Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
DIVISI ANCHE SULLE PRESIDENZE DELLE CAMERE… NEL CENTRODESTRA CRESCE L’INSOFFERENZA PER SALVINI: “FACCIA IL LEADER DELLA COALIZIONE NON DEL SUO PARTITO”
Uno apre ad alleanze con il Pd: “Se intere forze politiche dimostreranno disponibilità e responsabilità , si potrà andare verso una soluzione più stabile”.
L’altro, mezza giornata dopo, davanti al cancello del quartier generale di via Bellerio a Milano dove si è riunito il Consiglio federale, lo zittisce così: “Gli italiani non ci hanno votati per riportare Renzi al governo, e non credo che chi ha scelto la Lega voglia Gentiloni” ancora a Palazzo Chigi.
Forse troppo facile sarebbe ricordare che soli il 18% degli Italiani ha scelto Lega, difficile fare l’arrogante con questa percentuale.
Le dichiarazioni incrociate rilasciate in queste ore da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini sanciscono quella che, dopo le dimissioni di Matteo Renzi dalla guida dei dem, è la seconda certezza una settimana dopo il voto: e cioè che lo schema pre-elettorale della coalizione di centrodestra è saltato.
Tra il “leader” e il “regista-garante” c’è nervosismo e i due immaginano – e stanno lavorando per – scenari completamente diversi.
L’idea di governare con la premiership del partito più votato è rimasta nelle urne: i numeri ad oggi non ci sono ed è molto improbabile che ci siano perchè, anche se la caccia ai singoli parlamentari desse qualche frutto, non sarebbe mai abbastanza per garantire la governabilità (a parte lo squallore dell’operazione corruttiva)
Così, se Salvini continua a chiudere sulle sue posizioni (“niente governicchi o accordi organici”), Berlusconi allarga l’orizzonte.
La tensione tra i due, fanno trapelare i fedelissimi, è palpabile.
Dalle parti di Forza Italia c’è la convinzione che il leader del Carroccio non voglia governare e che non veda l’ora di godersi, dai banchi dell’opposizione, un bel governo Cinque Stelle-Pd.
Un’ipotesi che da una parte logorerebbe gli avversari e dall’altra, al prossimo giro, permetterebbe a Salvini di incamerare ancora più voti per lanciare la sua Opa sul centrodestra.
Un piano che l’ex cavaliere vuol far saltare, cercando sponde fuori dalla coalizione.
E non è un caso che la prima pagina del Giornale di oggi – che da sempre è la cassa di risonanza dei malumori di Arcore – titoli “Strappo di Salvini” riferendosi all’apertura del segretario della Lega ai Cinque Stelle.
Così come non è un caso che il suo direttore, Alessandro Sallusti, ospite ieri sera a “Non è l’arena” da massimo Giletti abbia detto senza troppi giri di parole: “Salvini si comporta da leader della Lega, e non da leader del centrodestra come dovrebbe essere”.
Tradotto: porta avanti i suoi interessi e non quelli della coalizione.
I poli, insomma, in questo primo post-voto, sembra più quattro che tre.
Tanto che si fa sempre più realistica la possibilità che alle consultazioni che si terranno intorno alle vacanze di Pasqua ognuno vada per conto suo, con delegazioni separate.
“L’importante è dire le stesse cose”, aveva provato a mettere una pezza sulle indiscrezioni il capogruppo della Lega a Montecitorio Massimiliano Fedriga. “L’indicazione che vogliamo dare è univoca”, glissa Berlusconi nell’intervista di oggi alla Stampa.
Ma prima dei colloqui con Mattarella c’è l’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento e anche qui la linea è diversa: Salvini assicura che con il suo alleato, su questo tema, “non ci sono problemi”, ma di fatto non è così.
I due si vedranno nei prossimi giorni, probabilmente nella seconda metà della settimana perchè il segretario della Lega è a Strasburgo fino a mercoledì, e l’incontro si preannuncia teso: perchè se Salvini – come ha ribadito domenica alla scuola di formazione politica del partito – sostiene che le presidenze di Camera e Senato vadano spartite tra i due vincitori, Lega e M5S, Berlusconi chiede una poltrona per Forza Italia.
O addirittura, l’ha buttata lì questa mattina Renato Brunetta, per il Pd.
Insomma, mentre la Lega si avvicina ai grillini, gli azzurri guardano in casa dem. Così, gli appelli di Mattarella alla “responsabilità ” vengono interpretati in due modi completamente diversi: per Salvini significa “rispettare il voto degli elettori” anche a costo di tornare alle urne o di stare all’opposizione, per Berlusconi significa cercare una maggioranza di governo con tutti i mezzi possibili.
Ci sono ancora molti nodi da sciogliere e c’è chi, in via Bellerio, è convinto che le trattative – che ancora devono prendere corpo – dureranno parecchio. E che alla fine, pur di non tornare a votare, Forza Italia e Pd tenteranno il tutto e per tutto per restare a galla.
