mia lista è formata per lo più da giovani residenti a Carapelle”.
Intanto la vicenda approda in Parlamento con un’interrogazione di Gianni Melilla, deputato di Sel: “Anche in occasione di queste elezioni comunali sono tanti i rappresentanti delle forze di polizia che candidandosi usufruiscono di un periodo di trenta giorni di aspettativa retribuita. Si tratta di un evidente privilegio anacronistico e utilizzato strumentalmente. Giace alla Camera una mia proposta di legge di modifica dell’articolo 81 della legge 121 del 1981, che prevede la cancellazione di questo indegno e intollerabile privilegio”.
Alla base del pasticciaccio c’è infatti il nuovo Ordinamento dell’amministrazione della Pubblica sicurezza del 1981, che recita: “Gli appartenenti alle forze di polizia candidati a elezioni politiche o amministrative sono posti in aspettativa speciale con assegni dal momento dell’accettazione della candidatura per la durata della campagna elettorale”.
Tra i candidati sindaci a Carapelle Calvisio c’è Roberto Di Pietrantonio. Lui è uno degli appartenenti alla Polizia di Stato additati dal primo cittadino Di Cesare.
“La mia “Lista Civica” è composta da nove candidati, di cui soltanto due delle Forze dell’ordine: io e un aspirante consigliere” spiega Di Pietrantonio al IlFattoQuotidiano.it.
Ma risiedete a Carapelle? “Nessuno dei miei candidati risiede a Carapelle Calvisio, ma non trovo la questione rilevante perchè non prevista dalla legge. E il movimento civico che guido è composto da giovani”, ci dice ancora.
Perchè candidarsi in questo paesino sconosciuto? “Abbiamo voluto rispondere all’appello lanciato dal sindaco uscente, che a febbraio invitò i giovani a candidarsi. Inoltre ci interessava fare un’esperienza politica partendo da un Comune di piccole dimensioni”.
E a proposito dei trenta giorni di aspettativa retribuita?
“Avremmo tranquillamente rinunciato all’aspettativa, ma questa avviene d’ufficio. Proprio al fine di garantire la più onesta e trasparente attività di campagna elettorale senza eventuali ripercussioni o tentativi di distrarre il voto dei cittadini”.
Un anno fa lo stesso Di Pietrantonio si presentò come aspirante sindaco anche a Castelvecchio Calvisio, borgo attaccato e gemello di Carapelle. Corse a capo dell’unica lista candidatasi (la “Tricolore”). Votarono solo in cinque. Lui prese un voto: due schede furono nulle e due bianche, e le elezioni vennero annullate.
Maurizio Di Fazio
(da “il Fatto Quotidiano”)
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