Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
SI VA VERSO UN PROLUNGAMENTO PER DUE SETTIMANE, POI UNA GRADUALE RIAPERTURA… NESSUNO HA IL CORAGGIO DI DIRE CHE IL 66,6% DELLE AZIENDE E’ ANCORA APERTO E 15 MILIONI DI LAVORATORI CONTINUANO TRANQUILLAMENTE A ESSERE SIA A RISCHIO CHE UN RISCHIO PER GLI ALTRI E CHE GLI SCIENZIATI ERANO PER UNA VERA CHIUSURA, NON LA FARSA CHE E’ DIVENTATA
Dopo aver ascoltato il parere del comitato tecnico scientifico, Giuseppe Conte prorogherà , probabilmente per due settimane, le misure anti contagio che scadono il 3 aprile. Resteranno.
Un blocco parziale fino a dopo Pasqua, a partire dalle scuole e dalle competizioni sportive, con un’attenzione particolare non solo alla Pasquetta, ma anche ai ponti del 25 aprile e del primo maggio, perchè la voglia di picnic o gite al mare non rischi di mandare all’aria settimane di sacrifici.
Quando si riaprirà , si ripartirà con gradualità e proporzionalità . Non subito nè tutto d’un colpo, perchè le prossime settimane sono fondamentali.
Per vedere davvero gli effetti delle misure restrittive si dovrà attendere ancora, spiegano gli esperti, ma la fase più delicata arriva probabilmente proprio adesso, perchè alla grande attenzione delle prime settimane negli italiani rischiano di subentrare preoccupazione, paure, rabbia.
Nuove valutazioni saranno fatte sulle attività produttive, per il durissimo contraccolpo economico che il protrarsi del blocco provoca: dopo lo stop alle attività non essenziali, nelle prossime settimana potrebbero arrivare le prime deroghe, preludio a un allentamento graduale della morsa. Nel Governo c’è chi, come Italia Viva, già chiede di ripartire.
Per la popolazione l’ipotesi dopo metà aprile è che si possano tutelare gli anziani, tenendoli in casa, consentendo ai più giovani di iniziare a muoversi. Probabile invece che gli ultimi a riaprire siano i luoghi di svago e aggregazione, a partire da discoteche e sale giochi, cinema e ristoranti.
Per completare la decisione e annunciare la nuova proroga della serrata, Conte dovrebbe nuovamente incontrare le opposizioni e sentire gli scienziati.
La linea degli esperti è chiara: non è il caso di riaprire adesso, neanche parzialmente, dice Franco Locatelli del Css all’Huffpost. I primi segnali positivi devono indurci “ad essere più stretti” nel rispetto delle misure, dice il professor Luca Richeldi, pneumologo del comitato tecnico scientifico (Cts). “La battaglia è molto lunga, non dobbiamo abbassare la guardia”.
E’ “inevitabile” che le misure in scadenza siano prolungate oltre il 3 aprile, dice il ministro Francesco Boccia, definendo irresponsabile la richiesta di Matteo Renzi di riaprire scuole e fabbriche.
Il titolare della Salute Roberto Speranza avverte che l’epidemia è “ancora nel pieno e sarebbe un grave errore abbassare la guardia proprio ora”.
Abbassare la guardia non si può, sono convinti anche a Palazzo Chigi.
(da “Huffingtonpost)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
I COMUNI DOVRANNO DECIDERE A CHI DARLI E FINIRANNO NEL MIRINO DELLE CRITICHE… E’ VERO, I SOLDI SONO POCHI, MA NULLA VIETA ALLE REGIONI LEGHISTE CHE PROTESTANO DI CACCIARE CENTO MILIONI A TESTA COME HA FATTO LA SICILIA
E adesso, proprio sui cosiddetti “buoni spesa” un fronte si apre anche con i sindaci. C’è chi, come il presidente dell’Anci Veneto parla di “elemosina”. Chi, come quelli del Pd, difende la misura. Chi, come il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, di sinistra ma non organico, parla di “rischio boomerang”.
Al fondo, accomunati da una preoccupazione: i soldi stanziati (i famosi 400 milioni) sono pochi e il governo non ha stabilito criteri di distribuzione, dunque tocca a loro.
Al momento con ampi margini di discrezionalità .
