Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
UNA COSA E’ CERTA: SIA IL GOVERNO CHE LA REGIONE AVEVANO IL POTERE DI CHIUDERE I DUE COMUNI DEL BERGAMASCO… IL GOVERNO NON L’HA FATTO PERCHE’ VOLEVA CHIUDERE TUTTA LA REGIONE, LA REGIONE NON L’HA FATTO PER LE PRESSIONI DEGLI INDUSTRIALI
Diciamolo subito, la richiesta del pm di Bergamo è un atto dovuto: dopo aver ascoltato la versione del governatore della Lombardia Attilio Fontana e quella dell’assessore Giulio Gallera che, in questa occasione, ha dichiarato di avere poteri che non pensava di avere a proposito di lockdown, il magistrati hanno deciso di verificare l’iter seguito tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, quando si decise di non chiudere i due paesi del bergamasco, Alzano e Nembro, nonostante quella zona stesse diventando, già in quelle ore, un Lazzaretto. E di aspettare il 7 marzo, quando il Governo varò il dpcm che trasformava la Lombardia in “zona arancione”.
Il punto è semplice, prevedibile, inevitabile, in un paese in cui c’è una certa vocazione alla “Norimberga” e ogni catastrofe naturale, dal Vajont all’Irpinia all’Abruzzo è stato accompagnato e seguito da una giudiziaria.
A maggior ragione per un dramma non paragonabile, per numero di vittime, ai casi appena citati. Sulla prima pagina della versione online del NY Times, in un articolo veniva stimato che Bergamo è la zona al mondo con il maggior moltiplicatore di morti: un numero 6,3 volte maggiore rispetto alla media dei morti nelle epidemie dell’ultimo secolo. Questo crudo dato spiega tanto l’interrogativo politico, che è lo stesso dei familiari delle vittime, quanto la ricerca di eventuali responsabili penali.
Anticipiamo quel che accadrà , in fondo non ci vuole nè la Sibilla nè la Cassandra: nella giustapposizione dei piani tra responsabilità politica e responsabilità penale, il terreno dell’accertamento della verità accenderà la spettacolarizzazione, il rimpallo di responsabilità , l’istituzione di una commissione di inchiesta in un clima ben diverso rispetto alla Francia, dove la commissione è stata varata con sobrietà tra Governo e opposizione.
Le prime dichiarazioni di Matteo Salvini, a proposito di una “giustizia fatta”, indicano proprio questo, in un paese dove il garantismo vale sempre su di sè e diventa giustizialismo sugli altri.
E allora, con spirito di servizio, limitiamoci a pochi cenni per collocare la questione.
La materia è, evidentemente, una materia “concorrente”. Perchè le Regioni hanno la responsabilità della Salute, e quindi della questione delle epidemie, ma la gestione dell’ordine pubblico spetta allo Stato nazionale.
E infatti fu il governo, a fine febbraio, a istituire le prime zone rosse a Codogno, Vo’ Euganeo, i comuni del lodigiano. Così come in alcune zone dell’Emilia (Parma, Piacenza, Rimini, Reggio, Modena), del Veneto (Venezia, Padova), del Piemonte (Alessandria, Vercelli, Novara).
Successivamente, dopo l’11 marzo, quando il Governo aveva trasformato l’intero territorio nazionale in una “zona arancione”, furono le Regioni, in base all’andamento del contagio, a istituire autonomamente delle zone rosse.
L’inchiesta dunque, con il conseguente rimpallo di responsabilità politiche tra le Regioni, che invocano la responsabilità del Governo e il Governo che sottolinea le responsabilità delle Regioni, accende i riflettori su una questione specifica.
Perchè nei giorni tra il 3 marzo e il 9 marzo nessuno chiuse Alzano e Nembro?
Il 3 marzo è il giorno successivo a quando l’Istituto superiore di sanità aveva stilato una nota in cui proponeva di creare una “zona rossa” per isolare il “cluster” del bergamasco, sentiti anche il governatore Fontana e l’assessore Gallera.
Il 9 è il giorno successivo al Dpcm che trasformava la Lombardia in una zona arancione di 11 milioni di abitanti.
Le Regioni sostengono che, come fatto in precedenza in altre zone, avrebbe potuto decidere il Governo; il premier che, ai sensi di legge, (l’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n.833) avrebbe potuto farlo la Regione.
Fin qui la cornice temporale, normativa e giudiziaria.
Poi c’è la dinamica politica che racconta di una Regione che ha rivendicato più di tutte l’autonomia, ma l’ha meno praticata, anche per effetto della pressione del partito del Pil (in quei dieci chilometri, si dà occupazione a 4000 persone e si fattura quasi un miliardo di euro l’anno).
