Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
NON SI PLACA LA RIVOLTA… ANCHE LE SPESE DI DI BATTISTA SONO ALTE … LE DUE STAR TRATTENGONO PER SE’ DA 10.000 A 13.000 EURO AL MESE DELLO STIPENDIO
Nel «Comunicato politico numero quarantacinque» sul blog, quando ancora i cinque stelle vivevano di radiosi ideali, Beppe Grillo scrisse la regola sui soldi nel Movimento: «Ogni eletto percepirà un massimo di tremila euro di stipendio, il resto dovrà versarlo al Tesoro, e rinunciare a ogni benefit parlamentare, iniziando dal vitalizio». Fine.
Da un’analisi delle spese dei leader del Movimento – Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista – resa possibile grazie al fatto che loro stessi pubblicano le loro note su tirendiconto.it, possiamo affermare che invece, tra indennità e rimborsi, le due star percepiscono una media superiore ai diecimila euro al mese.
In alcuni casi, viaggiano sui 12mila, o 13mila.
Gli inviti alla sobrietà dall’interno
La rivolta sui comportamenti di Di Maio è del tutto in corso, se persino un moderato come Nicola Morra ieri scriveva: «Tutti abbiamo spese per sostenere sul territorio eventi che riteniamo necessari per veicolare i contenuti di cui ci facciamo alfieri, però tutti siamo chiamati a farlo con la dovuta sobrietà ». Tutti.
Così, all’aspirante leader, per rispondere alla contestazione – mossagli dall’interno del gruppo parlamentare sui 108mila euro extraindennità spesi per «eventi sul territorio» – è stato generosamente messo a disposizione il blog.
E lui vi ha scritto: «Ho restituito ai cittadini italiani in tre anni e mezzo 204.582,62 euro. (…) Da quando sono stato eletto deputato e poi vice presidente della Camera avrei avuto diritto a stipendio aggiuntivo da vice presidente, stipendio pieno da deputato (di cui restituisco la metà ), spese di rappresentanza, auto blu, telepass gratuito, cellulare di servizio, spese gratuite in tipografia, tutti i rimborsi spese che non uso e non rendiconto. Ma ho rinunciato».
La bugia
Non è vero però che avrebbe avuto diritto, perchè la regola del Movimento era chiara e l’abbiamo citata.
Una bugia fattuale è poi che Di Maio «restituisca la metà » dello stipendio pieno da deputato.
A maggio, ultimo mese disponibile, ha restituito 1686 euro di quota fissa di indennità , su 4945 (intascandone dunque 3259: assai più della metà , i due terzi).
Ma è sui rimborsi il capitolo più incongruente con le promesse: Di Maio spende 6732 euro restituendone appena 460.
Ha dunque incassato e speso un totale di 9991 euro.
Ad aprile ha restituito (tra parte fissa di indennità e rimborsi) 1843 euro in tutto, percependo e spendendone invece 13196.
Sorvoliamo sui giustificativi vaghi: è vero che sono loro stessi a offrirceli, tuttavia nessuna azienda privata accetterebbe in nota voci generiche e senza pezze d’appoggio come le sue.
Anche Di Battista nel mirino
Nè si può dire che Di Battista o altri possano dargli grandi lezioni.
Dibba aggiorna di più: a giugno tra indennità e rimborsi incassa e spende un totale di 9564 (3187 più 6377). E a maggio un totale di 10030 (3202 più 6825).
I grafici del sito maquantospendi.it sono impietosi: nel gruppo parlamentare M5S, la media, per la parte fissa di indennità , è 2782 euro (senza rimborsi, attenzione: perchè la maggioranza ne spende tra i 6mila e gli ottomila), ma Di Maio è sempre sopra media, con 3200 euro.
Nei bonifici di restituzione, invece, in due anni è quasi sempre sotto la media del suo gruppo (grafico consultabile qui: www.maquantospendi.it/spese/9/47/).
In tanti furono espulsi per molto meno
È il costo della politica, bellezza; e questa polemica non avrebbe senso: per tutti tranne che per il Movimento.
I parlamentari espulsi dal M5S sono sempre stati espulsi usando l’accusa di soldi spesi e non ben rendicontat i.
E Di Maio, che giustifica gli «eventi sul territorio» dicendo che «è una dicitura fittizia»?
Lo dice Serenella Fuksia, ex M5S: «Diversi parlamentari addirittura non rendicontano da 9 mesi! Ricordo che per 4 mesi di ritardo, tra l’altro annunciati, motivati e documentati, la sottoscritta è stata esposta a pubblica gogna e con quella scusa espulsa».
Massimo Artini fu addirittura espulso pur avendo prodotto tutti i bonifici: il clan voleva espellerlo per altri motivi, e lo cacciò comunque.
In questa ipocrisia, fatta di menzogne fattuali da svelare una ad una, sta il peccato mortale di questa storia: non certe in spese del tutto legittime, per un parlamentare.
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
NUOVO AFFONDO DE LE IENE: ERANO A CONOSCENZA DEL FALSO QUATTRO PARLAMENTARI CINQUESTELLE
Un mistero dopo l’altro su cui indaga la Procura di Palermo mentre aumenta la rabbia ai piani alti del Movimento 5 Stelle.
In un solo giorno ad aprile del 2012 i pentastellati palermitani avrebbero raccolto 1200 firme per presentare la lista alle elezioni comunali di Palermo, ma queste stesse firme risultano essere state autenticate a marzo.
Ed è già questo il primo “mistero”, secondo la trasmissione ‘Le Iene’.
Ma non sarebbe il solo. A documentare ciò che stava accadendo a Palermo in quei giorni c’è anche uno scambio di mail tra attuali parlamentari e deputati regionali, un tempo semplici attivisti.
In sostanza, l’ipotesi avanzata dalla trasmissione è che quando ci si è resi conto che la lista sarebbe stata invalidata poichè c’era un errore relativo al luogo di nascita di uno dei candidati, gli attivisti palermitani che gestivano la raccolta firme sono corsi ai ripari falsificando le firme chiusi per 13 ore nella sede del Movimento
Così Samantha Busalacca, colei che fino a poche settimane fa era data in pole come candidata sindaco alle prossime elezioni, manda una mail a trentacinque grillini tra cui gli attuali deputati Riccardo Nuti, Giulia Di Vita, Azzurra Cancellieri, Claudia Mannino.
A tutti loro chiede di raccogliere quante “più firme possibile” e inoltra i moduli con il luogo di nascita corretto. Altrimenti “rischiamo di non poterci candidare”, scrive.