Più di un primo cittadino, contattato dall’HuffPost, dice le stesse parole: “Sapete che significa? Che domani mattina siamo noi che ci troviamo la fila davanti al Comune. E quindi poi se la prenderanno con noi”.
Poveri che già c’erano, nuovi poveri, poveri da Coronavirus, tracciabili, ma anche non tracciabili, come chi si arrangia con i famosi lavoretti (in nero): “Come diavolo fai a stabilire a chi dare le poche risorse?”.
La fa facile il governo, che si è basato sulle tabelle della povertà del 2011. Nel frattempo si sono allungate. Fin qui, la storia del bonus.
Poi i 4,3 miliardi. Lo spiega Leoluca Orlando a In Mezz’ora in più: “Non sono soldi stanziati per l’emergenza, ma rappresentano solo un’anticipazione dei trasferimenti statali ordinari, già spettanti ai Comuni, che li percepiscono nel primo semestre di ogni anno”.
Tradotto vuol dire che già era previsto che questa somma andasse ai Comuni, per pagare a fine mese stipendi e servizi. Solo che è stata anticipata. E, a questo punto, si pone un problema. A fine mese, dove si trovano gli altri soldi, se questo anticipo viene destinato ai bisogni primari delle persone rimaste senza lavoro a causa del Coronavirus.
Che tradotto significa, far mangiare le famiglie, soprattutto al Sud dove si sono viste persone nei supermercati che avrebbero voluto il cibo gratis.
Per questo, soprattutto dal Sud, è un coro. Jole Santelli in Calabria, ad esempio, parla “di annuncio roboante che rischia di generare aspettative dei cittadini nei confronti degli amministratori locali”.
Si capisce, dunque, perchè si è “politicizzato” lo scontro. “Elemosina”, “presa in giro”, “carognata” dicono i sindaci del centrodestra. Decaro difende il provvedimento, De Magistris dice “bene, ma serve un reddito di quarantena”.
È la fotografia di un ulteriore capitolo di un disordine istituzionale, che accompagna questa crisi sin dall’inizio.
Prima il conflitto con le Regioni sulle misure di sicurezza, ora con i Comuni sul bonus, anzi sull’annuncio del bonus nella consueta conferenza stampa per dare i titoli ai giornali. La bozza, infatti, è cambiata più volte nella giornata di oggi, secondo la prassi che vengono presentati provvedimenti che sono dei work in progress.
Per intendersi, la bozza circolata ieri sera prevedeva 300 euro una tantum alle famiglie che avrebbero avuto diritto ai buoni pasto per un totale di 150mila euro per i Comuni sopra i 150 mila abitanti. In pratica una città come Roma avrebbe potuto sfamare 500 famiglie.
La bozza attuale è radicalmente cambiata e con sè il metodo di suddivisione. L’80% dei 400 milioni, quindi 320 mln, è ripartito in proporzione alla popolazione residente in ciascun comune, i restanti 80 milioni in base alla distanza tra il valore del reddito pro capite di ciascun comune e il valore medio nazionale. Ora non si parla più di 300 euro una tantum per famiglia.
Torniamo al punto dolente. I criteri, per evitare che la scelta sia solo sulle spalle dei sindaci.
Nel pomeriggio ci prova il capo della Protezione civile Angelo Borrelli a fornire qualche spiegazione in più: “La gestione dei buoni spesa sarà a cura dei servizi sociali e i Comuni potranno avvalersi degli enti del terzo settore e di unità di protezione civile per l’acquisto delle derrate. L’ordinanza sarà immediatamente operativa”.
Rimane molta discrezionalità . Stando così le cose, i Comuni potranno o acquistare i buoni spesa o provvedere all’acquisto del cibo da distribuire alla popolazione. Ma la responsabilità ricade tutta sui sindaci che dovranno decidere a chi dare il contributo.
I soldi ai vari Comuni vengono dati soprattutto sulla base del numero di abitanti e non sul reddito, soprattutto perchè le tabelle non sono aggiornate. È chiaro perchè tutti temono una guerra tra poveri.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
LA LEZIONE DI TIRANA: “SONO 30 ANNI CHE CI AIUTATE, E’ IL MINIMO ESSERE QUI”… “CI AVETE ACCOLTO E ADOTTATI, COMBATTEREMO INSIEME”
All’inizio degli anni ’90, con il collasso del regime comunista, l’Italia scoprì di essere diventata la terra promessa degli albanesi.