Per cui l’imperativo categorico, in casa Lega, è: si governa solo se ci sono i numeri, se non ci sono meglio stare all’opposizione. Anche perchè è vista come difficile da percorrere anche la strada di un accordo parlamentare Lega-Cinque stelle per cambiare la legge elettorale e tornare al voto in tempi brevi.
A giorni, comunque, una volta chiarito il quadro post-direzione Pd e disegnata la rotta dei democratici, dovrebbero inziare i primi contatti con quei parlamentari con cui Salvini tenterà un accordo sul programma, in particolare sulla sua proposta di Def.
C’è poi un giallo, al momento non ancora risolto: dove si terrà l’incontro dei prossimi giorni tra gli alleati del centrodestra? A Roma o in via Bellerio? Non è solo un affare di location. Infine, la questione partito: al Congresso federale di oggi, una riunione durata circa tre ore, non solo si è parlato del risultato delle urne, ma si è iniziato a definire il nuovo corso del partito. Salvini ha dato il via al tesseramento 2018 smentendo l’indiscrezione secondo la quale il simbolo di Alberto da Giussano sarebbe sparito dalle nuove tessere: “Perchè mai dovrei toglierlo?” ha tagliato corto il segretario.
Ma, piccola curiosità , le tessere non saranno uguali per tutta Italia: sopra la linea del Po verranno utilizzate quelle del 2017 con ancora l'”etichetta” Lega Nord, mentre al sud verrà utilizzato il simbolo delle elezioni “Lega Salvini Premier”.
Un dualismo che presto – si è discusso a livello progettuale anche di questo – sarà uniformato ai prossimi congressi, dove sarà definitivamente completato il percorso di nazionalizzanione del partito, iniziato con la nascita di Noi con Salvini e sancito dal successo di questa tornata elettorale.
Ma ancora una data non c’è, anche se non sarà troppo lontana: “Sul tavolo – dicono in via Bellerio – ci sono prima la giunta regionale lombarda e il governo”.
Durante l’incontro è stata anche decisa l’espulsione di Zoraide Chiozzini, militante della provincia di Mantova ed esponente della minoranza che aveva presentato ricorso (poi rigettato) contro l’elezione di Salvini alla segreteria federale: “E’ da statuto – ha precisato il leader – chi ricorre contro la Lega, chi la attacca pubblicamente, si mette fuori da solo. E chi ha fatto campagna contro la Lega, fondando altri partiti e invitando a votare altri partiti, non fara’ piu’ parte della Lega”.
Potrebbero dunque saltare altre teste.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
CONSULTAZIONI LUNGHE PER EVITARE DI RIVOTARE A GIUGNO ….DUE VINCITORI CHE FANNO FINTA DI AVERE DIRITTO A GOVERNARE SENZA AVERE I NUMERI… RIDICOLO CHIEDERE VOTI AGLI ALTRI SENZA APRIRE UN CONFRONTO
Magari non era il giorno giusto per un nuovo “appello” alla responsabilità . Perchè la sorte ha
voluto che le parole del capo dello Stato incrociassero una bombastica intervista di Matteo Renzi e, con essa, una giornata di intenso dibattito tra i partiti che, come noto, il Quirinale è sempre attento a non invadere o condizionare.
E, proprio per scongiurare il rischio di maliziose interpretazioni da parte delle solite iene dattilografe, è stato precisato che le riflessioni di Mattarella sulla “responsabiltà senza egoismi” non vanno messe in relazione al contesto politico, ma restano nell’ambito della cerimonia con i “ragazzi”, i 29 alfieri della Repubblica, premiati per impegno sociale, impegno per l’ambiente, solidarietà .
Però è anche vero che quella parola, “responsabilità ” appunto, torneremo a sentirla più volte.
Ed è chiaro il motivo: anche se è presto per parlare di “preoccupazione” — siamo solo all’inizio di un percorso molto lungo — c’è tutta la consapevolezza della difficoltà nei negoziati per far nascere un governo.
Anzi, proprio questo è il punto: non c’è negoziato, trattativa, iniziativa volta a trovare, o quantomeno a provarci, un compromesso alto e limpido.
Al Quirinale la fotografia appare quella di uno stallo perfetto. C’è una battuta che circola lassù in qualche ufficio, molto indicativa dello stato dell’arte: “Potremmo mettere la segreteria telefonica: oggi come ieri non sta accadendo niente, riprovate nei prossimi giorni”.
La situazione è, oggettivamente, inedita. Per carità , la politica non è quella di una volta, nella quale il capo dello Stato si è formato e delle cui logiche, prassi e consuetudini è portatore.
E gli esuberanti leader di oggi sembra che facciano una grande fatica — e in verità pare che non ne abbiano una gran voglia — a lasciar posare la polvere della campagna elettorale, per favorire un clima in cui si ragiona.
Ma, al fondo, c’è un dato — questo sì — preoccupante, tutto politico, che poco ha a che fare con l’evoluzione del linguaggio e dei costumi.
Ed è la testarda volontà di non fare i conti con la realtà . Vale un po’ per tutti. A partire dai “due vincitori”.
Parliamoci chiaro: se uno ha vinto, governa, nel senso che ha i numeri per governare. E non è questo il caso.