Un candidato risponde perplesso: “Com’è che era tutto a posto e adesso c’è questa urgenza?”. Giorgio Ciaccio, oggi deputato regionale, risponde: “Le firme che possono considerarsi valide sono 850, le altre sono incomplete”.
È questa la spiegazione che viene data, omettendo – secondo Le Iene – che invece il problema era relativo al luogo di nascita di uno dei candidati quindi era nulla la totalità delle firme.
Lo scambio di mail avviene di notte e l’appuntamento per la consegna dei moduli con le nuove firme viene dato per quella stessa sera.
Poi la mattina seguente Carla La Rocca scrive: “Alcuni di noi sono stati in sede fino oltre le 4 del mattino. Io e Claudia (Mannino ndr) abbiamo battuto il record delle 13 ore di fila, ma forse ce l’abbiamo fatta. Firme totali raccolte 1995”.
I conti comunque non tornano, anche perchè – secondo quanto risulta a Le Iene – solo dieci firme sarebbero state autenticate ad aprile. Tutte le altre invece a marzo, prima quindi dell’allarme lanciato da Busalacca.
Sta di fatto che adesso, a chiarire i misteri, ci penserà la Procura che ha delegato alla Digos l’acquisizione sia dell’elenco con le firme necessarie per la lista, prodotto all’Ufficio elettorale del Comune, sia di quello con le sottoscrizioni a sostegno della candidatura a sindaco di Riccardo Nuti, attualmente deputato M5S.
Vincenzo Pintagro, l’attivista che è diventato il grande accusatore di Nuti e compagni, intanto ribadisce: “Ho visto materialmente le firme falsificate. E rivedendo le ultime mail ho scoperto che hanno contribuito alla falsificazione non solo due persone ma almeno dieci”.
Inoltre alcune firme sono state disconosciute anche dagli stessi sottoscrittori della lista e due periti ne hanno acclarato la falsità .
Che ci sia una faida interna è altrettanto innegabile così come è chiaro che le comunarie sono state congelate e che in questo clima è difficile far partire la macchina.
Le notizie che dalla Sicilia arrivano ai piani più alti del Movimento non sono incoraggianti e mandano i vertici su tutte le furie.
Nei giorni scorsi Beppe Grillo – secondo quando viene fatto sapere – avrebbe suggerito agli esponenti grillini coinvolti, a partire dalla deputata Claudia Mannino, di autosospendersi.
Ma gli interessati avrebbero rifiutato di fare passi indietro garantendo la loro totale estraneità ai fatti.
Da qui il post sul blog, abbastanza contraddittorio, in cui il leader ringrazia Le Iene per il primo servizio, chiede che venga fatta chiarezza, parla di un errore di ignoranza e nei fatti riporta il dato che le persone accusate si dichiarano estranee e annunciano querela.
Il caso però continua a montare e a Grillo, dopo le nuove rilevazioni, viene voglia di scaricare i grillini palermitani coinvolti a ogni livello: o si sospendono autonomamente o si andrà dritti verso la sospensione imposta dai vertici.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
TROPPI “NON RICORDO” E ORA LA DEPUTATA POTREBBE ESSERE INDAGATA
Per un verso o per un altro Mafia Capitale continua a mietere vittime.
Questa volta si tratta della deputata Pd Micaela Campana, ex moglie di Daniele Ozzimo, uno degli imputati eccellenti, già condannato a due anni e due mesi per corruzione.
Molto probabilmente la procura di Roma la indagherà con l’accusa di falsa testimonianza per le dichiarazioni rese ieri durante l’udienza del processo Mondo di Mezzo.
Chiamata a testimoniare sui suoi rapporti con il ras delle cooperative Salvatore Buzzi – imputato chiave, con l’ex Nar Massimo Carminati nel processo – la deputata si è trincerata dietro una sfilza di «non ricordo».
A fine processo, quindi, la procura chiederà al tribunale di acquisire i verbali e valuterà se indagarla per quella «serie di bugie e reticenze smentite dal contenuto degli atti processuali».
L’atteggiamento «smemorato» della Campana ha fatto arrabbiare più di una volta la presidente della Corte, Rossana Ianniello: «Le ripeto per la quarta volta, mentire sotto giuramento è un reato molto grave».
La deputata Dem era stata convocata in aula per fornire spiegazioni circa le sollecitazioni di Buzzi per ottenere un’interrogazione parlamentare sull’appalto relativo a un centro rifugiati, bloccato da un giudice del Tar del Lazio. Un’intercettazione rivelava che la Campana salutava Buzzi, via sms, con «Bacio grande capo».
E Umberto Marroni, altro deputato Pd, gli inviava il seguente sms: «Ho parlato con Micaela meniamo».
Di più, in riferimento alla stesura dell’interrogazione precisava: «La sta preparando Micaela».
Micaela Campana si era dunque mossa a favore del boss delle cooperative rosse? In tribunale lo ha negato: «Ricordo che Buzzi mi chiamò spesso per questa interrogazione che voleva facessi: analizzai le carte e decisi di non farla».
Perplessità tra i pm anche in merito al coinvolgimento di un viceministro.
Il sostituto Luca Tescaroli chiede alla Campana per quale motivo fissò un incontro tra il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico e Salvatore Buzzi.
Laconica la risposta. «Fu lui a chiedermelo, ma non so di cosa dovessero parlare». Parole che fanno saltare sulla sedia la presidente della corte Ianniello: «Mi faccia capire, lei fissa un incontro col sottosegretario Bubbico a Buzzi solo perchè lui glielo aveva chiesto, senza conoscere le motivazioni di tale richiesta?».
Secca la replica: «Non ricordo». Così come non rammenta quando chiese a Buzzi di occuparsi del trasloco del cognato.
La Campana conferma invece di aver ricevuto da Buzzi denaro per finanziare sia la sua campagna elettorale a consigliera municipale nel 2001 sia quella dell’ex marito Daniele Ozzimo in Campidoglio nel 2013.
Entrambi i finanziamenti sono legittimi, ma la Ianniello ha una curiosità : «Visto che all’epoca si era già lasciata con suo marito perchè fu lei a fare da tramite?».
La deputata precisa: «Perchè lo ritenevo una persona valida per il Campidoglio», precisa la deputata. La testimone, infine, non fornisce spiegazioni su un sms inviatole da Buzzi nel novembre 2014 sull’avvenuto pagamento per la cena di finanziamento del Pd con il premier Matteo Renzi.
