Destra di Popolo.net

STATALI, DAL 2009 ATTENDONO IL RINNOVO, HANNO PERSO 600 EURO L’ANNO

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

IN TRE MILIONI ATTENDONO LA CARITA’: SEI EURO DI AUMENTO

Se c’è chi ha una corsia privilegiata per il rinnovo del contratto di lavoro, qualcuno, circa 3 milioni di persone, attende un aumento salariale dal 2009.
Sono gli statali italiani, vituperati e maltrattati, considerati nell’immaginario collettivo nullafacenti (e le inchieste della magistratura spesso lo certificano) ma comunque lavoratori con il pieno diritto ad avere almeno un tavolo di discussione con il datore di lavoro (Stato ed enti locali) per discutere di salario. Niente da fare.
Da oltre sette anni per loro non c’è nulla. Ma gli impiegati pubblici non sono i soli a non parlare di «pecunia» per le loro prestazioni.
IN 46 SENZA CONTRATTO
I contratti collettivi di lavoro complessivamente in attesa di rinnovo sono 46 e sono relativi a circa 7,8 milioni di dipendenti.
Lo ha rilevato l’Istat lo scorso marzo. In particolare nel pubblico impiego ci sono 15 contratti scaduti per circa 3 milioni di lavoratori a causa del blocco della contrattazione. La quota dei dipendenti in attesa di rinnovo è del 60,5% nel totale dell’economia e del 49% nel settore privato.
L’attesa per i lavoratori con il contratto scaduto è in media di 38,1 mesi per l’insieme dell’economia, in diminuzione rispetto allo stesso mese del 2015 (38,3), e di 16,7 mesi per quelli del settore privato.
MENO SOLDI, PIÙ SPESA
Secondo la Cisl negli ultimi 10 anni la politica ha fatto di tutto per frenare il cambiamento nella Pa.
Gli addetti sono scesi di 222mila unità , si sono congelati contratti e carriere, in molte amministrazioni si è messo a rischio il salario accessorio.
Così, dal 2011, i mancati rinnovi hanno portato nelle casse dello stato 8,7 miliardi di euro di risparmi, ma la spesa pubblica è cresciuta di 27 miliardi.
Insomma quella di far gravare l’austerity solo sui dipendenti pubblici è una strategia che, secondo il sindacato guidato dalla Furlan, è fallimentare.
E la beffa rischia di continuare. Le risorse per avviare le trattative messe nella legge di Stabilità  sono pari a circa 300 milioni di euro.
Una cifra che consente all’Aran (l’Agenzia pubblica) di avviare le contrattazioni con i sindacati ed eseguire, in questo modo, quanto disposto dalla sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il blocco degli stipendi del pubblico impiego. La sentenza 178/2015 emessa nello scorso giugno infatti, da una parte «salvava» i conti pubblici rendendo la pronuncia non retroattiva, dall’altra obbligava contestualmente il governo a riaprire la partita dei contratti.
LA MANCIA
Da allora gli statali hanno iniziato a sperare.
Ma dividendo il gruzzolo per tutti quelli che dovrebbero avere un aumento la cifra che spetta a ognuno è di circa 8 euro lordi al mese, sei netti. Non solo.
Secondo le ultime indiscrezioni l’aumento della parte fissa dello stipendio non ci sarà  per tutti gli impiegati pubblici.
L’incremento spetterebbe solo ai redditi più bassi. Non è però ancora chiaro se già  nella direttiva all’Aran sarà  indicata una soglia al di sotto della quale concedere l’aumento, oppure se l’individuazione del tetto sarà  lasciato alla contrattazione con i sindacati. L’obiettivo è evitare microaumenti e destinare le poche risorse ai chi gudagna meno.
CHI VINCE E CHI PERDE
Intanto il personale della scuola, della sanità , delle forze armate e di polizia e degli altri enti pubblici statali e locali sono i lavoratori che hanno pagato il conto della crisi perdendo 600 euro nella busta paga per ciascun anno, dai 34.900 euro lordi ai 34.350, considerando solo le retribuzioni dal 2011 al 2014.
La realtà  è variegata. Non ci hanno rimesso i magistrati, i cui stipendi, nel periodo di riferimento, sono aumentati da 131 mila euro a 142.
Sempre in diminuzione, invece, gli stipendi del personale docente e Ata della scuola passati dai 30.338 euro del 2011, ai 29.548 del 2012, ai 29.468 del 2013 fino ai 29.130 del 2014, con una diminuzione che sfiora il 4 per cento totale.
Anche i corpi di polizia, invece, hanno perduto oltre 500 euro, passando dai 38.493 euro del 2011 ai 37.930 euro del 2014: la flessione è stata dell’1,46 per cento.
Molto più ragguardevole è la perdita di stipendio dei dipendenti delle forze armate: nel 2011 guadagnavano mediamente 39.667 euro, nel 2014 sono scesi a 38.236 euro, ovvero 1.431 euro in meno, pari al -3,60 per cento.
Circa quattrocento euro in meno anche per i dipendenti della sanità , passati dai 38.918 ai 38.573 euro all’anno.
Oltre ai magistrati, hanno guadagnato i dipendenti delle autorità  indipendenti, passati dai 76.702 del 2011 agli 83.984 euro del 2014 e gli impiegati delle agenzie fiscali che hanno guadagnato circa mille euro.