Di quel periodo l’immagine simbolo — in una storia piena di pagine buie — diventò lo barco a Bari di circa 20mila profughi albanesi dal bastimento Vlora, preso d’assalto dai migranti nel porto di Durazzo e dirottato verso l’Italia.
Era l’8 agosto del 1991, molti di quei profughi furono rispediti in Albania, molti altri furono rinchiusi nello Stadio della Vittoria, dove rimasero per 8 giorni in quello che si trasformò in un vero e proprio inferno.
Eppure quel momento così drammatico fu seguito da un’altra storia, una storia lunga trent’anni e fatta anche di sostegno e integrazione.
Un passato in nome del quale oggi è l’Albania a tendere la mano all’Italia, messa in ginocchio dall’epidemia di Covid-19.
“Sono 30 anni che ci aiutate e supportate: è il minimo che potevamo fare per questa nazione”. A parlare così è un infermiere di Pronto soccorso di 35 anni di Tirana, che fa parte della delegazione di 30 persone tra medici e infermieri arrivati a Brescia, dove prenderanno servizio nel principale ospedale della città per l’emergenza Coronavirus. “Sono consapevole di quanto sta accadendo negli ospedali bresciani, ma non mi spavento”, ha detto l’infermiere all’Ansa. “Da quando ho sentito che i numeri dei contagiati continuavano a crescere in Italia mi sono informata in ogni modo per poter aiutare il vostro Paese e ho risposto all’appello”, ha raccontato una dottoressa albanese. “Mia madre nel 2011 è stata operata a Pisa. Quei medici l’hanno salvata e ora io voglio restituire quanto è stato fatto”.
Un’altra infermiera ha aggiunto: “Per noi è una possibilità importante e sono sicura che vinceremo questa battaglia. Mio papà che è medico è stato contagiato da Covid 19 e io voglio aiutare i bresciani”.
Il volo con i 30 sanitari albanesi è atterrato questa mattina all’aeroporto Valerio Catullo di Verona, riaperto in via straordinaria per l’occasione, dopo essere arrivato ieri sera a Fiumicino. I medici e gli infermieri albanesi presteranno servizio negli ospedali di Brescia e Bergamo, nelle zone più colpite dalla pandemia.
“Non siamo privi di memoria: non possiamo non dimostrare all’Italia che l’Albania e gli albanesi non abbandonano mai un proprio amico in difficoltà . Oggi siamo tutti italiani, e l’Italia deve vincere e vincerà questa guerra anche per noi, per l’Europa e il mondo intero”, ha detto ieri il premier albanese Edi Rama, salutando all’aeroporto di Tirana il team di medici e infermieri. “Voi membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra”, ha aggiunto rivolgendosi al team sanitario.
E ancora: i nostri medici “non sono molti e non risolveranno la battaglia tra il nemico invisibile e i camici bianchi che stanno lottano dall’altra parte del mare. Ma l’Italia è casa nostra da quando i nostri fratelli e sorelle ci hanno salvato nel passato, ospitandoci e adottandoci mentre qui si soffriva”, ha aggiunto Rama nel breve saluto cui era presente anche l’ambasciatore d’Italia in Albania, Fabrizio Bucci.
“Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile. Le risorse umane e logistiche non sono illimitate, ma non possiamo tenerle di riserva mentre in Italia c’è ora un enorme bisogno di aiuto”.
“E’ vero che tutti sono rinchiusi nelle loro frontiere, e paesi ricchissimi hanno voltato le spalle agli altri. Ma forse è perchè noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non possiamo permetterci di non dimostrare all’Italia che l’Albania e gli albanesi non l’abbandonano”, ha concluso.
Quello di oggi è un nuovo capitolo di una storia iniziata più di trent’anni fa, ma tenuta in vita nei piccoli gesti quotidiani.