«Io gli indicai solo il numero di conto corrente. Ricordo le persone della cooperativa alla cena, ma non ricordo di aver visto Buzzi. Di sicuro non mi ha consegnato nulla». E mentre il M5S bolla come «terribilmente imbarazzante sia la Campana, sia il Pd», la deputata ammette di aver agito «ingenuamente. In aula potevo avvalermi della facoltà di non rispondere ed invece ho scelto di sottopormi alle domande dei magistrati in un processo importante per questa città ».
(da “La Stampa”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
IL RETROSCENA ANTICIPATO DA “REPUBBLICA”
L’Unione Europea è pronta a bocciare la manovra targata Renzi-Padoan. È quanto riporta un articolo pubblicato sul quotidiano la Repubblica.
Il governo ha una settimana di tempo per cambiare la manovra, altrimenti riceverà una lettera Ue preludio alla bocciatura formale: nei primi giorni della prossima settimana una missione di Bruxelles arriverà a Roma per passare al setaccio i nostri conti.
Ieri Jean-Claude Juncker, tramite canali riservati, ha fatto sapere a Renzi che non è nelle condizioni di far passare la legge di bilancio così come è stata notificata alla Commissione.
In vista del referendum, Juncker si è esposto molto per aiutare il premier, ma il testo giunto dal Tesoro non è ritenuto commestibile sia dal punto di vista legale (ogni anno le Capitali devono tagliare il deficit mentre l’Italia ha già ricevuto ampie deroghe e ora ne chiede altre) sia da quello politico.
Troppo elevato il deficit, al di là dei patti stretti tra lo stesso Juncker e Renzi (ok ad una formulazione che si fermasse massimo al 2,2 per cento rispetto al target dell’1,8 mentre il governo ora chiede il 2,3). E oltretutto la composizione della manovra non permette di giustificare i numeri: troppe una tantum e poi una stima sui costi che l’Italia sosterrà sui migranti esageratamente superiore a quella che si ottiene applicando i criteri europei.
Criteri che Roma ha deciso di ignorare chiedendo un bonus per tutti i costi legati ai profughi previsti per il 2017 anzichè per il solo incremento delle spese rispetto al 2016.
Già giustificare il 2,2 per cento – spiegano da Bruxelles – è tecnicamente difficilissimo considerando la composizione del testo: comunque non ci sarebbe la sicurezza che passi al vaglio dell’Eurogruppo — il tavolo dei ministri finanziari – anche se Juncker sembra disposto a correre il rischio ma solo a patto che Roma segua le indicazioni di Bruxelles nella riscrittura del testo.
Del resto si sostiene che il 2,3 per cento non passerà mai, e dunque la Commissione non può inviare all’Eurogruppo una decisione che verrebbe ribaltata con l’Italia che finirebbe ugualmente nel mirino e Juncker e Moscovici che ne uscirebbero politicamente a pezzi.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
12 CANDIDATI SINDACI (POI ELETTI) AVEVANO ADERITO ALLA PROPOSTA “SIACHIVOTI” SULLA TRASPARENZA NELLE NOMINE ALLE PARTECIPATE, MA BEN 10 NON HANNO POI RISPETTATO L’IMPEGNO
L’espressione “promesse da marinai” rischia di dover essere aggiornata in “promesse da sindaci”.
Solo due primi cittadini (Novara e Savona) tra i 12 coinvolti hanno rispettato l’impegno preso aderendo alla campagna “Sai chi voti”.
Dodici candidati, prima di essere eletti, avevano sottoscritto l’intenzione di approvare entro i primi 100 giorni della designazione della giunta il metodo delle audizioni pubbliche per le nomine di competenza comunale ai vertici delle società partecipate, degli enti e dei consorzi.
Promosse Savona e Novara
«A oggi solo i sindaci di Savona e Novara hanno rispettato i patti presi con gli elettori», denunciano gli organizzatori della campagna. Due promossi, insomma.
E nemmeno a pieni voti.
In particolare Ilaria Caprioglio, sindaca di Savona, e la sua giunta hanno proposto il 17 settembre una delibera di modifica del regolamento sulle nomine nelle partecipate che introduce le modalità di trasparenza proposte da “Sai chi voti”, modifica che dovrà essere votata dal Consiglio comunale.
Mentre a fine luglio il sindaco di Novara, Alessandro Canelli, ha indetto audizione pubbliche per due delle principali partecipate del Comune, Sun e Assa.
«L’audizione è avvenuta in Consiglio pubblicamente alla presenza dei giornalisti, ma senza rispettare la tempistica consigliata da “Sai chi Voti”», sottolineano i promotori della campagna.
Bocciate Raggi e Appendino
Ma la maggior parte delle amministrazioni, dieci sulle 12 coinvolte, ha disatteso gli impegni. «La sindaca di Torino, Chiara Appendino, ha mostrato interesse per l’iniziativa salvo poi procedere a nomine “tradizionali”, senza passare dalle audizioni pubbliche», denunciano gli organizzatori della campagna facendo riferimento alla nomina del presidente Amiat.
C’è da dire che l’amministrazione torinese ha scelto Lorenzo Bagnacani tra i 115 curricula ricevuti.
Ma, secondo “Sai chi voti”, è stato disatteso il meccanismo della audizioni pubbliche, cioè un momento di partecipazione in cui giornalisti, attivisti, associazioni e singoli cittadini possono pubblicamente porre domande ai candidati e quindi valutare il merito delle risposte.
«Anche la sindaca Virginia Raggi – continuano gli organizzatori della campagna – ha effettuato nomine di s stampo tradizionale per l’amministratore unico dell’azienda dei trasporti».
Gli altri Comuni rimandati
Ma Torino e Roma sono in buona compagnia: tra i bocciati perchè non hanno mantenuti gli impegni – o non l’hanno fatto nei tempi sottoscritti in campagna elettorale-, ci sono anche Bologna, Varese, Gallarate, Latina, Trieste, Caserta, Brindisi e Vittoria.