Filippo Caleri
(da “il Tempo”)

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BOERI: “I VOUCHER CREANO PRECARIETA’ E NON FANNO EMERGERE IL LAVORO NERO”

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE DELL’INPS SBUGIARDA IL MINISTRO POLETTI

“I voucher sono nati per regolarizzare il lavoro accessorio, creare opportunità  di lavoro e integrazione per le fasce più marginali del mercato del lavoro, ma hanno avuto uno sviluppo diverso: in alcuni casi abbiamo una precarizzazione evidente, con lavoratori a tempo indeterminato o determinato che adesso hanno i voucher, e in questo senso sono anche controproducenti”.
Lo afferma Tito Boeri, presidente dell’Inps, in un’intervista al Tg Zero di Radio Capital.
“L’altro grande obiettivo – prosegue Boeri – era quello dell’emersione del nero, e per il momento non sembra esserci grande evidenza: quello che viene fuori è che non sono tanti i lavoratori nelle fasce centrali d’età , si vedono poche persone che prima non lavoravano che di colpo prendono voucher. Il livello dei contributi che raccogliamo è basso, circa 150 milioni, lo 0.2% dei contributi totali dei lavoratori dipendenti, mentre i lavoratori che percepiscono voucher sono l’8%: è molto meno di quello che si potrebbe pensare alla luce del numero delle persone coinvolte”.
Ci sono datori di lavoro che abusano dei voucher?
“Sembrerebbe esserci un fenomeno di datori di lavoro che usano i voucher in maniera disonesta, per evitare un controllo o per pagare solo in parte le ore di lavoro. Ci sono solo 29 voucher in media per lavoratore, pochi. Gli abusi ci sono. La cosa più importante, più degli ispettori, è la tracciabilità , cioè conoscere l’intenzione dei datori di lavoro di usare i voucher”.

(da “Huffingtonpost”)

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“IL REGOLAMENTO DEL M5S E’ NULLO”: IL DOSSIER DI PIZZAROTTI CONTRO DI MAIO

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

IL SINDACO PREPARA LA CAUSA: “NORME AD PERSONAM, DIRETTORIO IPOCRITA, SOSPENSIONE ILLECITA”