E di un Governo — ricordate la confusione del famoso weekend con l’assalto ai treni alla stazione di Milano? — concentrato sul faticoso varo di un provvedimento nazionale, nell’ambito del quale gestire l’emergenza lombarda.
L’inchiesta, nell’ambito di una materia in cui sulla carta ci sono responsabilità politiche di entrambi, chiarirà se, nell’ambito delle comunicazioni intercorse tra Stato Centrale e Regioni, sono ravvisabili profili penali che hanno portato al disastro.
Tutto qui, e non è poco.
(da “Huffingtonpost”)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
A BRUXELLES CHIESTI 30 MILIARDI DI PRESTITI SURE PER LA CASSA INTEGRAZIONE
Giuseppe Conte l’aveva promesso ai sindaci appena quindici giorni fa: “Non permetterò che i Comuni vadano in dissesto”.
Una promessa accompagnata da un impegno e cioè un nuovo scostamento di bilancio per far arrivare presto nuovi soldi nelle casse comunali.
Ora quel “prossimamente” indicato dal premier si fa più vicino. I 5 stelle spingono per fine giugno, in linea con i tempi del decreto sulle semplificazioni. Il Pd non indica una data, ma sottolinea l’urgenza di avere più soldi non solo per i Comuni, ma anche per la scuola, il turismo e per gli altri settori colpiti più duramente dal Covid.
Tira aria di una manovrina estiva da 8-10 miliardi. Intanto una richiesta di soldi a Bruxelles è già partita: 30 miliardi di prestiti Sure per prolungare la cassa integrazione fino a fine anno e per avere in cascina risorse da destinare ai lavoratori autonomi.
Il pressing dei partiti di maggioranza per far sì che il Governo chieda quanto prima una nuova autorizzazione al Parlamento per sforare ulteriormente il deficit nasce da una considerazione che appartiene anche a palazzo Chigi e al Tesoro: i decreti messi in campo dall’inizio dell’emergenza ad oggi non riescono a coprire tutti i bisogni.
La crisi morde e l’ultimo intervento, il decreto Rilancio, riesce al massimo a dare rassicurazioni a breve (leggere la cassa integrazione fino al 31 ottobre) o a brevissimo raggio (i bonus per gli autonomi sono previsti fino a maggio).
E poi c’è la disillusione sui soldi che possono arrivare dall’Europa attraverso il Recovery Fund: giungeranno non prima dell’anno prossimo e chissà quanti.
Al momento è lo stesso meccanismo a essere in balìa dei litigi e delle trattative tra gli Stati membri, figurarsi se la crisi aspetta tempi che bene che vada avranno una ricaduta nel 2021. I fondi del Mes, che sono a disposizione, sono ostaggio di una decisione politica interna che non matura e il fondo Sure, quello creato per mitigare i colpi della disoccupazione da Covid, è anch’esso uno strumento da perfezionare.
Intanto, però, servono soldi. Laura Castelli, viceministro all’Economia in quota 5 stelle, rivendica la necessità di fare subito: “Lo dico da mesi, sono risorse indispensabili per andare avanti e serviranno a finanziare, oltre agli enti locali, turismo, artigianato, commercio e, naturalmente, la scuola, così da assicurare la ripartenza dell’anno scolastico a settembre. Sono soldi che servono subito, prima della manovra, per concludere così l’anno 2020”.
I pentastellati vogliono che lo scostamento, pari allo 0,6% del Pil, arrivi sul tavolo del Consiglio dei ministri insieme al decreto sulle semplificazioni, atteso intorno al 25 giugno. Non è solo la viceministra a spingere, ma tutto il partito.
Il capo politico Vito Crimi dice che “il Movimento 5 stelle considera favorevolmente un intervento” di dieci miliardi. E indica anche lui una lista di interventi: scuola, Comuni e piccole e medie imprese.
Ma è anche il Pd, partito a cui appartiene il titolare del Tesoro Roberto Gualtieri, a premere sull’acceleratore. Dice Fabio Melilli, che ha in mano le sorti del decreto Rilancio in Parlamento, essendone relatore: “Credo sia opportuno che il governo rifletta su un ulteriore scostamento del bilancio Fino ad ora sono state date risposte importanti ma dal turismo all’automotive, senza dimenticare il tema del lavoro e degli enti locali, è necessario dare ulteriori risposte”.
Il segnale che arriva dai partiti di maggioranza e da un pezzo del Governo è chiaro: inutile aspettare soldi che arriveranno chissà quando, inutile pensare solo a progettare il piano per avere i soldi del Recovery Fund, bisogna mettere subito altri soldi freschi sul piatto.