“Trasparenza solo a parole”
«È la conferma che la trasparenza e il cambiamento per molti Sindaci sono solo orpelli mediatici. Tra politici di vecchio e nuovo conio nessuna differenza: lo stile pare proprio lo stesso», dichiara Federico Anghelè di Riparte il futuro, organizzazione che con Transparency International, Associazione Pubblici Cittadini, Movimento Consumatori, Action Aid, Carte in regola e altri movimenti della società civile ha promosso la campagna.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
NEGLI ULTIMI 25 ANNI FIAT, ENI E TELECOM HANNO PERSO DUE TERZI DEI DIPENDENTI IN ITALIA…E DOPO E’ RIMASTO SOLO IL VUOTO
La data clou non è ancora fissata ma a Cassino, nello stabilimento Fiat che un tempo sfornava modelli popolari come la 131 o la Ritmo, se l’aspettano per fine novembre. In gergo lo chiamano “Job One”: è l’esemplare numero uno che uscirà dalla catena di montaggio del primo Suv nella storia dell’Alfa Romeo, nome in codice Stelvio, nome definitivo chissà .
I lavoratori trattengono il fiato, perchè il rilancio della casa del biscione da parte del gruppo Fiat-Chrysler (Fca) è un passo fondamentale per far tornare stabilmente l’Italia nel mondo dei produttori di auto, scongiurando l’ennesim o tracollo del sistema produttivo.
«Se tutto va bene, con l’avvio del secondo turno di lavoro sulla nuova Giulia e l’inizio della produzione del Suv, da gennaio a Cassino finalmente sarà riassorbita la solidarietà . Un buon segnale, che conferma i progressi degli ultimi tempi», dice Ferdinando Uliano, segretario nazionale dei metalmeccanici Cisl.
L’obiettivo che Uliano ha in testa è questo: nel 2016, se i ritmi attuali terranno fino a dicembre, la produzione di veicoli in Italia dovrebbe tornare sopra la soglia di un milione l’anno.
È tanto, è poco. Tanto perchè non accadeva dal 2008, l’ultima volta sopra quota un milione. E anche perchè nell’anno più buio per l’automobile made in Italy – il 2013 – il conteggio si fermò addirittura a 595 mila unità , un dramma.
Allo stesso tempo è poco. Perchè la ripresa, e la strategia di Fca di costruire qui vetture di fascia alta come Alfa, Jeep e Maserati, che possono generare un valore aggiunto più elevato, non appare sufficiente a cambiare il segno di un fenomeno preoccupante: l’industria italiana, quella delle fabbriche e delle tute blu, non crea più lavoro.
Basta guardare i dati pubblicati qui sotto per toccare con mano uno dei motivi per cui l’anno scorso altri 39 mila giovani – molti laureati, tanti dalle regioni del Nord – hanno deciso di lasciare l’Italia, come racconta l’ultimo rapporto della Fondazione Migrantes.
IL CROLLO DEI POSTI DI LAVORO NELLE GRANDI IMPRESE
Un quarto di secolo fa il principale gruppo metalmeccanico nazionale, la Fiat, dava lavoro in patria a 237 mila persone, su un totale di 303 mila nel mondo.
Nel 2015 il numero complessivo è identico, sempre 303 mila, ma lo è soltanto grazie alle acquisizioni all’estero, a cominciare dall’americana Chrysler.
Oggi le attività industriali della famiglia Agnelli, le auto, i camion, i trattori, raggruppate sotto la holding Exor, contano 100 mila addetti in Nord America, 53 mila in America Latina, 84 mila in Italia e il resto in giro per il mondo.
In venticinque anni, dunque, in Italia solo la Fiat ha visto svanire oltre 152 mila posti di lavoro, aumentandoli invece enormemente all’estero.
Merita ancora un’occhiata la tabella qui sopra: l’azienda con il maggior numero di dipendenti, oggi, sono le Poste Italiane.
Che puntano tutto sui risparmi depositati dai clienti al BancoPosta e probabilmente non sono più la fabbrica di poltrone sognata dai fanatici del posto fisso “a prescindere”, come il personaggio di Checco Zalone nel film “Quo vado?”.
Ma certamente restano ancora lontane dal diventare il motore della digitalizzazione del Paese, com’è avvenuto altrove.
La scomparsa delle manifatture non è un fenomeno solo italiano ma colpisce tutto l’Occidente.
Uno dei simboli è certamente Detroit, la capitale dell’auto americana, che con la crisi vissuta nei primi anni Duemila ha visto la popolazione dimezzarsi, le scuole professionali che un tempo sfornavano i tecnici per General Motors, Ford, Chrysler, ridursi a scheletri di cemento, le villette dei sobborghi finire soffocate dalle erbacce, il municipio dichiarare bancarotta.
Anche nelle città italiane, però, la chiusura degli stabilimenti ha lasciato ovunque ferite più o meno estese, al punto che nemmeno Milano, la più dinamica fra le nostre metropoli, dove la mutazione verso il commercio e i servizi è iniziata prima, è riuscita a rimarginarle del tutto.
Un po’ di numeri: nel 1990 l’industria dava lavoro a 5,8 milioni di italiani; dieci anni più tardi era scesa a 5,1 milioni.
Con l’inizio del nuovo millennio le cifre hanno ballato su e giù per un po’, mostrando addirittura un lieve aumento nel biennio precedente la crisi del 2008.
Con la recessione, però, è arrivato un nuovo collasso, ancora più profondo: nel 2014 gli addetti dell’industria erano scesi ormai a 4,5 milioni, un numero rimasto fermo anche nel 2015, quando nell’intero Paese l’occupazione è tornata a crescere.
Nei primi sei mesi del 2016 la musica non è cambiata, anzi: il numero degli occupati nell’industria è sceso – anche se di pochissimo – sotto la soglia dei 4,5 milioni, mentre nel complesso dell’economia i posti di lavoro rilevati dall’Istat sono aumentati di 222 mila unità . Difficile che le cose possano cambiare molto entro la fine dell’anno, nonostante l’aumento registrato in agosto dalla produzione industriale (+4,1 per cento su base annua)
PIU’ COMMESSI CHE OPERAI
Giuseppe Berta, uno dei più noti storici dell’industria nonchè collaboratore de “l’Espresso”, ha pubblicato pochi giorni fa il saggio “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” (il Mulino).
Alla domanda del titolo, nel libro Berta risponde in modo articolato e complesso. Tuttavia, ammette lui stesso in un passaggio, guardando «l’architettura storica del sistema delle imprese» la conclusione più immediata sarebbe dire che, semplicemente, il capitalismo italiano «non esiste più».
La stessa suggestione si può trarre mettendo a confronto i dati elaborati nelle due classifiche qui sopra, che riportano la “Top ten” delle imprese con più occupati in Italia, com’era nel 1990 e com’è diventata un quarto di secolo più tardi, nel 2015. L’effetto è dirompente.