C’è una coalizione arrivata prima, il centrodestra, e un partito arrivato primo, i 5 Stelle. Risultati ottimi, in cui ognuno può vantare e rivendicare un primato, ma non l’autosufficienza per governare.
A un profondo conoscitore della storia della Repubblica come Mattarella sembrerà lunare il paragone con le elezioni del 1976, quelle dei “due vincitori” – formula coniata da Moro — e ancor più lunare l’altro frettoloso paragone con la situazione che allora si determinò col governo della “non sfiducia”.
In parecchi, oggi, lo indicano come esempio da seguire in questo contesto, per avviare la legislatura e favorire la nascita di un governo, come se l’astensione fosse una cambiale in bianco.
E invece se proprio c’è da trarre una lezione da quell’esperienza, consiste proprio nell’opposto. Per far nascere quei governi — i tre monocolore Andreotti – ci fu una trattativa di oltre quattro mesi e un confronto costante per tutta la durata dell’esperienza della solidarietà nazionale, sempre più intenso fino al voto da parte del Pci delle mozioni sulla Nato.
Altri tempi, altri protagonisti.
I due vincitori di oggi si stanno muovendo in modo opposto: chiedono aiuto negandone il bisogno, chiedono voti parlamentari senza aprire un confronto, anzi, se possibile, si sottraggono continuando ad agitare di fronte ai propri elettori i cavalli di battaglia più divisivi della loro campagna elettorale, come Salvini che chiede di votare la flat tax o l’abolizione della Fornero e Di Maio il reddito di cittadinanza.
È come se chiedessero al Pd di appendersi al cappio grillino o a quello leghista. E, a sua volta, il Pd attende, o meglio: una parte del Pd attende proposte serie, sensibile alle preoccupazioni del Colle, un’altra — è il caso di Renzi – coglie l’occasione per sottrarsi tout court rinunciando a indicare un disegno generale di uscita dalla crisi, come se il problema fosse solo degli altri.
Insomma, lo stallo perfetto. Col silenzio dell’incomunicabilità tra le parti e col sottofondo inquietante di un ritorno al voto in tempi rapidi, già evocato da Salvini e già messo in conto da Di Maio.
Perchè tra i due più che la prospettiva di un “patto di governo” sembra esserci, al momento, un gioco di sponda sulla prospettiva di un “non governo”, nel cinico calcolo che il voto “utile” lancerebbe una volata ai due vincitori, l’uno sulle spoglie di Berlusconi, l’altro sulle spoglie del Pd.
Una prospettiva che assomiglia tanto a un azzardo. E chissà se la lunga decantazione che si aspettano al Quirinale sia già un modo per evitare almeno questo. In fondo per chiudere la finestra elettorale di giugno, basta tirare avanti con le consultazioni fino a fine aprile.
A giudicare dall’aria che tira, non è un’ipotesi così remota. Tutt’altro, è anche possibile andare oltre. La soluzione, se mai ci sarà , sarà frutto di lunghe attese, periodi di decantazione, tentativi su tentativi, dove anche i fallimenti sono di aiuto perchè fanno capire che non ci sono alternative a un compromesso serio.
Tempi biblici, per un nuovo governo. Ma che comunque, al di là dell’esito, consentono di scongiurare un ritorno immediato alle urne.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
IL DIRETTORE DEL CEPS CRITICA LA PROPOSTA DI TRIDICO: “NON E’ AUTOFINANZIAMENTO, MA AUTOLESIONISMO”
Un trucchetto puramente contabile che andrebbe incontro a un netto “niet” di Bruxelles.
È il giudizio di Daniel Gros, economista tedesco e direttore del Centre for European Policy Studies (Ceps), sulle coperture proposte da Pasquale Tridico, indicato da Luigi Di Maio come ministro del Lavoro in un governo M5S, per “autofinanziare” il reddito di cittadinanza.
Il docente di diritto del lavoro all’Università Roma Tre, con un post sul blog del Movimento 5 Stelle, ha rilanciato la sua proposta per quello che più propriamente andrebbe chiamato reddito minimo condizionato.
Ridotta all’osso, la strategia di Tridico per finanziare la misura è la seguente: uno dei parametri per calcolare i margini di manovra fiscale di un Paese è il cosiddetto output gap, ovvero la differenza tra il Pil effettivo e quello potenziale, dove potenziale indica il livello massimo di produzione realizzabile in condizione di pieno utilizzo delle risorse produttive e senza avere ricadute inflazionistiche.
Risorse come la forza lavoro, da cui parte il ragionamento dei 5 Stelle: l’accesso al reddito di cittadinanza ha come conditio sine qua non l’iscrizione obbligatoria ai Centri per l’impiego, che porterebbe l’uscita di una massa di persone dalla condizione di “inattività ” a quella di “disoccupati”.
Aumentando la platea dei disoccupati crescerebbe quindi il Pil potenziale e di conseguenza anche il divario con il Pil effettivo (output gap), creando la possibilità per l’Italia di fare maggior deficit.