Ma per il momento da via XX settembre si invoca prudenza. Quando trapelò la notizia della promessa fatta da Conte ai sindaci, Gualtieri disse che “rispetto ai tempi di stanziamento delle risorse è prematuro prevederlo”, spiegando allo stesso tempo che sono allo studio soluzioni tecniche.
Una fonte del Tesoro di primissimo livello rivela a Huffpost: “Non mi risulta un intervento immediato, ma non lo escludo per il futuro”. Il tema c’è. La grande questione politica esplosa dentro la maggioranza è quando mettere in campo la manovrina. L’aria c’è già .
(da “Huffigntnopost”)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
UN PRIVILEGIO PER POCHI, LA SANATORIA HA GROSSI LIMITI E TROPPI CAVILLI BUROCRATICI
“Le aspettative erano alte, sono stato contattato da tantissimi migranti, ma ho dovuto dire di no alla maggior parte delle richieste perchè mancavano i requisiti. Casi eclatanti anche di persone che lavorano a tempo indeterminato in fabbrica e non hanno potuto fare la domanda per la sanatoria”.
Con l’avvocato immigrazionista Pierluigi Franchitto noi di TPI abbiamo indagato la cosiddetta “sanatoria per i migranti“.
Nei mesi dell’emergenza Covid, la ministra Teresa Bellanova si è fatta portavoce di un dibattito che ha portato all’inserimento nel decreto Rilancio dell’articolo 103, che riguarda l’ “emersione di rapporti di lavoro”.
Secondo la norma, i procedimenti da seguire sono due: istanza di un datore di lavoro che dichiara di voler assumere un cittadino straniero presente sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo o che dichiara la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, in corso di svolgimento, con cittadini italiani o stranieri (comma 1); domanda avanzata dal cittadino straniero con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, che abbia lavorato nei settori presi in considerazione dalla norma e che sia disoccupato (comma 2).
I settori coinvolti sono quello primario (agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse) e quello del lavoro domestico (assistenza alla persona per se stessi o per componenti della propria famiglia, ancorchè non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza e lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare).
Finora sono solo 9.500 le richieste arrivate. Davvero un numero esiguo se si pensa che l’esercito degli invisibili è composto da quasi 600mila presenze.
“Il paese reale è ben altra cosa rispetto a quanto si è voluto pubblicizzare”, spiega Franchitto. “I cavilli burocratici e gli ostacoli a sfavore dei migranti che intendono regolarizzarsi sono enormi poichè la norma ha moltissime storture”.
Per essere approvata, la richiesta di sanatoria costerebbe ai datori di lavoro 500 euro per ogni lavoratore, più i contributi pregressi per il lavoratore in nero e quelli per il rapporto nuovo in essere.
Un contributo forfettario che dovrà essere versato a seguito dell’istanza presentata dal 1° giugno al 15 luglio 2020, per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare.
Oltre al problema dei 500 euro — che i datori di lavoro sono restii a versare — c’è il fatto che possono chiedere la regolarizzazione solo e soltanto coloro che, carte alla mano, abbiano lavorato come bracciante, come colf o come badante. Una platea davvero risicata.
I cavilli burocratici: tutto il potere in mano ai caporali
In primis, la sanatoria è rivolta solo a migranti irregolari che non hanno alcun tipo di contratto. Quindi, o lo straniero deve avere un rapporto in nero o deve fare un contratto ex novo con qualcuno (ma sempre solo e soltanto nei settori, colf, badante, agricoltura). Questo ha fatto sì che molti ragazzi si sono sentiti dire ‘no grazie’, perchè appunto privi dei requisiti”, prosegue l’avvocato che fa alcuni esempi per spiegare meglio i cavilli burocratici: “Se sei un richiedente asilo con un permesso di soggiorno di 6 mesi, non puoi fare domanda. Se sei un irregolare ma hai un contratto a tempo indeterminato, non puoi fare domanda. La Questura di Roma, peraltro, ha reso le cose ancora più complicate: ha reso obbligatoria la rinuncia per i migranti alla domanda di asilo. In concreto, se vuoi aderire alla domanda e al contempo fare ricorso in tribunale per la richiesta di asilo, devi portare la rinuncia al giudizio in tribunale”.
E se la domanda di sanatoria va male? Qui le cose si complicano, perchè “se la richiesta di sanatoria ha esito negativo, si farà un decreto di espulsione immediato per il migrante”.