Detto della Fiat, nelle prime posizioni ci sono le Poste e le Ferrovie dello Stato, che nel 1990 non erano nemmeno società per azioni e che ancora oggi restano saldamente nelle mani dello Stato.
Sono scomparsi quasi del tutto due colossi industriali privati com’erano Olivetti e Montedison, ma sono scivolati fuori classifica anche altri operatori che un tempo davano lavoro a decine di migliaia di persone, Ilva, Alitalia, Fincantieri. La prima, passata per la privatizzazione e la gestione della famiglia Riva, è ora commissariata per i danni ambientali causati a Taranto, aggrappata a una vendita che slitta di volta in volta. Alitalia fatica a trovare un rilancio nonostante sia stata radicalmente ridimensionata e abbia accolto in plancia di comando gli emiri di Etihad.
Fincantieri è sempre controllata dallo Stato, attraverso la Cassa depositi e prestiti, e conserva il baricentro in Italia, ma agli otto cantieri navali sul territorio nazionale ne affianca ormai cinque in Norvegia, tre negli Stati Uniti, due in Romania, altrettanti in Brasile e uno in Vietnam.
Risultato: fra il 1990 e il 2015 i dipendenti sono cresciuti un po’, da 20.623 a 21.120. Prima però erano tutti in Italia; ora ne è rimasto appena uno su tre.
Per una nazione che ha costruito ogni slancio sull’export, non è un bel segnale nemmeno la pochissima industria che c’è tra le new entry.
Hanno fatto il loro ingresso i supermercati, con il gigante del sistema cooperativo – la Coop – che è ormai il quarto datore di lavoro tricolore, seguito in nona posizione dall’Esselunga dei Caprotti.
Ed è entrata la famiglia Benetton, con la holding Edizione. Anche qui, però, c’entrano poco i maglioncini che avevano proiettato Luciano e i suoi fratelli al vertice dell’industria tessile e dell’abbigliamento mondiale.
Il grosso dei dipendenti, oltre 40 mila su un totale di quasi 65 mila, il gruppo Edizione li conta infatti nel settore della ristorazione, dove i Benetton hanno debuttato acquistando dallo Stato l’Autogrill, per allargarsi in tutto il globo con 250 marchi diversi, dalla cucina asiatica dei ristoranti Pei Wei alle birrerie Gordon Biersch.
Poi seguono le concessioni autostradali e aeroportuali, anche quelle acquisite via privatizzazione, con 14.600 dipendenti.
Ultimo arriva l’abbigliamento, che occupa 9.164 persone. Nel complesso, però, i lavoratori italiani sono poco più di uno su tre, sul totale dei 65 mila nel mondo. Mentre i Benetton si muovono sempre più da investitori finanziari, puntando su settori meno rischiosi, lontani dalle frontiere dell’industria.
QUEI GIGANTI SMANTELLATI DALLE LOBBY
Italia, abbiamo un problema, verrebbe dunque da dire. I motivi dell’arretramento dei posti di lavoro creati dal sistema manifatturiero sono vari.
Alcuni toccano noi come gli altri Paesi. Fulvio Coltorti, a lungo direttore dell’Area Studi di Mediobanca e oggi professore di Storia economica all’Università Cattolica di Milano, indica tra gli altri il progresso delle tecnologie, l’internazionalizzazione, la frantumazione delle fasi produttive che un tempo venivano realizzate all’interno della stessa fabbrica, e che oggi sono affidate a terzi, magari in Paesi dove la manodopera costa meno.
A questi affianca però problemi più caratteristici del nostro sistema, come ad esempio «l’incapacità italiana di gestire le grandi imprese e i metodi di governo societario che richiedono».
Gli esempi possibili sono potenzialmente infiniti, dalla crisi dell’Alitalia allo smembramento della Montedison post Ferruzzi, causato dalla scalata favorita dalla Fiat per scopi puramente speculativi, mentre un caso particolare è quello dell’industria pubblica che un tempo faceva capo all’Iri, sul quale concentrano la loro attenzione sia Coltorti che Berta.
Scorrendo le due “top ten”, quella del 1990 e quella del 2015, balza infatti agli occhi un altro fattore cruciale.
Tra i big italiani, infatti, l’industria di Stato resta dominante oggi come allora. In termini di occupati, però, tutti i gruppi hanno fatto marcia indietro.
C’è il progresso tecnologico, e c’è la ricerca di maggiore efficienza indotta dal fatto che molte aziende sono state aperte a capitali terzi, attraverso la quotazione in Borsa. «Ma conta anche il dimagrimento imposto dalle lobby private, che puntavano a occupare spazi di mercato e spingevano perchè i gruppi statali cedessero parte delle loro attività », dice Coltorti.
Con il paradosso che poi, quando l’uscita dello Stato è avvenuta, come nel caso di Telecom Italia, le famiglie del capitalismo italiano non sono state in grado di assumerne la gestione, e i gioielli dell’Iri sono finiti in mani straniere.
Anche Berta indica nella progressiva uscita di scena dello Stato-padrone il punto di non ritorno per molti dei giganti che un tempo assorbivano più manodopera: «I dati dimostrano che, in Italia, gli investimenti più massicci sono sempre stati fatti dalla mano pubblica.
Quando il duopolio fra l’industria di Stato e le grandi famiglie è venuto meno, perchè la prima è andata dissolvendosi e le seconde hanno venduto le loro attività , il nostro modello produttivo – che rappresentava un vero e proprio sistema di economia mista – è stato definitivamente disarticolato, senza che fosse pronto un modello alternativo», spiega lo storico.
Un fatto importante, sottolineato ancora da Coltorti. La perdita di occupati che ha colpito quasi tutti i big italiani, considerando sia i posti in patria che quelli all’estero, non è un dato scontato. In diversi gruppi stranieri, infatti, la storia si è mossa in maniera opposta.
Coltorti vi aveva dedicato uno studio qualche anno fa, quindi i numeri possono essere un po’ vecchiotti. Ma il senso non cambia.
La tedesca Volkswagen nel 1993 aveva 260 mila dipendenti, che nel 2009 erano saliti a 376 mila. La Siemens nello stesso periodo aveva tenuto botta, restando sempre sopra la soglia dei 400 mila. Un altro gigante tedesco della componentistica, Bosch, era salito da 165 a 271 mila, mentre gli pneumatici Continental avevano più che raddoppiato, salendo da 50 a 133 mila addetti. Il colosso alimentare svizzero Nestlè era passato da 214 a 278 mila, la multinazionale francese del vetro Saint Gobain da 96 a 199 mila.