Oggi il professor Tridico, indicato da Luigi Di Maio come ministro del Lavoro in un ipotetico Governo M5S, ha rilanciato sul blog del Movimento la misura del reddito di cittadinanza. Lei cosa ne pensa di questo strumento?
L’ultimo Paese che dovrebbe prendere in considerazione questo strumento è l’Italia. Il reddito di cittadinanza è un concetto teorico che potrebbe anche funzionare in un Paese, e questa è condizione di partenza essenziale, dove ci sono piena occupazione e un’amministrazione pubblica efficiente. Il problema è sempre come distinguere chi non può lavorare e chi potrebbe farlo e non vuole, preferendo presumibilmente il lavoro nero. Naturalmente dipende anche dall’entità del “reddito” proposto.
Dal punto di vista tecnico, Tridico giustifica la misura perchè si “autofinanzia” grazie a un automatismo sull’output gap.
(Ride) Ma messa così non è un autofinanziamento, è autolesionismo. Ammesso e non concesso l’Unione Europea ti dica “sì, potete spendere di più”, questo non è autofinanziamento. Sarebbe un permesso che l’Ue darebbe all’Italia per indebitarsi di più. È quindi debito addizionale.
Però dal punto di vista tecnico, l’Ue potrebbe accettare un simile ragionamento e dare il suo via libera al maggior deficit che ne deriverebbe?
Guardi, secondo Tridico basterebbe dire a Bruxelles: “Ecco, abbiamo di punto in bianco un milione di disoccupati in più”. Ma per il calcolo dell’output gap c’è tutta una procedura molto tecnica. I Paesi membri sono stati invitati già molto tempo fa a scegliere una procedura per la definizione dell’output gap, anche l’Italia, senza che potesse essere modificata successivamente. L’Italia ha fatto la sua scelta, che adesso forse risulta un po’ sfavorevole per il vostro Paese. Ma di certo non cambierebbe se venissero fuori un milione di disoccupati in più dall’oggi al domani.
Quindi Bruxelles direbbe no?
Esatto, è un trucchetto. Anche perchè c’è un comitato tecnico che dovrebbe fare le sue valutazioni e questo comitato non troverebbe una ragione per cambiare di molto la stima dell’output gap del vostro Paese.
E quale sarebbe l’appiglio di Bruxelles per rifiutare la spesa aggiuntiva necessaria per finanziare la misura?
Direbbe che si tratta di una questione puramente tecnica, c’è un comitato apposito che lo valuta. Questo comitato, che è composto da esperti di tutti gli Stati membri, risconterebbe che in Italia, al di là di questi trucchetti tecnici, non è cambiato niente e quindi non darebbe alcun via libera a fare maggior spesa, ricordando che l’Italia ha dei “paletti” da rispettare.
Nel suo intervento Tridico propone anche la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per “governare” la robotizzazione del mercato del lavoro. È una strada percorribile?
L’Italia ha ridotto ma ancora alcuni problemi sul fronte della competitività del lavoro, non mi sembra una misura giusta. È vero che un orario più flessibile offre molti vantaggi, ma questo è ben diverso dal ridurre le ore lavorate senza toccare i salari, che equivale ad aumentare i salari stessi.
Un’altra misura proposta da Tridico è il salario minimo orario, avanzata anche da altri partiti come il Pd, per combattere la precarietà dei lavoratori esclusi dalla contrattazione collettiva. Lei cosa ne pensa?
Dipende dal livello salariale al quale si vuole portare il salario minimo, a quello tedesco o a quello adeguato alla realtà italiana? Si deve sapere che in Italia la propensione al lavoro nero è già abbastanza alta, e una misura del genere potrebbe avere come effetto che una parte ancora maggiore dell’economia vada verso il nero, ma la tendenza dovrebbe essere opposta.
(da “Huffingtopost”)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
“BASTA STOLTO PREGIUDIZIO CONTRO DI LUI, TRA NOI DUE PIENA CONTINUITA'”
C’è uno “stolto pregiudizio” contro Papa Francesco. 
A sorpresa – e alla vigilia del quinto anniversario del conclave – Benedetto XVI interviene per spezzare le contestazioni delle frange tradizionaliste contro il suo successore.
In una lettera, Joseph Ratzinger liquida l’immagine che descrive Bergoglio come – sono parole del Papa emerito – “un uomo pratico privo di particolare formazione teologica o filosofica, mentre – aggiunge ancora Benedetto – io sarei stato unicamente un teorico della teologia che poco avrebbe capito della vita concreta di un cristiano di oggi”.
Il testo è stato letto dal prefetto della Segreteria per la Comunicazione Dario Viganò in occasione della presentazione della collana ‘La teologia di Papa Francesco’.
Proprio riferendosi a questi testi, Benedetto XVI rileva che “mostrano a ragione che Papa Francesco è un uomo di profonda formazione filosofica e teologica e aiutano perciò a vedere la continuità interiore tra i due pontificati, pur con tutte le differenze di stile e di temperamento”.