I cavilli burocratici limitano di molto la platea dei candidati, come la prova di presenza che viene richiesta al migrante, insieme alla presentazione di documenti di identità che non tutti riescono ad avere.
L’immigrato irregolare, che effettivamente svolge un lavoro in nero, rimane comunque sempre il soggetto debole e senza armi giuridiche per poter emergere.
Tutto dipende sempre dal datore di lavoro, che può autodenunciarsi come non farlo. Un potere enorme. E ci si chiede come mai per l’applicazione di questa norma non sia stata prevista una task force simile a quella organizzate per altre tematiche, con un esercito di ispettori di lavoro addetti a monitorare i vari casi.
Lo scudo penale per datore di lavoro e migrante: due pesi due misure
Come detto, la norma si muove su due binari. “C’è un binario per l’irregolare e uno per il datore di lavoro.
Nel primo caso, il migrante non ha nessun documento e partecipa alla sanatoria. Qui o c’è un datore di lavoro che vuole far emergere un contratto in nero, o c’è il migrante che può stipulare un contratto ex novo.
Questo è anche il canale più caro, in cui il datore di lavoro dovrebbe pagare 500 euro, più i contributi pregressi per il lavoratore in nero e quelli per il rapporto nuovo in essere. In questo caso lo straniero ha diritto a un primo permesso di soggiorno della durata del nuovo contratto di lavoro.
Quando il permesso scade, se lo straniero ha mantenuto il lavoro, può richiedere la sanatoria reale. Ma se quella persona perde il lavoro, perde anche la possibilità della sanatoria.
Questa casistica è molto elevata, trattandosi si contratti per lavoratori stagionali”, spiega Franchitto, “e i costi fanno desistere il datore di lavoro dal presentare la domanda. O peggio, si potrebbero creare situazioni per cui sono stesso i migranti a pagare di tasca propria i contributi al datore di lavoro”.
Il secondo binario riguarda lo scudo penale. “In questa norma c’è lo scudo penale totale per l’italiano o comunque per il caporale che sana la situazione lavorativa. Scudo che non si applica allo straniero che si autodenuncia e che è limitato all’accoglimento della domanda. Paradossalmente, se c’è un contenzioso per lo sfruttamento dei braccianti, per esempio, il caporale può godere dello scudo penale, invece l’altro si ritrova nei guai. L’unica pratica che sembra non presentare problemi è quella di colf e badanti, ma allora il concetto di sanatoria viene meno”.
(da TPI)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
E’ LA TERZA INCHIESTA CHE COINVOLGE LA GIUNTA LEGHISTA: NEL MIRINO I CONTRATTI FIRMATI CON PRIVATI, LE PRESTAZIONI DEI MEDICI PUBBLICI E LA DURATA DELL’ACCORDO
Tre su tre. Dopo i primi due fascicoli sull’ospedale da campo di Bastia Umbria e l’acquisto di 15mila test pungidito, la Corte dei Conti dell’Umbria ha aperto un’altra inchiesta sul terzo pilastro della gestione dell’emergenza covid-19 da parte della giunta leghista di Donatella Tesei: l’accordo tra Regione e sanità privata che a metà aprile ha permesso di spostare le cure extra-covid dagli ospedali pubblici dedicati solo all’emergenza sanitaria alle cliniche private.
Nei giorni scorsi i Nas, a cui è stata delegata l’indagine, hanno acquisito atti nella sede della Regione Umbria e in quella dell’Azienda ospedaliera di Perugia.
Nel mirino della Procuratrice della Corte dei Conti, Rosa Francaviglia, è finita la delibera 277 del 16 aprile scorso e l’accordo quadro tra la giunta regionale e due associazioni (la Aiop e la Aris Umbria) che raggruppano alcune cliniche private per ripristinare l’attività chirurgica sospesa con lo scoppio della pandemia.
Questa pratica è stata messa in campo anche in altre regioni d’Italia e poggiava sul decreto legge del 17 marzo secondo cui le strutture private, su richiesta delle regioni, potevano mettono a disposizione “il personale sanitario in servizio, nonchè i locali e le attrezzature presenti nelle suddette strutture”.
L’obiettivo della giunta regionale era quello di appoggiarsi ai privati per far sì che i pazienti no-covid potessero continuare le cure.
L’assessore Luca Coletto aveva illustrato il nuovo accordo motivandolo con la necessità di mettere a disposizione i posti letto e “trasferire e trattare” i pazienti che avevano bisogno di interventi di chirurgia non procrastinabile, assistenza medica e riabilitativa non differibile.