IL PADRONE? A FORMENTERA
Certamente molti altri gruppi, anche esteri, hanno ridotto le loro dimensioni com’è avvenuto qui.
Ma quello che colpisce, in Italia, è soprattutto il fatto che dal basso non sia emerso nessun attore industriale di peso, capace di occupare gli spazi liberati dai big in disarmo o di sfruttare le occasioni offerte dallo sviluppo di molti nuovi mercati , un tempo inesistenti.
Le patologie dei “top ten” di un tempo, dunque, erano presenti anche nei gruppi di taglia inferiore. Marco Tronchetti Provera ha venduto il controllo della Pirelli al gruppo statale cinese Chemchina, la famiglia Pesenti l’Italcementi alla tedesca HeidelbergCement e gli eredi Merloni la storica Indesit all’americana Whirlpool, facendo scomparire l’ultimo grande produttore italiano di elettrodomestici, un comparto che un tempo pullulava di dinastie imprenditoriali, da Zoppas a Zanussi. «Sono centinaia i casi di crisi del capitalismo di seconda generazione, dove i figli dei fondatori non sono stati in grado di portare avanti le aziende dei padri», dice il segretario generale dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli.
Ne racconta uno, emblematico: «Mi ricordo il momento durissimo di un’acciaieria del Nord Italia, seguito alla scomparsa del proprietario. Mi creda, per portare il figlio al tavolo delle trattative siamo andati a prenderlo in spiaggia a Formentera».
In un suo recente libro, intitolato “Abbiamo rovinato l’Italia?” (Castelvecchi editore), Bentivogli cita i dati di uno degli indicatori più importanti della salute generale dell’industria, la domanda mondiale d’acciaio, messi a confronto con i profitti che gli imprenditori si sono distribuiti sotto forma di dividendi: «Ebbene, negli anni che vanno da 2005 al 2007, quando l’economia tirava ma si stavano per manifestare gli effetti più duri della globalizzazione, gli imprenditori italiani invece d’investire per fronteggiare la concorrenza hanno pensato soprattutto al benessere delle proprie famiglie», spiega il sindacalista, che rintraccia in fenomeni come questo il motivo della crisi di produttività delle imprese italiane.
Dice: «Si parla sempre dei salari, che però in media pesano soltanto per il 15 per cento sull’indicatore che misura la produttività , il costo del lavoro per unità di prodotto. Quello che è mancato davvero, in Italia, sono stati gli investimenti, la capacità di dare alle imprese una migliore organizzazione, la formazione del personale. Guardi la Fiat di Cassino: soltanto l’adozione di un’organizzazione in linea con i principi della “World class manufacturing” ha reso possibile l’utilizzo di tecnologie che hanno richiesto forti investimenti, dando un futuro allo stabilimento».
IL TRIONFO DELLA CLASSE MEDIA
Torniamo alla classifica, e guardiamo sotto la decima posizione.
Quando c’è da citare un esempio di successo di un’azienda che da piccola si è fatta grande, il primo caso che viene in mente è quasi sempre quello della Luxottica di Leonardo Del Vecchio.
Nel 1990 aveva 2.605 dipendenti, oggi ne conta 78.933. Mica male, verrebbe da dire. Studiando i numeri da vicino, si può però osservare che questa crescita esponenziale ha toccato in misura marginale l’Italia.
Ben 42.313 dei suoi addetti, l’azienda specializzata nella produzione e nella vendita di occhiali li ha infatti in Nord America, 18.31 in Asia e nel Pacifico.
Perchè? Il motivo è che nello stabilimento bellunese di Agordo e negli altri cinque impianti italiani Luxottica produce, mentre al di là dell’Atlantico e in Oriente vende attraverso una serie di negozi che ha acquisito o sviluppato nel tempo, 4.458 dei quali in Nord America, 330 in Cina e a Hong Kong, 878 tra l’Asia e il Pacifico, soprattutto in Australia e Nuova Zelanda.
Benissimo per le fabbriche italiane e per quelle straniere (in Cina, in India, in Brasile, negli Stati Uniti) ma è chiaro che, dal punto di vista occupazionale, l’impatto sulla patria d’origine resta piuttosto limitato.
Molto interessante anche un altro esempio, quello della veronese Calzedonia, un gruppo nato nel 1986, soltanto quattro anni prima della nostra top ten di un quarto di secolo fa.
Ebbene, pochi sanno che l’azienda presieduta da Sandro Veronesi, proprietaria anche di marchi come Intimissimi e Tezenis, ha ormai 32.382 dipendenti, 1.677 assunti nell’anno dell’ultimo bilancio disponibile, relativi al 2015.
Il gruppo produce i suoi capi di abbigliamento – biancheria, lingerie, costumi da bagno – all’estero, in particolare in Sri Lanka, Croazia e Serbia, poi li vende nei negozi monomarca, diffusi in mezzo mondo. Così in Italia, la patria d’origine, i dipendenti sono solo una fettina del totale, circa 3.300.
Se Luxottica e Calzedonia sono ormai nomi conosciuti, va detto che molte delle medie aziende che costituiscono l’ossatura dell’industria italiana non hanno nemmeno l’interesse di aumentare in maniera radicale le loro dimensioni di scala.
«Essendo molto specializzate, se escono dal business che conoscono meglio rischiano di perdere la loro presenza sul mercato», spiega il professor Berta, sottolineando che in questa “tara dimensionale” pesa molto anche la scarsa propensione delle famiglie proprietarie e dei manager a condurre aggregazioni. I nomi di questi gioielli imprenditoriali sono numerosi: ci sono i freni Brembo, i collanti della Mapei, i macchinari della Ima, solo per limitarsi ai più citati.
Eppure, anche se non hanno mai smesso di crescere, dal punto di vista dell’occupazione non possono essere poche eccellenze a dare le risposte che servono all’Italia.
Un po’ di speranza, piuttosto, potrebbe venire dalla rivoluzione chiamata Industria 4.0. È un processo di digitalizzazione della produzione, che porta i macchinari a interagire direttamente fra loro e con le altre funzioni dell’azienda, dal marketing alla forza vendite, nel nome di una flessibilità estrema delle diverse fasi produttive.
Il lato positivo è che i vantaggi di scala delle grandi fabbriche e del basso costo del lavoro vengono meno, e che questo potrebbe favorire il rientro in Italia di molte produzioni in passato delocalizzate nei Paesi più poveri.