Federico Pizzarotti sta preparando una sorpresa al direttorio del Movimento cinque stelle, in particolare a colui che considera il responsabile del suo siluramento nascosto dietro mail anonima, Luigi Di Maio.
Esiste un dossier che il sindaco di Parma sta compilando con acribìa, giorno dopo giorno, e al quale abbiamo potuto dare uno sguardo.
Il primo elemento che salta agli occhi è che – se ci sarà  espulsione – Pizzarotti farà  causa; anche se in tarda mattinata si limita a dire «noi ci teniamo tutte le porte aperte, anche questa» (pur senza chiudere a un’improbabile riappacificazione, «però dipende da loro»). Tutti i documenti che sono raccolti nel dossier – consulenze legali, atti giudiziari, verbali di riunioni politiche, sms e whatsapp «di cui ho mostrato solo una piccola parte» – hanno un background giuridico che dichiara apertamente quale sia la strada: Pizzarotti fa politica ma, in questo grillino fino in fondo, anzi, memore della lezione di Gianroberto Casaleggio, la fa con uno studio legale dietro.
Si tratta di uno studio assai apprezzato di Bologna, l’avvocato che lo sta assistendo è Elisa Lupi.
Il punto chiave è questo: quand’anche esistesse una regola violata da Pizzarotti (in realtà  non esiste, obietta lui; e il testo del regolamento del non Statuto M5S gli dà  ragione, su questo), «non può ritenersi conforme ai principi costituzionali – scrivono gli avvocati – la regola che preveda, sia pure all’interno di un’associazione non riconosciuta, che taluno degli iscritti possa subire conseguenze pregiudizievoli nel caso in cui abbia omesso di comunicare di propria sponte, ovvero a semplice richiesta degli organi sociali, determinati dati giudiziari che lo riguardano, in quanto trattasi di illecita (sottolineato) ingerenza negli altrui diritti costituzionali alla difesa e alla riservatezza».
La traduzione è chiara: il regolamento che Pizzarotti avrebbe violato, anche se esistesse una regola, è «giuridicamente nullo», è un testo che non esiste dal punto di vista di un’eventuale controversia; perchè palesemente anticostituzionale.
Si profila un’obiezione legale simile a quella che potrebbe esser fatta sul contratto che la Casaleggio, come rivelò «La Stampa», fece firmare ai candidati romani, a partire da Virginia Raggi: quel contratto, al di là  di tutte le considerazioni di natura politica, è di sostenibilità  giuridica molto dubbia.
Forte di questa certezza Pizzarotti si prepara a fare causa; ma prima darà  battaglia politica.
«I parlamentari devono esser loro a venire a Parma», attacca. La richiesta dello streaming ha un fine: dare dei «bugiardi» in diretta web a quelli del direttorio, non in maniera emotiva, ma su testi giuridici e documenti. L’accusa che verrà  mossa da Pizzarotti è questa: «Non esistono le regole con cui Di Maio mi fa fuori, e oltretutto, quelle che vengono genericamente citate, la “trasparenza”, sono regole ad personam».
A Parma tutti ritengono che l’indagine sulle nomine al Regio difficilmente approderà  a un rinvio a giudizio. Che il sindaco debba andare avanti.
Lui, è quasi certo, si ricandiderà : il che spalanca una voragine per il M5S in Emilia, una sua terra fondativa. Nel frattempo Pizzarotti parla, va in tv, dialoga coi tg; sta rivoltando il grillismo contro i figlioletti di Grillo. «Mal consigliato da questi ragazzini», dice Pizzarotti riferendosi a quelli del direttorio.
Anche contraddittori, perchè Di Battista «sostiene che hanno deciso tutti insieme, e Di Maio dice invece che ha deciso Davide».
Nel dossier Pizzarotti evoca ovviamente il punto del regolamento che gli dà  ragione, l’articolo 4, commi a, b, c. Non è mai menzionata la questione degli avvisi di garanzia.
Ci racconta un’ottima fonte che il sindaco ha tenuto un diario – in questo alla andreottiana – in cui sono annotate tutte le cose che Di Maio gli ha detto e non detto nel tempo: comprese le mancate risposte.
Il direttorio ora ha due vie, dolorose: concedere lo streaming, o negarlo.
Nel primo caso è l’Armageddon, anche perchè molti parlamentari sono inferociti, nelle chat interne, per quello che è stato fatto al sindaco; nel secondo la dimostrazione che la trasparenza è un’ipocrisia a uso e consumo della fazione vincente.

Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)