Per gli interventi di chirurgia le Asl umbre hanno messo a disposizione i propri medici. Secondo l’intesa, la remunerazione nei casi di interventi chirurgici è stata tagliata del 20% perchè il personale appartiene alle strutture pubbliche mentre per gli altri casi la tariffa è rimasta quella piena.
Nel mirino dei giudici contabili sono finiti proprio i contratti firmati con le associazioni che gestiscono le quattro cliniche (in particolare il “prezzario” degli interventi), le prestazioni fornite dai medici delle strutture pubbliche e anche la durata dell’accordo che dovrebbe terminare con la fine dello stato di emergenza, ovvero il 31 gennaio 2021. Della questione si occuperà mercoledì la giunta regionale per capire se andare avanti lo stesso con l’accordo, nonostante l’indagine.
La Procuratrice della Corte dei Conti umbra nelle scorse settimane aveva già aperto due fascicoli sulla gestione dell’emergenza: il primo riguardava l’ospedale da campo di Bastia Umbria (Perugia) da 30 posti di terapia intensiva messo in piedi grazie ai 3 milioni donati da Banca d’Italia e che il prossimo 30 giugno potrebbe non servire più; il secondo invece è stato aperto sull’acquisto di 30mila test rapidi, metà dei quali acquistati con affidamento diretto dalla Vim spa senza prima averli testati e risultati poi meno affidabili del previsto.
Per questo, la nuova inchiesta ha fatto scoppiare la polemica politica: “Dopo l’ospedale da campo e i test sierologici, questa è la terza indagine in tre mesi della magistratura contabile sull’operato della Giunta Tesei: un traguardo invidiabile — dice a ilfattoquotidiano.it il capogruppo Pd in regione, Tommaso Bori —. Come promesso l’amministrazione leghista imita il modello lombardo, però più sui temi giudiziari che su quelli sanitari”.
Idea condivisa anche dal presidente del Comitato di controllo del M5S, Thomas De Luca: “Dopo test rapidi e ospedale da campo, l’ennesima inchiesta che riguarda la gestione del potere della Lega in Umbria e che dimostra come i nostri dubbi non siamo strumentalizzazioni politiche ma legittime pretese di trasparenza — dice —. Il pubblico resta al palo mentre la Regione fa accordi con il privato e le aziende ospedaliere non ripartono nella totale assenza di riorganizzazione”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
L’ACCORDO CENTROSINISTRA-M5S E’ ANCORA ARENATO SUL NOME DEL GIORNALISTA FERRUCCIO SANSA
Sembrerebbe essersi conclusa con l’ennesimo, sbalorditivo, nulla di fatto, l’intensa due giorni di riunioni tra esponenti M5s e Campo progressista, la piattaforma che riunisce il centrosinistra ligure.
Obiettivo dell’incontro di ieri sera a Roma, con i vertici nazionali dei partiti che sostengono l’alleanza giallorossa, non era solamente quello di blindare l’alleanza, già ampiamente consolidata, in vista delle Regionali di settembre in Liguria, ma soprattutto stimolare il parto, frutto di una gestazione infinita, del candidato chiamato a contendere al centrodestra di Giovanni Toti il governo della Regione.
Se al termine dell’incontro di ieri sera sembrava definitiva la scelta di puntare sulla figura indipendente del giornalista de il Fatto Quotidiano Ferruccio Sansa, il passaggio odierno con la segreteria regionale del Pd, che agli occhi di tutti sembrava rappresentare un atto formale, è riuscito a stupire con un esito inatteso: lo stop alla candidatura di Sansa. “Vorremmo cercare”, è il ragionamento emerso alla fine del vertice, “un nome nuovo rispetto a quelli circolati in questi mesi”. Ma, “se la nuova figura non dovesse andare a genio a tutti convergiamo su Sansa”. Ovvero l’ennesimo rinvio per vedere le reazioni degli alleati. Sulla strategia però rimangono molti dubbi, visto che al momento un “nome nuovo” da proporre non c’è e le estenuanti trattative delle ultime settimane hanno già messo a dura prova la pazienza delle altre forze in causa.
Allo stato attuale, tutti si sono detti d’accordo nel volersi presentare insieme alla sfida elettorale, e sarebbe pronto anche il programma, faticosamente stilato da una delegazione delle variegate realtà del centrosinistra e del M5s.
Fino a ieri sera inoltre, sembrava ormai fatta la convergenza su Sansa, ritenuta la figura maggiormente competitiva nella sfida contro Toti, anche a seguito del risultato di un sondaggio commissionato dallo stesso governatore nei giorni scorsi.