Il Papa emerito ringrazia di aver ricevuto in dono gli undici libri scritti da altrettanti teologi di fama internazionale che compongono la collana curata da don Roberto Repole, presidente dell’Associazione Teologica Italiana. §
Il nuovo responsabile editoriale della Libreria Editrice Vaticana, fra Giulio Cesareo, ha precisato che sono in corso trattative con editori di tutto il mondo e finora la collana è pronta a essere distribuita anche in inglese, spagnolo, francese, portoghese, polacco e romeno.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
UNA STUDENTESSA DEL BURKINA FASO REAGISCE DOPO AVER LETTO UN MESSAGGIO NEI BAGNI DELL’UNIVERSITA’ DI VENEZIA DOVE UN INFAME RAZZISTA AVEVA SCRITTO “UCCIDETELI TUTTI”
“Voglio parlarti, capire perchè tu mi voglia uccidere, visto che sono negra. Sono impaurita, non perchè io abbia paura di essere uccisa, ma mi spaventano le ragioni per cui verrei uccisa. Come puoi pensare di uccidere qualcuno solo per il colore della sua pelle?”.
Leaticia Ouedraogo, 20 anni, originaria del Burkina Faso, è una studentessa di lingue al Collegio internazionale di Ca’ Foscari, e questo è uno dei passaggi più intensi della lettera che ha idealmente spedito al “mio coetaneo razzista e fascista”.
L’ha pubblicata pochi giorni fa nel blog studentesco Linea 20 dopo che nel bagno dei maschi della biblioteca universitaria alle Zattere, dove lavora, è apparsa una scritta che inneggiava al duce e a Luca Traini, l’uomo che a Macerata ha sparato a caso contro persone di colore: “Uccidiamoli tutti ‘sti negri”, con il simbolo della svastica.
“Mi sono immaginata un ragazzo della mia età chiedermi la tessera per la biblioteca, e poi andare in bagno a scrivere quelle frasi, e mi sono chiesta: perchè?”.
È una lettera che inizia con un dialogo tra lei e il fratellino di 8 anni, apostrofato come negher da due compagni di classe. “Doveva essere un insulto. Magari credono di essere migliori di te perchè loro sono bianchi. Ma tu non ci devi credere, perchè non è vero. La prossima volta che te lo dicono, tu rispondi che sei fiero di essere negro. Capito?”, scrive la studentessa, rivolgendosi al fratellino.
Arrivata in Italia a 11 anni, a Bergamo insieme alla madre per raggiungere il padre, in prima media Leaticia ha dovuto rispondere alle prime strane domande dei suoi compagni. “Ma sei arrivata con il barcone?”. Oppure: “Ma tu sei una bambina in regola?”.
Negli anni del liceo, mentre aspettava l’autobus per tornare a casa, è capitato che le si avvicinassero uomini tre volte più grandi di lei per offrirle un passaggio. Sfregando il pollice e l’indice. “Mi scambiavano per una prostituta. Allora io rispondevo a voce alta, tutti sentivano e loro si vergognavano da matti”
La sua arma per difendersi dal razzismo, racconta la ragazza, che da due anni vive a Venezia, è sempre stata l’ironia.
“In qualche modo mi ha reso immune al razzismo”. Almeno lo credeva. La scritta trovata nel bagno della Biblioteca, vergata a pennarello in un luogo di cultura da qualche suo coetaneo, è stata come uno schiaffo: “Uccidiamoli tutti”.
La lettera di Leaticia è la risposta di una ventenne all’odio. “L’ho scritta di getto, non pensavo che potesse avere questa attenzione”, spiega dopo che il suo intervento è stato condiviso da migliaia di lettori, soprattutto studenti.
Una lettera scritta pensando a quel che è successo a Macerata, pensando a suo fratello. “A otto anni, come si rielabora il razzismo? E io, da sorella maggiore, come lo semplifico il razzismo per un bambino ingenuo?”, si interroga.
Non le fanno paura le persone, i mostri che le abitano sì. Finiti gli studi a Venezia Leaticia ha un sogno, al quale si sta applicando con sacrificio: lavorare nelle relazioni internazionali, costruire un progetto che possa aiutare i ragazzi di origine africana a realizzarsi, come sta facendo lei.
La sua lettera si chiude con queste parole: “Non devi uccidere me, devi uccidere quel mostro oscuro che si nutre delle tue paure e della tua ignoranza, ma anche della tua ingenuità . Ti auguro sinceramente di sconfiggere questi mostri”.
Chissà se il suo coetaneo razzista avrà avuto il coraggio di leggerla tutta fino alla fine.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
SCOPPIA LA POLEMICA SUI SOCIAL; “CERTO, TUTTI COME SCHETTINO”… E PARTE LA DENUNCIA PER UNA CAMPAGNA “SPUDORATA E DISCRIMINATORIA”
“Naviga Italiano”, ma lo slogan pubblicitario di Tirrenia e Moby stavolta balla sull’onda delle
polemiche, soprattutto sui social network.
La campagna, firmata dalla prestigiosa agenzia Armando Testa, pubblicizza le compagnie di navigazione della Onorato Armatori ed è stata rilanciata in questi giorni su alcuni quotidiani e nei canali sociali. Il fatto che punti tutto sulla “italianità ” dell’azienda e dei suoi dipendenti, però, a pochi giorni dall’esito di un voto che ha premiato certi sentimenti ‘nazionalisti’ ha scatenato moltissimi commenti negativi sul web.