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ROMA, TUTTI CONTRO TUTTI, MA CON LE STESSE RICETTE

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

PIU’ ANALOGIE CHE DIFFERENZE TRA I PROGRAMMI DEI CANDIDATI SINDACO DELLA CAPITALE

La mosca bianca è Virginia Raggi. Accerchiata nella competizione elettorale da una coorte di romanisti incalliti, tifa Ternana.
Per non deludere il popolo romano ammette tuttavia simpatie biancocelesti, beninteso di riflesso: «Mio marito è della Lazio e mi ha lavorato ai fianchi per vent’anni».
Tanto basta per scavare un solco fra lei e, in ordine alfabetico, Roberto Giachetti, Alfio Marchini e Giorgia Meloni.
Che rischia pure di essere, sorprendentemente, il più profondo in questo scontro apparente di tutti contro tutti.
Anche su temi che fino a ieri autorizzavano a immaginare spaccature insanabili fra i candidati a sindaco di Roma. Il rapporto con le indagini giudiziarie, per esempio.
Politica e inchieste
Alla domanda se il coinvolgimento in una inchiesta con accuse per reati contrari a doveri d’ufficio debba o meno portare alle dimissioni, la risposta di tutti è stata, fatte salve le sfumature: «Dipende. Caso per caso». Sarà  magari per i siluri arrivati a qualche esponente del Movimento 5 Stelle che Virginia Raggi ammonisce a non usare gli avvisi di garanzia «come manganelli». Parole che un tempo avrebbero fatto rabbrividire i giustizialisti di incrollabile certezza. A dimostrazione del fatto che un conto è la realtà  immaginata e altro conto la realtà  reale…
Trasporti
E forse questo spiega pure perchè di fronte ai problemi più gravi della capitale evocati a ciascuno di loro in tre giorni di confronti davanti alle telecamere di Corriere Tv , le ricette dei quattro candidati principali non fossero così distanti.
Che sul trasporto pubblico si debba intervenire con decisione, del resto, è assolutamente necessario. Che si debba stroncare l’evasione, poi, un imperativo. Come farlo? Chi come Raggi e Giachetti insiste su tecnologie e biglietti elettronici, chi come Meloni sottolinea l’importanza del bigliettaio e chi come Marchini metterebbe un controllore in ogni carrozza della metro.
Sempre che la metropolitana, e qui si parla della fantomatica Linea C già  costata 3,7 miliardi per non arrivare neppure a metà  del percorso e attualmente ferma, debba avere un futuro.
Il democratico Giachetti dice che sì, deve averlo, ma si deve mettere un punto fermo e poi riprogettarla insieme alla soprintendenza.
Da destra, invece, Giorgia Meloni sostiene che deve arrivare fino a piazza Venezia. La grillina Raggi concorda con Marchini che ha da poco incassato l’appoggio di Silvio Berlusconi: si fermi al Colosseo, poi si vedrà . Anche se l’impressione è che nessuno di loro sappia in fondo con che razza di problema avranno a che fare.
Fori, pedonali o no?
Quanto alla pedonalizzazione dei Fori, ciascuno critica Ignazio Marino, ma poi sono tutti d’accordo. E giorni duri si profilano anche per i pullman turistici: non uno dei candidati vuole più lasciarli circolare liberamente nel centro storico.
Giachetti ricorda che era stato lui a cacciarli, già  nel 2000. Mentre poi Marchini profetizza l’introduzione di supertecnologie per preparare Roma alle auto intelligenti senza pilota, s’impegna a incentivare il ciclismo urbano. Tutti giurano di fare più corsie preferenziali.
Quando Giorgia Meloni spariglia: per decongestionare Roma si dovrebbero portare fuori dal centro i ministeri, e perfino il Campidoglio. Ottima idea, ma ha più di cinquant’anni. E se non ci sono riusciti allora…
I (dis)servizi
Per non parlare dell’immondizia che fa di Roma la capitale più sporca d’Europa con tariffe che la Confartigianato calcola essere le più care d’Italia, superiori del 50,9% alla media nazionale.
«Bisogna chiudere il ciclo dei rifiuti», fanno i quattro in coro. E se Raggi insiste che sono i dirigenti a dover pagare i disservizi della municipalizzata dell’ambiente, Giachetti propone di dare un palmare agli spazzini… Efficienza e tecnologie: tutti d’accordo. Come nel dire un «no» fermo e risoluto alle privatizzazioni delle municipalizzate .
Rilanciare il turismo
E per il turismo, che dovrebbe essere la principale industria della capitale d’Italia? Lotta senza quartiere agli abusi, innanzitutto.
Anche qui all’unisono, con Marchini che ha un’idea. Anzi, più d’una. Il sindaco di notte, o l’assessore alla movida: e promette nomi clamorosi.
E poi ricordate i centurioni? Perchè anzichè lasciare il business ai rumeni o a quei coatti, minacciosi e panzoni, non organizziamo spettacoli con i giovani delle scuole di recitazione? In fin dei conti si darebbe anche una mano all’occupazione.
Dipendenti comunali
Già  che ci siamo, poi, perchè prendersela con i dipendenti comunali, o con gli autisti dell’Atac, oppure con i vigili, o ancora con i netturbini?
Anche su questo, il consenso sembra davvero unanime. Giachetti dice che i lavoratori vanno motivati. Bene.
Chi sbaglia deve pagare, precisa Virginia Raggi, insistendo sul fatto che la colpa principale non è dei fannulloni: piuttosto, di chi non li mette nelle condizioni di lavorare. Vero.
Ma anche qui la sensazione che nessuno di loro abbia voglia di fare un frontale con 62 mila possibili elettori e relative famiglie è consistente. Comprensibile.
E per tranquillizzare ulteriormente i tutori dell’ordine municipale, ecco Marchini proporre di affidare la sorveglianza dei campi rom non più a pattuglie di vigili urbani, ma ai droni.
Vinca il migliore.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)

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ELEZIONI ROMA: “NON HO DUBBI, VOTO BOH”

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

SCRITTORI, REGISTI. BLOGGER: “NESSUN CANDIDATO E’ ALL’ALTEZZA”

