Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“BISOGNA VALUTARE SE RINUNCIARE A PARTE DEI FONDI” – LA PREMIER COSTRETTA A SMENTIRLO: “NON PRENDO IN CONSIDERAZIONE L’IPOTESI DI PERDERE LE RISORSE”
Caos nella maggioranza sulla strada da seguire per rimediare ai ritardi nella spesa delle risorse europee del Pnrr. Il capogruppo della Lega alla Camera Riccardo Molinari ha detto per la prima volta quello che nessun esponente del governo Meloni finora aveva ipotizzato pubblicamente: l’Italia potrebbe non solo spostare alcuni progetti non realizzabili entro il 2026 sotto un altro “cappello”, ma addirittura gettare la spugna ammettendo di non essere in grado di utilizzare tutti i 209 miliardi.
Dichiarazioni che hanno costretto Palazzo Chigi a una rapida smentita dell’esponente di maggioranza. Inevitabile visto che nel frattempo la premier Giorgia Meloni, a margine della visita al Vinitaly, aveva detto di “non prendere in considerazione l’ipotesi di perdere le risorse”.
Fonti di governo hanno dunque ribadito la versione ufficiale: “stiamo lavorando per rimodulare il piano” eliminando i progetti che non possono essere portati a termine entro il 2026 ma “lo spazio che si libera” sarà utilizzato “su altri progetti per i quali i finanziamenti possono essere spesi entro giugno 2026”. Al contrario l’idea di “rinunciare a parte dei fondi” non è sul tavolo.
Una confusione che dà nuova sponda alle opposizioni per attaccare il governo: “Spostare i fondi, chiedere rinvii, cambiare i progetti: sul Pnrr nel Governo Meloni e nella maggioranza è caos totale”, nota il Pd. “Basta scaricabarile, basta ritardi: il ministro Fitto venga subito in Parlamento a spiegare cosa sta succedendo”. Dal Movimento 5 Stelle Filippo Scerra aggiunge che “La maggioranza è più confusa che mai. Il duo Meloni-Fitto chiaramente in affanno, il capogruppo della Lega Molinari addirittura arriva a ipotizzare di rinunciare a una parte dei fondi per i quali abbiamo dovuto lottare in Europa. Vista la loro evidente difficoltà,si facciano aiutare: non possiamo permetterci di perdere un euro. Bisogna correre e fare tutto il possibile, non certo alzare bandiera bianca”.
“Giusto ridiscutere il piano con la Commissione europea, o si cambia la destinazione dei fondi o spenderli per spenderli a caso non ha senso. Forse sarebbe il caso di valutare di rinunciare a una parte dei fondi a debito“, ha detto Molinari parlando ad Affaritaliani.it. Una frase pesante, considerato che il Carroccio esprime il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini – tra quelli a cui fanno capo più fondi – che tre giorni fa giurava: “Il nostro obiettivo è investire fino all’ultimo euro“.
Meloni dal canto suo continua a sostenere di non essere preoccupata dai ritardi perché “stiamo lavorando molto, non mi convince molto la ricostruzione allarmista“. La leader di FdI ammette solo che “su alcune cose bisogna verificare la fattibilità“, come appunto aveva già detto il ministro agli affari europei e al Pnrr Raffaele Fitto. Ma “non prendo in considerazione l’ipotesi di perdere le risorse”, appunto. “Prendo in considerazione l’ipotesi di farle arrivare a terra in maniera efficace e tutto il lavoro che questo richiede è un lavoro che noi faremo”.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
FACT CHECKING DELLE PAROLE DELLA MINISTRA SANTANCHE’… ALTRO CHE SINISTRA, SONO STATI IL GOVERNO BERLUSCONI E I TAGLI DELLA GELMINI
È un topos della destra, un argomento dialettico e retorico, quello che la sinistra contemporanea guardi dai suoi salotti ai licei e sulla scuola si dimentichi dei ceti popolari e delle loro necessità lavorative.
Giorgia Meloni e Daniela Santanchè a Vinitaly – la presidente del Consiglio e la ministra di un Turismo vecchia maniera – vanno oltre quello che in questi primi sei mesi ha detto sul tema il pur loquace Giuseppe Valditara, che sugli istituti tecnici e “la scuola del lavoro” dovrebbe avere la regia.