In attesa quindi di capire quando e “se” le diverse anime della coalizione saranno in grado di esprimere un candidato in tempi brevi, trapelano i primi punti programmatici. Lavoro e contrasto alle disuguaglianze, ambiente e mobilità , istruzione e cultura, ma soprattutto un rilancio della sanità , punto critico per ogni amministrazione regionale, che in particolare in Liguria potrebbe rappresentare il tallone d’Achille della corazzata di Giovanni Toti.
Ma ogni giorno perso sul fronte della campagna elettorale in cerca di un candidato, è la consapevolezza della coalizione, è un giorno guadagnato dalla collaudata macchina del consenso di Toti.
Intanto, diverse personalità dell’associazionismo, riunite nel comitato “Per Ferruccio Sansa Presidente”, continuano a raccogliere firme (arrivate a quota 1.600), per spingere sulla candidatura del giornalista del Fatto Quotidiano, mentre anche i partiti e le liste a sinistra del Pd hanno esplicitato il loro sostegno, diramando un comunicato nel quale spiegano le ragioni della loro preferenza: “La nostra scelta è prima di tutto in positivo, non contro altri candidati. Riteniamo che per la sua storia professionale, per le battaglie sostenute per la tutela dell’ambiente e della legalità , per la nettezza del suo percorso personale, Sansa rappresenti la candidatura più autorevole che si possa proporre”.
E, conclude l’appello, “la sua figura rappresenta la sintesi originale dell’inedita alleanza tra Campo Progressista e Movimento 5 Stelle”.
Il centrosinistra lavora con lo spettro del 2015, quando la divisione sulla candidatura dell’attuale referente regionale di Italia Viva Raffaella Paita finì per tirare la volata alle destre. Proprio per scongiurare uno scenario analogo, la scelta del centrosinistra è stata quella di presentarsi al tavolo delle trattative sulla stesura del programma con il M5s con la sigla unitaria di Campo Progressista, che oltre ai delegati del Pd presenta le diverse anime dell’area ovvero Articolo 1 e Sinistra Italiana, Verdi / Verdi Europei, Italia in Comune, Possibile, Partito socialista italiano e le realtà regionali Linea Condivisa e È Viva.
Al Campo Progressista sembra intenzionata a garantire il suo appoggio anche Demos — Democrazia solidale, la ‘creatura politica’ nata dalla comunità di Sant’Egidio, che per la prima volta prenderebbe attivamente parte alla campagna elettorale contro le politiche del centrodestra di Toti e della Lega, con una lista del presidente (nel caso quest’ultimo fosse una figura indiscutibilmente civica come Sansa) o addirittura con una propria lista.
Chi può dirsi soddisfatto dello stallo è Italia Viva, che fin dall’inizio ha deciso di remare contro l’alleanza giallorossa a livello regionale, sperando nel naufragio della coalizione per poter tornare con un ruolo più incisivo nell’alleanza con il Campo progressista, dalla quale ora preferiscono restare esterni.
Se nella giornata di ieri alcuni esponenti di Italia Viva hanno palesato insoddisfazione per non essere stati invitati a un tavolo, quello giallorosso, al quale non hanno mai esplicitato di voler partecipare, nella realtà dei fatti temporeggiano a loro volta per non precludersi alcuna possibilità , compresa quella di lanciarsi in una corsa solitaria, sulla falsa riga di quanto già fatto dall’ex-capogruppo del M5s Alice Salvatore, o addirittura, forte di visioni politiche spesso sovrapponibili, optare per la giravolta politica e cercare un accordo con Forza Italia, magari (come vociferato in queste ore) a sostegno di una figura come Elisa Serafini, ex pupilla di Toti e Bucci poi pentita e transfuga prima tra le fila di +Europa e ora approdata in Italia Viva.
Sul tavolo c’erano anche altre due candidature, quella di Ariel Dello Strologo, avvocato e presidente della comunità ebraica i Genova, voluto dai dem, e quella di Aristide Fausto Massardo, già preside della facoltà di ingegneria di Genova, gradito ai pentastellati.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
TRA I 34 CORPI RECUPERATI ANCHE QUELLI DI TRE BIMBI
Man mano che li ripescano, portano i poveri corpi gonfi e martoriati all’ospedale di Sfax. E dai sacchi neri vengono fuori uno dietro l’altro corpi di donne e bambini: ben 25 sui 34 finora recuperati.
E’ una nuova strage delle donne quella i cui contorni si stanno più chiaramente delineando a tre giorni dal naufragio di un’imbarcazione al largo dell’arcipelago delle Kerkhennah vicino Sfax a poche miglia dalla costa tunisina.