Scordarsi le fanfare, i “mai nella vita”, gli endorsement a frotte. O le battute salaci che indicano la direzione del vento.
Stavolta, chi vota a Roma, per lo più non sa che pesci prendere. Anche se manca meno di un mese al voto. «In questa campagna elettorale non c’è chimica. È tutto spento.
Lo sbandamento, generale. I partiti stanno sulla trincea più arretrata. E i candidati sulla serie B.
Non ci sono contenuti, perchè non c’è un focus su una idea di Roma: anche retorica, ambiziosa, qualcosa che dia ai cittadini il senso di cosa significhi essere romani oggi. Nessuno ha il coraggio».
Il sociologo Giuseppe De Rita, romanissimo, fondatore del Censis, relatore nel convegno ecclesiale del 1974 “sui mali di Roma” che ancora oggi si evoca, va oltre la critica: è scorato.
Fotografa, e vive, un malessere assai diffuso. Un sentimento che accomuna giovani e vecchi, centro storico e periferie, politologi e blogger del trash, registi e editori, giornalisti e scrittori.
Una volta si intercettava lo schierarsi, ora tocca registrare la costernazione, lo sconforto: «Deciderò all’ultimo per chi votare ma ci andrò senza convinzione, trascinando i piedi. Non parlo da intellettuale: penso che qualche milione di romani farà  così», dice De Rita .
È per questo che Christian Raimo, giornalista e scrittore, autore di un post su “Internazionale” diventato virale (titolo: “Roma sta morendo e nessuno fa niente”) offre un pronostico da «55 per cento di astensione».
Lui ce l’ha soprattutto con la sinistra: «Voterò scheda bianca sperando che il Pd arrivi quarto e che Sinistra Italiana non elegga neanche un consigliere. Non perchè non esprimano una qualità  diversa: ma non hanno compreso la crisi politica che c’è a Roma e mancano di visione».
Una città  sfiancata dai propri fallimenti. Dove i partiti non ci   sono più. E i quattro candidati si agitano in modo grottesco per cercare   di nascondere il vuoto. Specchio e metafora di tutto il Paese.
Sarà  l’uragano di Mafia Capitale o la “scabrosa” caduta di Ignazio Marino e di tutti gli idoli dell’ultimo ventennio. Ma il disorientamento è assoluto.
«Io il mio voto non lo esprimo neanche privatamente, a me stesso, figuriamoci in pubblico», dice Ascanio Celestini, attore, regista e scrittore: «Si tratta di votare uno che ci promette che non ruba? E va bene, andrò. Sì, ma che Paese si immaginano tra vent’anni? Perchè dalla politica mi aspetto questo, e qui non lo fa nessuno».
Una città , mondi e persone come presi in contropiede da un panorama che per la prima volta non offre neanche lo scampo di infilarsi nel solito schema, nemmeno con un piede solo.
Così, se fino all’altroieri c’erano folle di scrittori, attori, giornalisti e registi che dicevano con naturalezza «voto Veltroni», «voto Marino» – o «voto Alemanno» per impulso anti-sistema – a un mese dalle urne ci sono pacchi di non sa-non risponde.
«Chi voto? Ah saperlo, non sono pronta», sospira Serena Dandini.
«Preferirei non dire nulla, ho poche idee lacero-confuse», risponde cortese Paolo Pietrangeli, il cantautore di Contessa.
«Ci devo pensare, sono stato un mese all’estero», riflette Paolo Genovese, il regista di “Perfetti Sconosciuti”.
«Non ho ancora deciso, ad oggi si è parlato solo di candidati e non di Roma», spiega il giuslavorista Michel Martone, viceministro del Lavoro col governo Monti.
«Non è che si tace per convenienza, è che nessuno sa cosa votare. E sono confuso anch’io», riassume l’architetto Massimiliano Fuksas.
«Conosco Marchini, è molto simpatico, un campione di polo e di fidanzamenti, ma non ce la potrei fare a votare con Berlusconi. Mi aspettavo qualcosa da Giachetti, sapere cosa dice il Pd. Ma non si sente nulla».
L’archistar avrebbe preferito, invece del voto, «un commissario per quattro anni»: «Non vedo le idee. Si parla di marijuana, di teleferiche, di vendere la Nuvola a un emiro, e si accomodino. Ma nulla che abbia a che fare coi problemi veri. Aggredire la situazione, parlare di Atac, di Ama, significherebbe farsi molti nemici: e qui si ha talmente paura».
«Già , paura. È la lezione di Marino: è andato contro gli interessi, ha fatto una fine atroce, quindi nessuno si arrischia», spiega Massimiliano Tonelli, portavoce del blog Romafaschifo finito sul “New York Times”.
Lui non va a votare e trova che la campagna elettorale somigli a quelle «democristiane anni Ottanta»: «Nessuno si sbilancia, ci si combatte sul “non fare”, ci si prepara a una manutenzione del degrado e del declino. L’unico esperimento sarebbe vedere al governo persone restate sin qui fuori dalle dinamiche del potere». Cioè i grillini.
Eccola: l’indecisione tra la Raggi e Giachetti, uno dei nodi attorno a cui si avvita certa romanità . Con fatica, senza gioia.