Ma ci sono molte incognite, a cominciare dal fatto che bisogna investire in centri ricerca, competenze professionali, reti digitali e quant’altro. il governo si è mosso, con un piano ad hoc proposto dal ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda.
Ma la sfida è colossale, perchè l’industria cambierà in maniera molto profonda nel giro di pochi anni.
Guai a muoversi in ritardo.
Luca Piana
(da “L’Espresso”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
QUATTROCENTO OSPITI PER L’ULTIMO EVENTO DELLA PRESIDENZA OBAMA… BRILLANO LE FIRST LADY MICHELLE E AGNESE
Prima il dovere poi il piacere, aveva detto in italiano Barack Obama la mattina, all’inizio della visita di Stato.
E infatti nella notte, la sera per l’ora di Washington, è andata in scena la State dinner in onore di Matteo Renzi e della moglie Agnese Landini, l’ultima cena di Stato della presidenza Obama.
C’erano gli annunciati ospiti italiani, tra loro Roberto Benigni con la moglie Nicoletta Braschi, Paolo Sorrentino, Bebe Vio, Giusi Nicolini, Raffaele Cantone e Giorgio Armani. C’erano anche il consigliere di Renzi Giuliano Da Empoli, amico dello spin doctor Jim Messina, il commissario di Bagnoli Salvo Nastasi e il neocommissario per il digitale Diego Piacentini.
Invitati da Obama erano presenti anche il presidente della Fiat Chrysler Automobiles John Elkann con la moglie, l’attore italo-americano John Turturro e tutta la Waashington che conta: il capo del Pentagono Ash Carter, la consigliera per la sicurezza nazionale Susan Rice, la presidente dell’opposizione democratica alla Camera dei rappresentanti Nancy Pelosi, il vicepresidente Joe Biden.
In tutto 375 ospiti sistemati sotto un grande tendone.
In primo piano Michelle e Agnese, in abito oro rosa Versace la first lady americana, in argento lavorato del fiorentino Scervino la moglie del premier italiano. “Non ti preoccupare di come siamo vestiti, sono interessati solo agli abiti delle signore”, ha subito scherzato Obama salutando Renzi, in smoking Armani, nel portico della Casa Bianca.
Al tavolo principale erano seduti Obama, Renzi, Michelle, Agnese, Elkann e il comico Jerry Seinfeld.
In sottofondo musica jazz e Dixieland, accanto a Funiculi funiculà e l’aria del Nessun Dorma. Un’atmosfera calda, illuminata da candelabri di cristallo, per una festa in piena regola con menu a cura dello chef Mario Batali, nel segno dei sapori italiani: agnolotti di patata dolce, insalata di zucca con il pecorino di New York, braciole con cremolata di rafano e friarielli, il tutto innaffiato da Vermentino e Sangiovese.
Al brindisi Obama si è concesso qualche gag nei confronti dell’ospite italiano: “Una volta ero io quello giovane, ora è lui, stimo il suo ottimismo, la sua energia e la sua visione”, ha detto ricordando gli esordi di Renzi adolescente alla Ruota della Fortuna. E poi ha fatto ridere gli ospiti assicurando che “Benigni ha promesso di non saltare sui tavoli”.
Da parte sua, Renzi ha scherzato dicendo a Michelle Obama: il tuo ultimo discorso in sostegno di Hillary Clinton “è migliore dei tuoi pomodori”.
Anche alla Casa Bianca Benigni non ha rinunciato a stupire.
A Barack Obama ha detto di “fermare Renzi”, a Michelle ha consigliato il cavolo nero per il suo orto alla Casa Bianca.
“È stata una cosa bellissima, ci siamo parlati, abbracciati, scambiati emozioni”, ha detto ai giornalisti durante la cena, sottolineando tra le sensazioni più forti quella dell’amicizia e di “stare di fronte a due persone irripetibili, straordinarie: ci si sente contemporanei di qualcuno”.
Il premio Oscar ha poi sottolineato quanto gli abbia fatto piacere sapere che una figlia degli Obama ha visto 20 volte il suo film La vita è bella.
E ha chiuso con una battuta: “Io probabilmente resto qui, sto cercando una cosetta nell’orto di Michelle, le ho consigliato il cavolo nero perchè lei non capisce molto di cavolo. Siccome io sono di origini contadine le ho consigliato il cavolo nero che cresce in Toscana”.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
CORSIE SEMPRE PIU’ VUOTE, PAZIENTI RICOVERATI IN AUMENTO… SERVIREBBERO 25.000 INFERMIERI
Pochi giorni fa, a margine del suo intervento dal palco dell’assemblea Anci di Bari, il premier Renzi ha annunciato che lo Stato italiano tornerà presto a bandire concorsi di assunzione nella Pubblica amministrazione: «Diecimila posti di lavoro suddivisi tra forze dell’ordine, infermieri e dottori».
Un numero che però potrebbe anche non bastare, soprattutto nel caso degli infermieri
«Per salvare il nostro Sistema Sanitario Nazionale dal collasso ne servirebbero almeno 25 mila», è l’allarme lanciato da Cecilia Taranto, responsabile per la Sanità della segreteria nazionale Fp Cgil.
Un’affermazione che sembra trovare riscontro nei dati a disposizione.
Secondo l’analisi del Conto Annuale, periodo dal 2007 al 2014, pubblicata dalla Ragioneria Generale dello Stato, infatti, il Ssn ha perso in soli 5 anni 30 mila dipendenti, di cui si può stimare che un 70% siano infermieri e operatori socio-sanitari.
Nel 2009 il personale ammontava complessivamente a 693 mila unità , ridotte poi a 663 mila nel 2014, e con una progressione simile è probabile che negli ultimi due anni se ne siano perse almeno altre 6 mila.
«Ma se andassimo a vedere regione per regione il quadro sarebbe ancora più drammatico», prosegue la Taranto
Un male diffus
Perchè, se c’è un aspetto che accomuna tutte le regioni del nostro paese, sembra proprio essere quello delle carenze a livello di personale operativo del sistema sanitario.
Dai 1563 dipendenti in meno che lamentano le associazioni sindacali della Puglia, agli oltre 3000 che mancherebbero in Piemonte, fino alla piccola Valle d’Aosta che con soli 703 tra infermieri e operatori socio-sanitari ne avrebbe bisogno di altri 100.
E questi sono solo alcuni dei numeri, mentre è più difficile fare una valutazione di regioni come Calabria, Molise e Campania che, sottoposte a piano di rientro, sono considerate tra quelle in più gravi condizioni
Pazienti in aumento e corsie degli ospedali sempre più vuote, dunque.