Tra i primi a scandalizzarsi è stato Marco Faccio, tra l’altro ex dipendente dell’agenzia Testa che oggi lavora altrove: “In quanto pubblicitario, mi sarei rifiutato di dare questo messaggio” e aggiunge l’hashtag #piuttostoanuoto. Su Twitter più lapidaria è stata la scrittrice Michela Murgia: “La spudorata e discriminatoria campagna pubblicitaria di @TirreniaIT. Gli altri aggettivi trovateli voi”.
Seguono decine di commenti e annunci di boicottaggio: c’è chi dice “Piuttosto vado a nuoto”, ma anche “Quest’estate Corsica Ferries”.
La battuta più gettonata resta invece “Italiani come Schettino”, rimandando al comandante della Costa Concordia che naufragò all’Isola del Giglio. Inutile commentare nelle pagine Facebook di Moby e Tirrenia: qualsiasi appunto critico viene immediatamente cancellato
La difesa del “made in Italy”, dunque, viene bocciata da molti quando passa attraverso discriminazioni ‘etniche’ nella scelta del personale.
L’accusa principale mossa alla campagna pubblicitaria è infatti il farsi vanto di avere solo il 6% di lavoratori stranieri: “Onorato Armatori – è scritto infatti in una nota del gruppo – ha circa 4.750 lavoratori, dei quali meno del 6% è straniero. Ed è proprio questo il messaggio che si vuole lanciare: navigare con il Gruppo Onorato Armatori vuol dire anche difendere il lavoro e la dignità dei nostri connazionali, perchè una nave che batte bandiera italiana deve avere marittimi italiani, e non tanti extracomunitari sfruttati e con stipendi da fame”.
Il messaggio sembra anche insinuare che in altre compagnie sia pratica corrente assumere e sottopagare lavoratori stranieri, ma sul web non manca chi fa notare che anche gli stranieri possono essere qualificati e ben pagati, mentre molti cittadini sardi postano lo slogan “Naviga napoletano”, ironizzando sulla provenienza regionale della stragrande maggioranza dei dipendenti di Tirrenia e Moby.
Per l’armatore Vincenzo Onorato, peraltro, non è una novità la difesa dei marittimi italiani. Anni fa si fece ardente sostenitore del cosiddetto emendamento Cociancich (dal deputato Pd primo fimatario) che limitava l’attribuzione di benefici fiscali agli armatori italiani che impiegavano quasi esclusivamente marittimi italiani.
Approvato da Camera e Senato nel 2016 l’emendamento è stato poi bloccato dal dicastero Del Rio, ed è tornato alla ribalta poco prima delle elezioni.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
JEAN MARIE CONTRO LA FIGLIA: “FARA’ LA FINE DI FINI IN ITALIA”
Il nome Rassemblement national, con il quale Marine Le Pen vuole ribattezzare il Front National, è già un pasticcio a poche ore dall’annuncio, domenica a conclusione del congresso di Lille.
“Un nome nazionale, un grido di raduno” aveva detto dal palco la leader. Ma il nome nuovo era già stato utilizzato fra il 1986 e il 1988 come appellativo del gruppo parlamentare del Front all’Assemblea nazionale.
Ma non solo: il Rassemblement national populaire era il partito del collaborazionista Marcel Deat durante la Seconda guerra mondiale.
Inoltre, Rassemblement national è un nome già depositato all’Istituto nazionale della proprietà industriale (INPI) dal dicembre 2013 da parte di Frederick Bigrat, segretario generale del movimento sovranista Rassemblement pour la France.
Lo stesso Bigrat ha depositato all’INPI il logo del Rassemblement pour la Republique (RPR), il partito di Jacques Chirac sciolto nel 2002 e del quale nessuno aveva pensato a depositare il nome in precedenza.
Il consigliere della Le Pen, Phlippe Olivier, spiega al settimanale L’Obs che il Front ha acquistato regolarmente la denominazione Rassemblement national.
Protesta, infine, in questo inizio caotico per il neonato RN (sottoposto peraltro al voto degli iscritti), Igon Kurek, collaboratore dell’ex ministro Charles Pasqua, presidente del Rassemblement pour la France: “RN esiste già – fa sapere – sono molto stupito dal dilettantismo di Marine Le Pen e del FN… il RN esiste e si presenterà alle elezioni amministrative nel 2020”.
Il Front National ha replicato di voler portare in tribunale chiunque utilizzi il marchio Rassemblement national per “uso fraudolento” del nome, regolarmente acquisito.
Intanto per Marine Le Pen, arriva l’ennesimo attacco da parte dell’anziano padre, Jean Marie. “Sa, qualcuno in Italia ha avuto l’approccio della signora Le Pen e si chiamava Fini, finito prima al 3 per cento e poi allo 0,3 per cento”, ha dichiarato il cofondatore del partito nato nel 1972, intervenendo su France Inter.