«Queste sono le elezioni del boh, è come assistere a un film giallo di cui si è perso l’inizio, mi arrendo alla confusione», dice Daniele Luchetti, il regista che col “Portaborse”, all’alba di Tangentopoli, fornì un bagaglio di certezze a schiere di cineamatori: «Ho sempre votato Pci, poi il Pd, sentivo che dietro c’erano costruzioni dal basso. Ora ci si accontenta: ma gestire Roma non è aver fatto bene il classico. Scegliere i Cinque stelle per me è fuori dalla grazia di Dio, ma potrebbe essere».
Più che intenzioni di voto, sedute di autocoscienza.
«Sto combattendo contro il me stesso astensionista», chiarisce lo scrittore Paolo Di Paolo: «Un giorno penso Giachetti turandomi il naso, un altro la Raggi per disperazione. Speravo in uno scatto di orgoglio: è arrivata un’armata Brancaleone». Nomi fragili, nessuno che faccia da soluzione. «
Alcuni voteranno la Raggi e non l’avrebbero mai fatto», dice Gabriele Mainetti, il regista rivelazione di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, che non si schiera.
C’è chi si rassegna, non domo: «Alla fine voterò a sinistra, come sempre. Con rabbia, perchè non penso Giachetti vincerà , e semmai al ballottaggio nemmeno andrò, sarebbe la prima volta», dice Stefano Bises, sceneggiatore di “Gomorra”.
Come è possibile che non ci sia stata una candidatura all’altezza, si chiedono in molti. La scelta di Giachetti «mi meraviglia e quasi mi sembra fatta apposta», aggiunge Matteo Maffucci degli Zero Assoluto.
Anche lui concentrato sulla ricerca del “meno peggio”: «Forse alla fine voterò la Raggi. Ma la stima verso chiunque latita e invece vorrei essere orgoglioso di votare».
Cronache di un mondo lacerato. «L’altra sera ero a cena con amici, si sono scandalizzati quando ho detto che non è giusto escludere a priori di votare per la Raggi», racconta Giuseppe Laterza.
Anche lui, l’editore, perfettamente incerto – «e non mi era mai successo» – tra «una continuità  che non si fa onore e un salto nel vuoto», ossia votare M5S o Pd: «Giachetti è un’ottima persona. Ma il mio dubbio è, chi è espressione di un certo apparato, può sovvertirlo? Perchè per Roma, dominata dalle lobby, ci vuole una rivoluzione. Giachetti è in grado?».
Naturalmente poi c’è la domanda inversa: Raggi è in grado?
«L’ho incontrata per pochi minuti, aveva tanta paura di me», dice Roberto D’Agostino, anima di Dagospia: «Ma, dico: se ha paura di Dago stiamo freschi». Perplesso anche il giornalista Vittorio Emiliani: «I grillini, alcuni, hanno studiato: sapranno farsi classe dirigente? Non lo so. Certo bisogna che si facciano aiutare», dice lo storico direttore del “Messaggero”.
Che avrebbe scelto Fassina, e «se non torna in lizza non so chi votare»: «In periferia, per dire, si vive da sequestrati. Nessuno raccoglie le idee, neppure se va proseguita la linea C. È solo panna montata».
Lo scrittore Fulvio Abbate ha risolto l’enigma come segue: «Marchini non lo voterei mai perchè lo considero intellettualmente inesistente. Giachetti non viene nominato neppure dai rappresentanti del Pd, danno per scontato che non passerà . E la Meloni c’è stato un tempo in cui i suoi stessi compagni di partito pregavano: smettetela di osannarla, è inconsistente. La vera destra è la Raggi. La voterei perchè così i Cinque stelle smetterebbero di mostrarsi come i più virtuosi. Non andrò, vincerà  lo stesso».
L’idea dei grillini alla prova dei fatti è al centro degli alambicchi politologici. Giovanni Orsina, docente alla Luiss, studioso del berlusconismo, ragiona su questa previsione: «Lo scontro finale sarà  ancora tra politica e anti-politica. E i romani potrebbero essere tentati dalla Raggi. Se la città  si dà  per perduta, tanto vale sperimentare farmaci nuovi, come su un paziente in fin di vita».
C’è chi però si ribella: «Accollare a Roma la prova del nove contro i Cinque stelle è una follia. Noi ci abitiamo, mica possiamo fare gli esperimenti. Non siamo a Mururoa», reagisce la giornalista Flavia Perina, già  parlamentare di An-Pdl: «Non mi fido della retorica dell’outsider e nemmeno di quella delle mani pulite. Opzioni già  sperimentate. Guardo piuttosto a chi ha già  avuto modo di sedersi a tavola e si è alzato con gli abiti decentemente puliti».
Il che in fondo è un’altra ricerca del meno peggio.
Lo scrittore Walter Siti, chiude secco la questione: «Non voto nella Capitale, per fortuna». Lui sceglie a Milano. Ed è sollevato anche Umberto Pizzi, che pure ha fotografato la Roma della Dolce vita e di Cafonal: «Non voterei per nessuno, per la prima volta in vita mia, vorrei evitare di essere coinvolto».
Not in my name, almeno.