Ventidue donne, una delle quali a fine gravidanza, tutte di origine subsahariana e tre bambini di età intorno ai 3-4 anni. Solo nove i corpi di uomini tra cui quello di un tunisino di 48 anni che sarebbe stato al timone dell’imbarcazione rovesciatasi.
Secondo le prime testimonianza sul barcone naufragato lunedi erano partiti i 53. Migranti messi in mare da quell’organizzazione libico-tunisina che ormai da alcuni mesi fa arrivare via terra al confine con la Tunisia carovane di persone già detenute nei lager libici per farli partire verso l’Italia su barche di legno guidate da tunisini.
Spesso a bordo trovano posto anche giovani tunisini che pagano a metà prezzo rispetto ai subsahariani il passaggio verso l’Europa.
Da gennaio ad oggi le partenze dalla Tunisia verso l’Italia sono aumentate del 156 per cento secondo dati dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu,
E molti sarebbero i bambini che partono anche dalla Libia come testimoniato dall’Oim che ancora ieri ha rivolto un appello affinchè l’Europa trovi una soluzione che ponga fine all’intercettazione dei migranti in mare da parte delle motovedette della guardia costiera libica che ancorta ieri ha riportato in Libia 200 persone tra cui appunto diversi bambini.
(da agenzie)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
LA NAVE DI “MEDITERRANEA” E’ SALPATA DA TRAPANI
La Mare Jonio è tornata in acqua. La nave di Mediterranea Saving Humans, la piattaforma civica italiana nata per il salvataggio dei migranti che tentano la traversata dalle coste nordafricane, ha lasciato il porto di Trapani e sta navigando verso la zona Sar (Search and rescue) libica.
È la prima missione da quando l’imbarcazione ha ottenuto, nel febbraio scorso, l’ordine di dissequestro del tribunale di Palermo. Ma, soprattutto, è la prima missione a prova di Covid-19.
L’equipaggio è ridotto per garantire, per quanto possibile, il social distancing. A bordo della Mare Jonio ci sono 11 persone, di cui 7 marittimi e solo 4 volontari di Mediterranea: il capomissione Luca Casarini, la dottoressa Vanessa Guidi, il paramedico Fabrizio Gatti (che Repubblica aveva intervistato all’inizio della pandemia, dopo la sua scelta di mettersi a disposizione del servizio ambulanze a Brescia) e l’esperto in rescue operations Jason Apostolopoulos.
Tutti indossano i dispositivi di protezione individuale donati a Mediterranea dall’Ospedale evangelico di Genova: tute ermetiche, occhiali, mascherine di tipo FFp3.
“Abbiamo adottato i protocolli più stringenti – spiega l’armatore Beppe Caccia – sia quello per il trasporto marittimo emesso dal governo italiano ad aprile, sia quelli internazionali dell’International Chamber of Shipping, la principale organianizzazione marittima mondiale”.
La Mare Jonio è stata sanificata prima della partenza, ed è stata dotata di igienizzatori di bordo. “Ogni ambiente viene pulito due volte al giorno, nelle cabine da quattro posti potranno stare non più di due persone, e abbiamo organizzato dei turni nella mensa per garantire il distanziamento sociale”.
Tute e mascherine anche per i migranti
In caso di salvataggio, anche i migranti naufraghi saranno sottoposti alle regole del protocollo anti-Covid. “Gli sarà fornito un kit con tute monouso in materiale Tnt – prosegue Caccia – faranno un primo triage e gli sarà misurata la temperatura con i due termoscanner che abbiamo a bordo. Poi doccia, cambio di vestiti e obbligo di indossare la mascherina”.
Gli eventuali sospetti contagiati saranno isolati nella cabina che era del direttore di macchina, perchè è la più distante dalle altre ed ha un bagno a disposizione.
“Torniamo in mare in uno scenario mediterraneo sempre più inquietante – dice Alessandra Sciurba, presidente di Mediterranea Saving Humans – in cui i governi europei rivendicano ormai la propria connivenza con le milizie di un paese in guerra come la Libia calpestando consapevolmente diritti fondamentali e vite umane. Essere in quel mare significa ancora una volta cercare di riaffermare dal basso che la vita di ogni persona conta. I can’t breath è l’ultimo sussulto anche di ogni persona lasciata annegare per scelte politiche criminali”.
(da agenzie)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
LE MENTI MALATE VANNO IDENTIFICATE E RICOVERATE A PSICHIATRIA O IN ALTERNATIVA IN GALERA
Un profilo con un nome parziale, seguito dai classici numeretti in serie che fanno pensare a un troll.