Gesti come quello di tre piccoli paesi del Molise, che lo scorso anno hanno inviato fondi alla comunità di Kruja, paese albanese gemellato con Portocannone. “C’è orgoglio nel vedere questo scambio di solidarietà . Abbiamo dato una mano durante il terremoto in Albania e ora sono loro a venire in nostro aiuto. Come comunità arbereshe del Basso Molise, poco prima che scoppiasse l’emergenza coronavirus, abbiamo inviato 3 mila euro alla comunità di Kruja, paese albanese gemellato con Portocannone, centro di origine dell’eroe Skanderberg, con cui siamo in contatto”, ha raccontato all’Ansa il sindaco di Portocannone Giuseppe Caporicci che, insieme ai primi cittadini Raffaele Primiani di Ururi (Campobasso) e Giorgio Manes di Monteciflone (Campobasso), hanno promosso una raccolta fondi tra le comunità a minoranza linguistica albanese. “Non è stato facile – ha proseguito Caporicci – ma l’abbiamo fatto. Nel nostro piccolo abbiamo dato una mano ai nostri connazionali. Lo scorso novembre sono stato in Albania e sono stato accolto nel migliore dei modi dalla comunità e dal Presidente della Repubblica Ilir Meta. Sono momenti belli, ricordi unici di vita”.
Primiani, amministratore di Ururi, ricorda come negli anni ’90 la comunità locale accolse molti albanesi fuggiti dal Paese dominato dalla dittatura. “Allora li abbiamo aiutati – spiega all’Ansa il sindaco del paese – Qui hanno trovato lavoro e un futuro. Ci sono famiglie che sono ancora qui a Ururi e anche a Campomarino. Siamo di origine arbereshe, siamo legati, parliamo l’antica lingua albanese del 1450. Mi auguro che dopo questa emergenza riuscirò a realizzare un murales dedicato all’eroe Skanderberg”.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
PER CINQUE GIORNI LA CITTA’ APRI’ CASE, NEGOZI E SCUOLE, OFFRENDO UN LETTO E UN PASTO CALDO
Nel marzo di ventinove anni fa ne arrivarono 25mila in una sola città , Brindisi, nel giro di 24 ore.
Sotto la canicola di agosto, correva sempre il 1991, furono 20mila a sbarcare nel porto di Bari a bordo della Vlora, ribattezzata la ‘nave dolce’ perchè commercialmente addetta al trasporto di zucchero.
A conti fatti furono centinaia di migliaia a giungere in Italia nel giro di pochi mesi. E gli sbarchi proseguirono anche negli anni successivi.
In quell’esodo — e nell’accoglienza che gli italiani riservarono soprattutto nel primo periodo — affondano le radici le parole del primo ministro albanese Edi Rama pronunciate alla partenza di 30 medici spediti da Tirana negli ospedali italiani per aiutare nella lotta al coronavirus.
C’è una data spartiacque in questa storia. È il 7 marzo 1991, un giovedì. Le navi Lirja, Tirana, Legend e poi via via altre decine di “carrette del mare”, pescherecci e a volte vere e proprie zattere di fortuna si affacciano le porto di Brindisi con a bordo migliaia di albanesi in fuga, stremati da decenni di regime comunista guidato da Enver Hoxha e Ramiz Alia.
Dopo ventiquattr’ore sulle banchine della piccola città adriatica, la più vicina alle coste di Valona e Durazzo, se ne conteranno 25mila. Venticinquemila.
Il giovane sindaco della città , Giuseppe Marchionna, di fronte al rischio di fughe e scontri fa diramare un messaggio in radio e nelle tv locali: “Hanno solo fame e freddo, aiutateli”. La gente capì aprendo le porte le proprie case per fornire un pasto caldo, offrendo un letto e una doccia.
Il prefetto Antonio Barrel requisì le scuole, trasformate in dormitori, e il sindaco chiese alle mense aziendali di fornire migliaia di pasti al giorno.
La città fece da se, stravolgendo la propria quotidianità per settimane pur di accogliere quelle migliaia di albanesi: ogni condominio organizzava tavolate, metteva a disposizione una stanza libera.
Le istituzioni romane si palesarono solo cinque giorni dopo: “Nelle emergenze questo Stato è vecchio, lento e asmatico”, disse il vice presidente del Consiglio Claudio Martelli al suo arrivo a Brindisi.
Gli sbarchi proseguirono nei mesi successivi e l’8 agosto toccò a Bari vivere un’altra giornata di “piena”. In 20mila assaltarono la nave Vlora e sbarcarono sulla banchina 14 del porto. Fu il più grande sbarco di migranti in Italia su una singola imbarcazione.
La gestione non fu proprio la stessa dei mesi precedenti: in tanti vennero rinchiusi nello stadio della Vittoria, molti altri fuggirono. Ma la reazione di tantissimi baresi però fu la stessa dei brindisini nei mesi precedenti.