Susanna Turco
(da “L’Espresso“)

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L’ITALIA DEL GRANDE LONGANESI NON PUO’ FARE LA RIVOLUZIONE PERCHE’ “CI CONOSCIAMO TUTTI”: LA ANTOLOGIA CURATA DA BUTTAFUOCO

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

GIORNALISTA, SCRITTORE, GENIALE INVENTORE DI AFORISMI CINICI E VERITIERI: “TUTTE LE RIVOLUZIONI COMINCIANO PER STRADA E FINISCONO A TAVOLA”

Per chi aveva vent’anni in Sicilia a cavallo degli Ottanta, lo scrittore di riferimento era Leonardo Sciascia, con la sua passione razionale per i diritti e per la giustizia, la sua prosa corrosiva del regime politico democristiano e di quello culturale comunista. Invece Buttafuoco, di una generazione più giovane, riscopre in una sua personalissima antologia (Il mio Leo Longanesi) il giornalista, scrittore, disegnatore, pittore, editore, ma soprattutto il geniale inventore di aforismi cinici e veritieri, che ancor oggi mettono a nudo un certo intramontabile carattere degli italiani.
«La rivoluzione in Italia non si può fare perchè ci conosciamo tutti», scriveva il grande Leo.
Oppure: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola»
Romagnolo di Bagnacavallo radicato a Bologna e poi a Roma e a Milano, nato nel 1905, cresciuto durante il fascismo e morto giovane, a soli 52 anni, nell’Italia anti e post-fascista, Longanesi viene scoperto da un Buttafuoco adolescente nella soffitta della paterna casa familiare siciliana, dov’è custodita una collezione de «Il Borghese», uno dei giornali che aveva fondato e diretto e gli era sopravvissuto.
Nasce di lì l’idea di una scelta del meglio delle varie stagioni longanesiane, con due obiettivi
Il primo è dimostrare l’assoluta superiorità  della «fronda», cioè quella particolare forma di presa in giro dall’interno del regime, che consentì a Longanesi di essere il più acuto canzonatore del fascismo e insieme il più strategico collaboratore di Mussolini nella comunicazione (suoi slogan come «Taci, il nemico ti ascolta» o «Veterani si nasce»), rispetto a qualsiasi tipo di critica e opposizione seria, ragionata o trombonesca: tra l’altro, secondo Buttafuoco, le tre categorie non si elidono, ed anzi molto spesso convivono.
Il fondamento di ciò sta nell’affermazione di Longanesi secondo cui i regimi «non consentono la battuta di spirito, ma hanno il merito di provocarla»
Il secondo obiettivo è riconoscere l’assoluta insufficienza, per non dire l’inconsistenza, della borghesia italiana di qualsiasi epoca e di qualsiasi ordine e grado – piccola, media o grande -, di fronte ai compiti che le competono e che gran parte delle borghesie del mondo sono in grado di svolgere decentemente o con qualche limite, ma mai precipitando tanto spesso nel ridicolo com’è accaduto e continua ad accadere alla nostra.
E qui l’antologia di Buttafuoco tocca l’apice del divertimento con la raccolta delle migliori descrizioni dello scrittore dell’Italietta dei tempi della «battaglia del grano», della «bonifica culturale» (tra l’altro Longanesi era convinto che molto più dell’abolizione della libertà  di stampa da parte del fascismo, sulla qualità  dell’informazione di quegli anni, avesse giocato l’inveterata tendenza all’autocensura e alla «versione ufficiale» dei giornalisti italiani), della retorica sull’Antica Roma, per arrivare alle pagine deliziose sulla campagna d’Africa e sulla nascita dell’Impero, seguita all’esagerata enfatizzazione dello storico incidente di Ual Ual.
L’Italia del «posto al sole» e degli italiani che sognano «di sposarsi con le negre», delle canzonette che celebrano i fidanzati che partono per l’Africa Orientale, di quelli che fanno i conti delle convenienze che ci saranno a diventare «reduci», e «se l’Africa si piglia si fa tutta una famiglia».
Poi c’è il Longanesi giornalista, amico di Montanelli, Moravia, Flaiano, Brancati, Pannunzio, Benedetti, inventore di un settimanale come «Omnibus» che sarà  la fucina del nuovo modo di informare attraverso le immagini, la scoperta delle foto, che i quotidiani impiegheranno altri vent’anni prima di saper usare, e che il nostro trasforma in un ingrandimento dei tic e tabù di uno Strapaese, l’Italia, diventata nel frattempo «una democrazia in cui un terzo dei cittadini rimpiange la passata dittatura, l’altro attende quella sovietica e l’ultimo è disposto ad adattarsi alla prossima dei democristiani»
Alla fine di una breve vita, Longanesi morì circondato da pochi amici, tra cui lo stesso Montanelli con cui era andato in giro nel ’48 con una macchina e un altoparlante a fare comizi volanti anticomunisti contro il Fronte popolare.
Fu proprio Indro a ricordare che la figlia Virginia, per ricordarlo, al funerale disse una frase che sarebbe piaciuta molto al padre: «E dire che gli orfani mi sono sempre stati così antipatici!».