Le cause di una situazione del genere vanno ricercate essenzialmente nel progressivo blocco del turnover e delle assunzioni in un settore lavorativo dall’età media sempre più alta e considerato come estremamente logorante, tanto da essere inserito dal governo nella platea di lavoratori che potranno usufruire del cosiddetto «Ape social» per ottenere un accesso agevolato alla pensione.
All’ester
«Una realtà come quella di altri paesi europei, dove per ogni sei malati c’è un infermiere, sarebbe utopistica qui da noi, ma almeno bisognerebbe cercare di coprire i pesanti vuoti che vengono lasciati ogni anno – afferma la rappresentante della Cgil – anche perchè altrimenti si mettono a rischio i diritti dei lavoratori, ma soprattutto la sicurezza dei pazienti».
Cosa che, purtroppo, capita già adesso. Per mandare avanti gli ospedali e le altre strutture sanitarie in condizioni di personale ridotto, infatti, le amministrazioni sono tornate a mettere in discussione norme come la 161 del 2014 che garantisce ai dipendenti sanitari un riposo di 11 ore tra un turno di lavoro e l’altro
O cercano comunque di aggirarle magari ponendo gli orari di reperibilità proprio in mezzo ai turni di riposo, azzerando le ferie e spostando personale da altri settori affidandogli mansioni per cui non è stato preparato a sufficienza.
Come capita nei Pronto soccorso e nelle Emergenze, i reparti dove la preparazione di un infermiere è più importante e dove le carenze di personale oggi si fanno sentire maggiormente
«Renzi propone un rattoppo, nient’altro. Per risollevare il nostro Sistema Sanitario Nazionale servirebbe un programma di turnover organizzato secondo le esigenze di ogni regione e non qualche migliaio di assunzioni una tantum», conclude Cecilia Taranto.
Lorenzo Gottardo
(da “La Stampa“)
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Ottobre 19th, 2016 Riccardo Fucile
PER LA CORTE DEI CONTI RECUPERABILE SOLO IL 4,8%
Se Pier Carlo Padoan avesse la bacchetta magica e potesse di colpo incassare tutte le tasse rimaste in sospeso nel corso degli anni ridurrebbe di un terzo il debito pubblico. Secondo l’ultimo rendiconto generale dello Stato redatto dalla Corte dei Conti, infatti, ancora l’anno scorso nel bilancio dello Stato erano iscritti ben 795 miliardi di residui da riscossione relativi ai ruoli emessi dall’Agenzia delle entrate.
In realtà nella loro relazione i magistrati contabili gelano subito ogni aspettativa, perchè il valore di presunto realizzo supera di poco i 27 miliardi di euro, appena il 4,8% del totale.
Il maxibuco di Napoli
Che fine hanno fatto gli altri 768 miliardi? La spiegazione sta nelle cosiddette rettifiche. La sola Agenzia delle Entrate negli anni ha chiesto di abbattere 534,2 miliardi di residui.
Poi ci sono le cosiddette «informazioni contabili ritardatarie» ed in questo caso la Corte cita un caso clamoroso, quello dell’ex Ufficio Iva di Napoli, che da solo, tra vecchi condoni e accertamenti infondati e/o inesigibili, ha prodotto un «buco» di 56,14 miliardi. In pratica due volte la manovra che il governo ha appena varato.
Falliti o nullatenenti
Tutti questi residui sono calcolati al lordo, ma anche al netto l’importo è da paura: 552,6 miliardi. Peccato però che di questi ben 117,6 siano a carico di soggetti falliti e altri 65,3 riguardino persone decedute oppure ditte che hanno cessato l’attività .
Tant’è che da questi contribuenti si pensa di ricavare poco o nulla, appena il 2,5% dell’arretrato. Se va bene 4,5 miliardi in tutto.
Poi ci sono 242,8 miliardi legati a procedure esecutive e cautelari che a loro volta non produrranno un euro di incasso ed altri 75,9 miliardi di cartelle intestate a soggetti che in base ai dati dell’anagrafe tributaria risultano… nullatenenti.
Per cui anche da loro non ci si aspetta più nulla. Per fare cassa restano i creditori solvibili (8 miliardi recuperabili su 50,9 di debito netto) e gli importi già rateizzati (altri 14,48 miliardi).
Se si guarda ai conti di Equitalia si ritrova ovviamente la stessa situazione, aggravata però da interessi legali, sanzioni amministrative, aggi e interessi di mora, per cui alla fine il conto totale lievita all’incredibile cifra di 1.058 miliardi.
A tanto ammonta infatti il totale dei crediti non riscossi affidati alla società mista Agenzia Entrate-Inps. Anche questo dato però va ripulito: togliendo i crediti annullati dagli stessi enti che avevano emesso le cartelle esattoriali, tolte le somme difficilmente recuperabili, quelle sospese in seguito a sentenze e forme di autotutela si scende a 506 miliardi.
Poi, se si sottraggono anche le posizioni già oggetto di azioni esecutive di recupero non andate a buon fine (60% del totale), gli importi già riscossi (81 miliardi) e quelli rateizzati (24,5), ad Equitalia restano appena 85 miliardi.
O meglio 51 miliardi, 55 secondo altre stime, che sono le cartelle effettivamente «lavorabili». Che è esattamente il tesoretto finito nel mirino dell’operazione-rottamazione.
Se si applicasse l’aliquota del 4,8 indicata dalla Corte dei Conti per il totale del residuo, il Tesoro dovrebbe incassare tra 2,4/2,6 miliardi di euro. Padoan, invece, rottamando le cartelle punta a racimolare 4 miliardi.
Rate e rottamazione
Il decreto che cancella sanzioni e more, sia per i vecchi ruoli sia per quello che resta ancora da rateizzare per chi sta invece già pagando, è quasi pronto. La novità dell’ultima è rappresentata da una norma anti-furbetti che punta a scoraggiare eventuali «comportamenti opportunistici».
Chi ha in corso la rateizzazioni potrà infatti accedere alla rottamazione a patto che «risultino adempiuti tutti i versamenti con scadenza dall’1 ottobre al 31 dicembre 2016». E lo stesso vale per chi ha sospeso i pagamenti.
Anche in questo caso la decadenza dal piano di rateizzazione deve essere intervenuta prima dell’1 ottobre. La norma-Equitalia entrerà infatti in vigore col 2017, non prima.
Paolo Baroni
(da “La Stampa“)
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