Ma l’utente in questione è molto attiva sui social, fin dalla data della sua iscrizione al social network (il 2013). E da lì, da quel profilo, sono arrivate le minacce di morte nei confronti di Luigi Di Maio.
La donna (probabilmente di sesso femminile, visto il nome con cui si palesa, Carla), ha rivolto alcuni pensieri minatori citando il Ministro degli Esteri. La notizia di Luigi Di Maio minacciato di morte sui social ha provocato molte reazioni.
Tra i tweet condivisi da questo account, ne troviamo molti di minacce nei confronti dell’attuale maggioranza di governo. Dal «Luigi Di Maio ti vogliamo morto», al «Ti vogliamo morto insieme a tutti i napoletani». Scorrendo tra gli ultimi post condivisi da questa Carla, troviamo altri pensieri poco consoni all’ambiente social: «Vi ammazzeranno, vi ammazzeranno tutti».
Questo account è stato creato nel 2013 e condivide, spesso e volentieri e, leggendo quel che scrive sui social, non è affascinata da nessun movimento politico.
Anzi, sembrerebbe essere una delusa ex elettrice del Movimento 5 Stelle, come si evince — ma è solo un’ipotesi — dalle sue parole dopo che il M5S ha deciso di sospendere per un mese Ignazio Corrao e altri due eurodeputati pentastellati per aver espresso il proprio voto contrario sulle misure economiche della UE.
Il tutto nel giorno in cui Libero Quotidiano ha deciso di (non) sorprendere il mondo della stampa italiana con un nuovo titolo discriminatorio nei confronti dei napoletani dopo l’ondata di arresti per associazione a delinquere.
Titoli che non sono apparsi a nove colonne quando, nei giorni scorsi (e nei mesi precedenti) notizie simili sono arrivate da Lombardia e Veneto. Perchè la discriminazione territoriale è un mantra caratteristico di determinata stampa che, per far parlare di sè, non dà notizie ma deriva nel razzismo.
(da agenzie)
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Giugno 10th, 2020 Riccardo Fucile
“BISOGNEREBBE TESTARE DI PIU’ E MIGLIORARE IL SISTEMA DI TRACCIAMENTO”
Con la ricerca di un vaccino contro il Coronavirus, «l’Europa è molto più avanti degli Stati Uniti». Buone notizie, insomma, stando a quanto ha dichiarato poco fa da Walter Ricciardi, membro del comitato esecutivo dell’Oms e Consigliere del ministro Speranza.
Durante la trasmissione Agorà in onda su Rai3 ha poi aggiunto: «ci stiamo organizzando affinchè una parte sostanziale (del vaccino, ndr) venga prodotto in Italia».
Su una ripresa della pandemia a ottobre, «nessuno può esser certo al 100%” ma l’ipotesi «che il virus sparisca la riteniamo improbabile». In qualsiasi caso «dobbiamo attrezzarci con case antisismiche poi se il terremoto non arriva, meglio così».
«La prima ipotesi — ha spiegato l’esperto — è che il Covid-19 sparisca come è stato per la Sars e la Mers, ma viste la caratteristiche di contagiosità , lo riteniamo improbabile. La seconda è che ritorni insieme all’influenza. Ma in entrambi i casi ci dobbiamo aspettare che ritorni e ci dobbiamo preparare per affrontare un possibile terremoto».
Continua a essere un osservato speciale il caso della Lombardia, dove secondo Ricciardi «bisognerebbe testare di più e migliorare il sistema di tracciamento, perchè oltre l’80% dei contagi avviene in famiglia».
Un contesto meno monitorato rispetto a quanto avviene per esempio per aziende e case di riposo, ma che secondo Ricciardi ha un potenziale di rischio altissimo su possibili nuovi focolai: «La Covid ha una contagiosità elevata e se non vengono isolati subito i focolai, ti ritrovi con 2 mila casi in una settimana».
Sul fatto che il virus circolasse a Wuhan già da ottobre «sono solo ipotesi e non c’è nessuna certezza. Probabilmente meritano di essere approfondite ma secondo me non sono affidabili».
L’ipotesi cui fa riferimento è quella formulata in uno studio della Harvard Medical School di Boston che dimostrerebbe come gli ospedali cittadini fossero già pieni a ottobre. Tali ipotesi, per Ricciardi non sono affidabili «perchè non possiamo sapere se quell’affollamento fosse legato al Sars-Cov-2». La cosa certa, ha concluso, «è che la Cina ha perso i primi 20 giorni cercando di negare l’evidenza che un collega aveva denunciato. Come d’altronde da lei stessa è stato ammesso».
(da agenzie)
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