“Trovo disastroso che si abbandoni il nome di Front National”, ha dichiarato Le Pen, paragonando le “battaglie” condotte per anni dal partito all’azione di un “rompighiaccio nell’Artico”. “È più di un nome, è un’anima, è una storia, è un passato”. “Il fatto che non si chiami più Front National è un vero assassinio politico”.
Quanto a Steve Bannon, invitato al congresso del Front National, Jean Marie Le Pen ha osservato: “Ho trovato abbastanza singolare che il movimento nazionale francese faccia il suo congresso sotto l’egida di un leader politico straniero. Lo trovo, anche questa volta, abbastanza pittoresco e abbastanza paradossale”.
(da agenzie)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
“GOVERNO HA BASI SOLIDE”… CAPACITA’ DI TROVARE COMPROMESSI, CONVINTI DI DURARE TUTTA LA LEGISLATURA
Angela Merkel, Horst Seehofer e Olaf Scholz hanno firmato il contratto della Grosse Koalition a
Berlino, dopo sei mesi dalle elezioni del 24 settembre.
Nove persone hanno sottoscritto l’intesa: i tre segretari generali di Cdu Csu e Spd, i tre capigruppo parlamentari e i tre presidenti dei partiti.
“Abbiamo un governo stabile e in grado di agire”, ha affermato Merkel, aggiungendo che “la capacità della democrazia consiste nel fatto di trovare dei compromessi”, per cui è possibile che partiti anche molto diversi trovino un accordo per governare.
“Se prendiamo un tema come il fisco ad esempio, neppure nel mio partito sono tutti della stessa opinione all’inizio. Figurarsi fra partiti diversi. Non è possibile che si sia tutti d’accordo”, ha spiegato.
Merkel sostiene la necessità di “una buona cultura del dibattito”, come presupposto della democrazia.
“Sono contenta innanzitutto per i cittadini, e per il fatto che con l’esito del voto abbiamo fatto quello che ci si aspettava da noi: formare un governo”.
Anche Olaf Scholz si è detto soddisfatto: “Sono certo che arriveremo alla fine della legislatura”, ha risposto, dopo i molti mesi trascorsi nella formazione del governo. “Non è un matrimonio d’amore”, ma nonostante le differenze saremo “in grado di lavorare e governare costruttivamente”.
(da “Huffintonpost”)
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Marzo 12th, 2018 Riccardo Fucile
DENARO DA MOSCA E POTERE SENZA LIMITI: ARRESTI ARBITRARI E SEDI DELLE ONG IN FIAMME… UNO STATO CANAGLIA CHE PIACE AI BOIA SOVRANISTI
Il luogotenente di Putin in Cecenia, Ramzan Kadyrov, ha deciso di sbarazzarsi dei difensori dei diritti umani. Li considera un intralcio al proprio potere incontrastato, e in questo turbolento angolo del Caucaso la sua parola è legge.
Memorial, la principale organizzazione russa per la tutela dei più deboli, è stata costretta a chiudere i battenti, e il suo capo locale, Oyub Titiyev, è finito in galera. «Gli hanno trovato della marijuana in macchina. Con ogni probabilità ce l’hanno messa gli stessi agenti che l’hanno fermato» spiega Oleg Orlov, il responsabile del programma «Punti caldi» dell’Ong, sottolineando che la polizia cecena dipende direttamente da Kadyrov ed è accusata di rapimenti, torture e persino esecuzioni sommarie.
Dopo l’arresto sono partite le azioni intimidatorie. A Nazran, 80 chilometri dalla capitale cecena Grozny, c’è la sede di Memorial che è stata data alle fiamme. «L’incendio è stato sicuramente doloso, abbiamo trovato una bottiglia di benzina e le telecamere di sicurezza mostrano chiaramente che i colpevoli sono due uomini che hanno agito a volto coperto», racconta il direttore di Memorial in Inguscezia, Timur Akiev, indicando il soffitto completamente annerito. Il fuoco ha divorato ogni cosa: documenti, computer, mobili. Adesso si lavora per ricostruire.
Secondo Timur, il rogo è senza dubbio collegato al caso Titiyev. «Il 15 gennaio – ricorda – avvocati e vertici di Memorial sono venuti qui per cercare di aiutare Oyub. Un giorno e mezzo dopo, nella notte tra il 16 e il 17, quei due sconosciuti hanno incendiato tutto. Sono arrivati su una Lada Priora senza targa: hanno tirato fuori una scala, sono saliti al primo piano, hanno rotto il vetro della finestra e hanno iniziato lo scempio».
Ma le minacce non sono finite. Passano pochi giorni e in Daghestan viene incendiata anche la macchina di uno degli avvocati che seguono la vicenda. Poi gli attivisti di Memorial ricevono un sms minatorio: «State camminando sull’orlo del baratro. La prossima volta vi bruceremo con il vostro ufficio».