A 29 anni di distanza è questa la “memoria” di cui parla Rama, la radice più profonda di quel “ospitandoci e adottandoci”.
L’Albania non ha dimenticato.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
GIORNALISTA, PITTORE, EX CESTISTA: CHI E’ IL PREMIER CHE DA SINDACO HA RIVOLTATO TIRANA FACENDO DI UNA GRIGIA EX CAPITALE DI REGIME UNA COLORATISSIMA CITTA’
Ero piccolissimo, e sulla banchina del porto di Palermo vidi tante lacrime come mai ne avrei più viste. Allora mi sembrarono esagerate, c’era chi partiva e io li invidiavo. Non capivo tante lacrime e quei fazzoletti a sventolare sulla banchina e sulla nave anche quando la nave era già irraggiungibile all’orizzonte. Più tardi avrei elaborato e capito.
Si era sposata una cugina di mia madre e partiva col marito per “Lamerica”.
Chi partiva e chi salutava sapeva che non sarebbe stato facile rivedersi. Forse si, forse mai più.
Tra le tante cose smarrite, la memoria di chi parte per bisogno, ora anche soltanto per quella crescita che dove sei nato ti è negata, è la cosa più preziosa delle cose perdute o sotterrate.
Quei viaggi e i tanti altri che sarebbero venuti dopo, e che anche oggi disegnano i percorsi dell’umanità più sfortunata,sono il comune Dna negato. Tra le cose che dovremo cercare in fondo al cassetto che abbiamo chiuso, gettando in fondo al pozzo la chiave, ci deve essere la memoria. Va recuperata, sanata e coltivata.
Ci pensavo ascoltando con grande emozione e con un groppo alla gola le parole del leader albanese Edi Rama, che in italiano saluta trenta tra medici e infermieri che partono per aiutare i colleghi italiani stremati dalla lotta durissima contro il virus che sta decimando la parte più ricca del nostro Paese.
Poche parole, tutte pesate
Una lezione, quella di Edi Rama che dovrebbe far arrossire i potenti d’Europa, e quelli che in Italia volteggiano come avvoltoi sopra le nostre disgrazie, pensando ancora che all’indomani di questa emergenza potranno pensare di tornare a pretendere il mondo come un orto dietro l’altro, tutti separati l’uno dall’altro da un alto muro e da un micidiale filo spinato, magari elettrificato, per uccidere i più coraggiosi.
I potenti d’Europa e gli eletti di Bruxelles alle massime cariche, quelle che saltano da una gaffe all’altra nel momento meno indicato a dire parole in libertà , dovrebbero arrossire alle parole di questo leader intelligente e generoso di un Paese che da più di dieci anni bussa alla porta dell’Unione Europea.
Edi Roma ha memoria, ben ricorda quell’8 agosto del 1991, quando la nave mercantile Vlora, in un’Italia in vacanza, attraccò al porto di Bari con un carico di 20mila albanesi in fuga dalla povertà , quando l’Albania – ha ricordato oggi Edi Roma – “bruciava di dolori immensi”.
Fu uno shock, seguirono tanti problemi, ma gli anni successivi e quelli a noi più vicini ci hanno raccontato e ci dicono di tante vite ricostruite, di tanti nuovi italiani, e italiani tutti, che sono divenuti parte importante dell’economia, della cultura e della convivenza civile di questa nostro Paese, ora ansimante
L’Albania oggi è un Paese in grande crescita e di grande vivacità culturale, un Paese giovane, all’avanguardia in molti settori, Paese che comincia a diventare importante metà turistica, punto di riferimento anche per l’impresa, per i professionisti e la cultura italiana. Paese fratello come nessun altro. Come dire, ci si può parlare affanciandosi dalle rispettive terrazze.
Edi Rama è un politico intelligente, e con le sue parole sa bene di essere intervenuto nel momento in cui l’Europa mostra anche i suoi limiti di leadership, evidenziando carenza di idee e di coraggio.
Edi Rama, giornalista, pittore, ex cestista – come suggerisce il suo fisico – di idee e coraggio ne ha avute tante, già quando ha rivoltato Tirana, da sindaco, facendo di una grigia ex capitale di regime, una coloratissima città che disegnava il proprio futuro recuperando il tempo perduto col comunismo, sapendo bruciare le tappe.