Marcello Sorgi
(da “La Stampa”)

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FASSINA RIAMMESSO DAL CONSIGLIO DI STATO: ORA NON CI SONO PIU’ ALIBI PER NESSUNO

Maggio 17th, 2016 Riccardo Fucile

ANCHE FRATELLI D’ITALIA RIAMMESSA A MILANO

Stefano Fassina torna in corsa per il Campidoglio. Il Consiglio di Stato ha infatti accolto il ricorso della lista ‘Sinistra per Roma – Fassina sindaco’ riammettendola alle elezioni comunali del 5 giugno.
Il verdetto è stato emesso dalla Terza sezione, presieduta da Luigi Maruotti, che si è espressa sul ricorso presentato dal candidato di Si-Sel a sindaco di Roma dopo l’esclusione da parte della commissione elettorale e la bocciatura del ricorso presentato al Tar.
Giovedì i giudici amministrativi si esprimeranno sui ricorsi relativi alla lista civica e alle liste dei municipi.
“Felice per sentenza Consiglio di Stato. La sinistra torna in campo a Roma più forte di prima” è il primo commento di Fassina, affidato a un tweet.
Pochi minuti dopo arriva via Twitter anche la reazione del candidato pd Roberto Giachetti, che lancia un appello all’unità  per il secondo turno: “Contento per Stefano e i suoi elettori. Andiamo avanti, convinti che il popolo di centrosinistra sarà  unito al ballottaggio”.
Palazzo Spada ha riammesso anche le liste “Rete Liberale”, di sostegno al candidato sindaco Marchini e la lista di Fratelli d’Italia a Milano.
Ribaltate dunque le decisioni prese rispettivamente dal Tar Lazio e Lombardia.
Le liste erano state escluse per la mancata indicazione in alcuni atti della data di autenticazione delle sottoscrizioni.
Il Consiglio di Stato, si legge in una nota, “ha ritenuto illegittima tale esclusione perchè nessuna disposizione di legge prevede, per la materia elettorale, la nullità  di tali autentiche quando siano prive di data, purchè risulti certo che l’autenticazione sia stata effettuata nel termine previsto dalla legge. Il Consiglio di Stato ha sottolineato l’importanza del principio democratico della massima partecipazione alle consultazioni elettorali nei casi in cui le liste siano in possesso di tutti i requisiti sostanziali e formali essenziali richiesti dalla legge”.
I primi commenti alla sentenza, oltre quelli dello stesso Fassina e di Giachetti. arrivano pochi minuti dopo la nota del Consiglio di Stato.
“La riammissione di Fassina alle elezioni comunali di Roma è una buona notizia. La Sinistra non poteva e non doveva mancare da questa competizione elettorale ma non è mai troppo tardi per dialogare con il Pd e rinverdire l’esperienza del centrosinistra”, afferma, in una nota Stefano Pedica del Pd. “Mi auguro che Fassina torni a parlare insieme a Giachetti a tutto il popolo di centrosinistra. In gioco c’è il futuro di Roma e non possiamo lasciare il governo della città  in mano a populisti e demagoghi”.
Per Massimiliano Smeriglio, membro della segreteria nazionale di Sel, “la notizia della riammissione alle elezioni della lista ‘Sinistra per Roma’ e’ straordinaria.
Ora di nuovo tutti in campo piu’ convinti di prima per dare forza alla sinistra”.
“Il Consiglio di Stato ha riammesso la lista Sinistra per Roma per Fassina. Da domani tutti al lavoro per una grande impresa elettorale!” è il commento su Twitter di Gianluca Peciola, ex capogruppo di Sel in Campidoglio.

(da “La Repubblica”)

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