Oyub Titiyev, il capo di Memorial in Cecenia, è stato arrestato la mattina del 9 gennaio. «Stava andando al lavoro quando l’hanno fermato tre agenti, e uno di loro evidentemente gli ha messo sull’auto un pacchetto con oltre 200 grammi di marijuana», dice Oleg Orlov. Ora Titiyev è accusato di traffico di stupefacenti. «Lo hanno portato in una stazione di polizia, e lì – spiega sempre Orlov – gli hanno intimato di confessare che trasportava droga sulla sua auto e di metterlo nero su bianco. Gli hanno detto che, se non avesse fatto come gli ordinavano, avrebbero sbattuto al fresco suo figlio accusandolo di essere un terrorista».
Titiyev però non cede e contesta l’arresto e il sequestro della marijuana: sono avvenuti senza testimoni, quindi violando la legge.
«In Russia – rimarca Orlov – è molto facile falsificare le inchieste penali, ma in Cecenia basta uno schiocco di dita. E così gli agenti hanno rimesso Oyub al volante della sua auto, ma con uno di loro seduto accanto. Lui ha messo in moto e in men che non si dica è stato fermato di nuovo da un’altra pattuglia. E di nuovo gli hanno trovato la marijuana in macchina. Questa volta però con dei testimoni già belli e pronti».
Il ricatto
La polizia per sei ore ha negato ai legali di Memorial di aver arrestato Titiyev. E in quel lasso di tempo degli agenti sono andati a casa dell’attivista a cercare i suoi familiari per ricattarlo. Ma quelli avevano già fatto in tempo a fuggire dalla Cecenia.
La ciliegina sulla torta arriva il 19 gennaio, quando la sede di Memorial a Grozny viene perquisita e gli agenti trovano sulla terrazza due spinelli intatti e una lattina tagliata a mo’ di posacenere. «A quanto pare siamo una banda di spacciatori, e siamo così furbi che teniamo la droga in ufficio dopo che uno dei nostri è stato arrestato per narcotraffico», dice tra rabbia e sarcasmo Orlov, pronto a giurare che dietro questo ritrovamento ci sia ancora una volta lo zampino della polizia cecena. Un gioco da ragazzi per loro mettere la marijuana su una terrazza a cui si può accedere da tre appartamenti.
Lo Stato vassallo
La Cecenia fa formalmente parte della Federazione Russa. Ma de facto è uno Stato vassallo di Mosca dove l’uomo di Putin, Ramzan Kadyrov, regna come un sovrano assoluto.
Un suo ritratto giganteggia al confine tra Inguscezia e Cecenia, dove la polizia di Grozny controlla coi kalashnikov la strada che da Nazran porta nella capitale cecena. Grozny oggi ricorda solo lontanamente quella che le due guerre tra gli Anni 90 e i primi Anni Duemila avevano reso «la città più devastata della Terra».
Il denaro del Cremlino ha lanciato la ricostruzione, ma è stato anche uno strumento di corruzione e pare che parte dei fondi sia finita direttamente nelle tasche di Kadyrov. In centro i grattacieli del complesso residenziale Grozny City hanno sostituito gli edifici sventrati dalle bombe.
Per strada una vecchietta col capo coperto dal velo – come tutte le donne qua – vende magneti ai pochi turisti: molti raffigurano Ramzan Kadyrov in mimetica.
Qualche centinaio di metri più in là , attraversando un ponte sul fiume Sunzha, ci si trova davanti al Cuore della Cecenia: la moschea più grande d’Europa con i suoi quattro minareti alti 62 metri.
Il tempio si ispira alla Moschea Blu di Istanbul ed è dedicato al padre di Ramzan Kadyrov, Akhmad, un ex separatista poi passato dalla parte dei russi e diventato leader della Cecenia. Fu ucciso nel 2004 in un attentato. Adesso il suo volto fa capolino a ogni angolo, come quelli del figlio Ramzan e di Vladimir Putin. Il centro di Grozny è tappezzato dei loro ritratti, e il culto della personalità riservato a questo trio stupisce subito un osservatore occidentale.
Le strade dei leader
Ad Akhmad Kadyrov è intitolata una delle due vie principali della città . L’altra porta invece il nome di Putin. Ma all’ex presidente ceceno è dedicato persino un museo. Si sviluppa su due piani e tra colonne di marmo e stucchi dorati presenta Kadyrov senior come padre della patria, devoto musulmano e uomo di pace. Praticamente cancellati invece gli anni da separatista. Mentre ampio spazio è destinato al rapporto col figlio Ramzan per legittimarne il potere da signore feudale.
Il leader ceceno difende poligamia e delitti d’onore, ignorando nel suo Califfato le leggi di uno Stato laico come la Russia. E soprattutto conta su migliaia di pretoriani pronti ad arrestare, torturare e uccidere. Come avvenuto nella caccia alle streghe contro gli omosessuali lo scorso anno.
Se Kadyrov non esita a minacciare di morte i suoi avversari, i suoi scagnozzi – i kadyrovtsy – ammazzano anche fuori dalla Cecenia. Molti dei condannati per l’omicidio dell’oppositore Boris Nemtsov – freddato a colpi di pistola a due passi dal Cremlino – erano militari della guardia di Kadyrov. E anche per l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaya tutti gli elementi portano in Cecenia.
(da “La Stampa”)
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