Nel parlare, nel parlarci, nel salutare i suoi medici e i suoi infermieri, già in tuta di lavoro, pronti a salire sulla scaletta dell’aereo in partenza per Verona, Edi Rama non ha certo pensare di saldare un debito, ma ha sicuramente messo in mora l”Europa tutta, mortificato le capitali più ricche, e quelle egoiste, sazie del ruolo di paradiso fiscale.
Non ci si salva mai da soli, ha ricordato venerdì sera Papa Francesco.
Anche il gigante buono e generoso di Tirana ha voluto ricordarlo, mentre ripiegava e metteva in tasca il foglio sul quale aveva scritto in italiano il suo messaggio il suo messaggio d’amore all’Italia.
(da Globalist)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
“IN QUESTA FASE TUTTE LE PERSONE DEVONO AVERE DIRITTO ALLA SANITA’ PUBBLICA”
Il governo del Portogallo ha deciso di concedere il permesso di soggiorno a tutti gli immigrati che ne hanno già fatto richiesta, almeno fino al primo luglio, per garantirgli di affrontare al meglio l’emergenza coronavirus.
Il governo di Antonio Costa ha approvato la sanatoria per i richiedenti asilo e per tutti gli stranieri senza permesso di soggiorno che abbiano chiesto di accedere ai servizi sanitari.
Secondo quanto riporto da El Paàs in questo modo i migranti potranno cercare un impiego e accedere a tutti i servizi pubblici come la sanità , l’affitto di una casa, o il conto in banca.
Per ottenere il permesso bisognerà solo dimostrare di aver già effettuato una richiesta.
“Le persone non dovrebbero essere private del diritto alla sanità e ai servizi pubblici solo perchè la loro domanda non è stata ancora elaborata”, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Interni, Claudia Veloso.
“In questa emergenza, i diritti dei migranti devono essere garantiti”, ha aggiunto. In questa fase, ha deciso il governo socialista, non ci si può permettere di avere sul proprio territorio persone che sfuggano al monitoraggio sanitario delle autorità .
Il Portogallo, dove oggi è morto un 14enne, la vitima più giovane dell’Unione europea, ha registrato finora 119 morti e 5962 contagi.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
ETA’ MEDIA 78 ANNI… CARDIOPATICI, DIABETICI E IPERTESI TRA LE VITTIME
L’Italia è al momento il primo Paese al mondo per numero di morti
Un primato terrificante, e se da un lato il numero di ricoveri pare stabilizzato, dall’altro lato il numero dei morti ha superato la soglia dei 10 mila.
L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato un report, evidenziando con precisione le caratteristiche di coloro che risultano fra le vittime dell’epidemia. Sono state prese in esame 6801 persone, da Nord a Sud.
Ecco i risultati di questo bilancio tragico. L’età media dei pazienti positivi al coronavirus, poi deceduti a causa del contagio, è 78 anni. E’ comunque fra 70 e 89 anni che si muore di più col virus. Le donne sono 2012 (ovvero il 29,6%): hanno un’età media più alta rispetto agli uomini, 82 anni, rispetto ai 78 dei maschi.
Patologie pre-esistenti
Il report dell’Iss ha analizzato gli esami compiuti su 710 morti con malattie croniche pre-esistenti, ossia diagnosticate prima di contrarre il virus.
Ha messo in luce che — su chi non ce l’ha fatta — il numero medio di patologie riscontrate è di 2,7.
Complessivamente, soltanto 15 persone non ne presentavano alcuna, 151 solamente una, 184 ne avevano 2 e 360 (il 50,7%) presentavano 3 o più malattie. Ipertensione, diabete mellito e cardiopatie sono le malattia pre-esistenti più frequenti.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
LOMBARDIA, CON LA SANITA’ PUBBLICA IN TILT CHI VUOLE OPERARSI E HA I SOLDI SI RIVOLGE AI PRIVATI
“In seguito all’emergenza coronavirus, l’attività privata in Lombardia è stata chiusa, chiedendo anzi di orientare le proprie necessità sul Covid19. Ma è stato lasciato uno spiraglio di ambiguità : così ciascun privato fa quello che vuole. E chi ha un tumore non urgente, in questo momento delicato, se va a Milano, in qualche clinica privata e in barba a tutte le norme, trova qualcuno che lo opera subito. Anche domani. Ma così si favorisce solo chi ha i soldi. Questo non può esistere e io lo denuncio pubblicamente. Tutte le strutture private in questo momento devono essere requisite”.
Parla a TPI il dottor Privato Fenaroli, direttore del reparto di senologia all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo
“In Lombardia c’è il pericolo di sciacallaggio sanitario, in questo momento. C’è il rischio di mercato nero della salute.” A lanciare l’allarme a TPI è il dottor Privato Fenaroli, direttore del reparto di senologia all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
Ci spieghi meglio, dottore.
In seguito all’emergenza Coronavirus, l’attività privata è stata chiusa su indicazione regionale in tutte le strutture pubbliche della Regione Lombardia ed è stata giustamente data indicazione anche a tutte le strutture private di orientare le proprie necessità sul Covid-19, lasciando però una porta aperta. È ovvio che se si lascia uno spiraglio, ognuno fa quello che vuole. Chi ha un tumore non urgente, in questo momento delicato, non può essere operato nè con il sistema sanitario nazionale e nemmeno a pagamento qui a Bergamo, però se va a Milano in qualche clinica e in barba a tutte le norme trova ancora qualcuno che lo opera privatamente. Ma quindi operiamo solo quelli che hanno i soldi
Lei ha notizie di strutture private che stanno operando a pagamento?
Certo, me lo dicono le mie pazienti, che mi chiamano e mi chiedono perchè non possono essere operate a Bergamo, nè pubblicamente nè privatamente, ma se vanno a Milano in certe cliniche, pagando, possono essere operate subito. Anche domani. Questo non può esistere e io lo denuncio pubblicamente. La Regione ha fatto una delibera lunedì scorso, riferita proprio alle strutture private, nella quale ribadisce il blocco dell’attività privata, però aggiunge che sia possibile orientare le capacità , il che vuol dire che se queste strutture sono in grado di operare lo possono fare. Si lascia questa discrezionalità , ma non esiste al mondo. In un periodo di guerra il negozio dell’attività privata deve essere chiuso per tutti.
Le urgenze le fate comunque, vero?
Le vere urgenze in medicina sono due: quando una persona non respira e quando sanguina. Tutto il resto si può aggiustare.
Un tumore in fase avanzata, va asportato.
Certo. Abbiamo ridotto la nostra attività del 70 per cento, quindi in quel 30 per cento residuo rientrano proprio queste urgenze a cui lei fa riferimento. Ma non possiamo permettere che ci siano vie di fuga. Tutte le strutture private in questo momento devono essere requisite, assoggettate a quella che è la regolamentazione del sistema sanitario. Nella delibera regionale viene lasciata ampia discrezionalità alle strutture private e di conseguenza a chi vigila su di loro, quindi all’assessorato alla sanità . Tutti i casi di tumori che vengono operati in questo momento devono rientrare in una precisa fascia di rischio, se non ci rientrano non si operano. Ci sono tumori che devono essere operati entro 30 giorni e se ne deve occupare il servizio sanitario nazionale. Gli altri non si operano, perchè c’è sempre il rischio che ci sia qualcuno che faccia il furbo. E questo non è accettabile, anche per rispetto di chi è in trincea. Io che cosa devo rispondere alle mie pazienti? Noi facciamo sei sedute operatorie alla settimana. Operiamo 10-15 tumori alla settimana.
Questo in tempo normale
Esatto. Noi ora ne operiamo 4-5 alla settimana, le abbiamo divise in fasce, mettendo in piedi cure alternative in attesa dell’intervento, cercando di dare precedenza ai tumori urgenti, da operare entro 30 giorni. In questo momento sul territorio regionale io credo che ci sia la potenzialità di operare tutte queste persone nelle loro città , senza trasferimenti, a condizione però che tutti rispettino le stesse identiche regole. E ci dev’essere qualcuno che le faccia rispettare. Noi siamo nel bel mezzo di Caporetto, ce la stiamo mettendo tutta e ce la faremo, però bisogna che tutti giochino pulito. La sanità lombarda è troppo sbilanciata sul privato, in Veneto ad esempio non è così e il privato fa quello che dice la Regione. Da noi in Lombardia, invece, è vero il contrario: i privati possono fare quello che vogliono e in questa fase di emergenza totale il rischio è che mentre noi medici e operatori sanitari siamo in trincea a combattere una guerra, qualcuno nelle retrovie ne approfitti per farsi gli affari propri. Sulla pelle dei malati.
Lei ha scritto alla Regione, vero?
Ho scritto diverse lettere all’assessore Gallera, senza mai ricevere una risposta. Capisce che per un cittadino e peggio ancora per un povero cittadino che però ha sempre pagato le tasse è intollerabile anche il solo dubbio di poter pensare che a Bergamo, mi conceda la metafora, si muore di fame, però se hai i soldi puoi andare a Milano dove continuano a serviti pasti luculliani, in sfregio alla situazione drammatica locale e alla faccia dell’interesse comunitario. Voglio pensare e mi auguro che questo sia un dubbio infondato, anche se le segnalazioni che mi giungono mi fanno sospettare il contrario.
(da TPI)
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Marzo 29th, 2020 Riccardo Fucile
RIENTREREBBERO NELLA MISURA I LAVORATORI PRECARI, QUELLI IN NERO E CHI HA PERSO UN LAVORO NEGLI ULTIMI MESI
La misura è ancora ben lontana dalla sua precisa definizione. Ma il nome, intanto, c’è già : si chiamerà Reddito di emergenza.
E sarà una sorta di bonus, in parte simile al reddito di cittadinanza, da destinare a tutti quei lavoratori che rischiano di restare senza un introito fisso a causa dell’emergenza Coronavirus.
Si tratta di coloro i quali non riceveranno già l’indennità di 600 euro per autonomi e professionisti prevista dal decreto Cura Italia.
E tra chi potrebbe rientrare ci sono anche i lavoratori in nero e, come spiega Repubblica, stagionali, precari, badanti, baby sitter.
Inoltre, come anticipa il Messaggero, alla misura accederebbe chi non riesce a rientrare per i requisiti nel reddito di cittadinanza. La novità dovrebbe essere introdotta con il decreto di aprile, inserendo il Rem (Reddito di emergenza), simile al reddito di ultima istanza previsto dal decreto Cura Italia, con i 600 euro per i professionisti.
Le strade da percorre per introdurre il Reddito di emergenza potrebbero essere due.
Da una parte il Movimento 5 Stelle spinge affinchè possa essere creata una sezione ad hoc del Reddito di cittadinanza.
Il Pd, invece, vorrebbe che si agganciasse al decreto Cura Italia e ai 600 euro per i professionisti, allargando il bonus anche a chi finora è stato escluso.
L’importo è da decidere, con il M5s che vorrebbe emulare il Reddito di cittadinanza, con 500 euro più 280 per chi paga l’affitto. Al Mef, invece, pensano a un bonus da 600 euro, come vale per le altre categorie.
L’obiettivo è di metterlo a disposizione dei cittadini entro pochi giorni, motivo per cui è probabile che il governo si rivolga all’Inps. Forse per accedere alla misura basterà presentare l’autocertificazione sostenendo di non avere altri mezzi di sussistenza per velocizzare l’iter. Poi i controlli verranno effettuati in un secondo momento.
Si potrebbe pensare anche all’utilizzo della carta del Reddito di cittadinanza, che potrebbe essere utile anche per limitare gli acquisti effettuabili.
Oppure, l’altra ipotesi è quella di mettere i soldi direttamente sul conto corrente del beneficiario, per fare prima. Ma in quel caso il rischio è che qualcuno non abbia un conto su cui accreditare la cifra.
Il Reddito di emergenza andrebbe a tutte quelle persone che avevano un reddito lo scorso anno e lo hanno perso, quindi chi aveva Naspi, una pensione, la cassa integrazione o uno stipendio.
In questo caso, però, rimarrebbe fuori chi lavora in nero, motivo per cui si penserebbe a un’altra soluzione per comprenderlo in qualche modo.
Rispetto al reddito di cittadinanza, inoltre, potrebbero venire meno i requisiti patrimoniali, come le seconde case che portano all’esclusione del beneficio.
Difficile capire quale sia la platea: si parla di 3 milioni di persone, ma secondo Repubblica si potrebbe arrivare addirittura a 10. In quel caso, però, servirebbero sei miliardi di euro. La durata del beneficio potrebbe essere di due mesi, non andando quindi oltre la durata dell’emergenza Coronavirus.
(da agenzie)
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