“In un mondo in cui è stato detto che se avessi scelto il liceo avresti avuto un grande sbocco nella tua vita, e se invece avessi scelto un istituto tecnico avresti avuto opportunità minori…”, ha detto Meloni, che si è diplomata con 60 sessantesimi all’Istituto professionale alberghiero Amerigo Vespucci di Roma, dove ha frequentato l’indirizzo linguistico. “In Italia in questi anni è stato un po’ distrutto quello che era l’istituto tecnico”, dice Santanchè. “abbiamo avuto una sinistra che ha invogliato i giovani a fare i licei. Questo governo vuole invece mettere al centro le scuole tecniche”.
Lei, Santanchè, il liceo lo ha frequentato da ragazza per poi prendere una laurea in Scienze politiche a Torino.
La liceizzazione dell’Italia moderna, intanto, è opera della Riforma Moratti, anno 2003, legge numero 53, con Letizia Moratti ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del Governo Berlusconi II: esattamente “la destra” del nascente millennio.
Il decreto legge numero 226 portò, due anni dopo, a quota otto i licei esistenti all’interno della riconosciuta organizzazione tripartita della scuola italiana (licei, istituti tecnici e istituti professionali). Al Classico, allo Scientifico e all’Artistico se ne aggiunsero cinque: il Liceo economico
, il Musicale, il Tecnologico, il Liceo delle scienze umane e il Coreutico. Fu una riforma tipicamente gentiliana, la “Moratti”, con una netta separazione tra istruzione alta da una parte e tecnico-professionali dall’altra.
Grazie alla spinta della Lega Nord, provò – senza riuscirci, in verità – a spostare l’istruzione professionale sulle fragili spalle delle Regioni. Non a caso, la Riforma Moratti (che abolì la Legge Berlinguer di sole tre stagioni prima) fu fortemente criticata dalla stessa Confindustria, che vedeva marginalizzata l’istruzione tecnica e professionale.
I tagli di Gelmini a istituti tecnici e licei: “Con la cultura non si mangia”
Ancora più feroce sul fronte dell’apprendimento lavorativo è stata la Riforma Gelmini, avviata per le superiori nel 2010-2011 e andata a pieno regime quattro anni dopo. A fronte di un riordino dei licei, che da otto diventarono sei, la compressione della scuola italiana voluta dal ministro delle Finanze Giulio Tremonti e applicata dalla ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini (entrambi di Forza Italia) pianificò un taglio delle ore negli istituti tecnici e professionali degli insegnamenti “di indirizzo”. Per esempio, la materia “Tecnologie e disegno tecnico” ha visto ridurre di un terzo le ore di lezione e, conseguentemente, le relative cattedre, il personale docente.
E’ un dato di fatto che con queste premesse, e i tagli gelminiani votati sull’onda “con la cultura non si mangia” (ancora ministro Tremonti, che di recente ha negato quella paternità linguistica), gli istituti professionali – in particolare – sono diventati luoghi scarsamente frequentati: dal 2003 (Riforma Moratti, appunto) al 2019 le iscrizioni in questo settore si sono dimezzate passando dal 27,4 per cento del totale al 14,4 per cento. Gli istituti tecnici, invece, hanno retto nel tempo: continuano ad accogliere un terzo degli studenti del Paese.
Nel 2017, con una delega della Buona scuola (Governo Renzi, centrosinistra, seguito poi dall’esecutivo Gentiloni, centrosinistra), il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi provò a cambiare ancora il settore professionale. Prima del 2011, i settori erano cinque con ventisette indirizzi. Con la Gelmini ministra, furono accorpati in due macrosettori con sei branche. La Riforma Toccafondi riallargò gli indirizzi, da sei a undici, agganciandoli alle attività economiche di rilevanza nazionale.
Questo intervento, fatto a costo zero, non fu sufficiente per ridare un senso forte a un comparto che in altre aree del mondo – a partire dalla Germania – è da sempre al centro dell’istruzione. Da noi, nelle ultime stagioni gli istituti professionali sono sempre più spesso teatro del bullismo degli studenti nei confronti dei professori. Nell’ultima stagione si è iscritto a un istituto professionale il 12,1 per cento dei quattordicenni: un adolescente su otto. Gli istituti tecnici – al contrario di quanto sostengono Meloni e Santanchè – tengono.
L’esperienza di successo degli Itis
Poi va detto che, in questi tentativi (poco riusciti) di professionalizzazione della scuola italiana, è stato un governo di centrosinistra (ancora Renzi con Stefania Giannini ministra) a rendere obbligatoria l’Alternanza scuola lavoro nel triennio delle superiori. E nascono nella fase finale del Governo Prodi bis, gennaio 2008, gli Istituti tecnici superiori, i due anni di Itis post-Maturità (si chiama offerta formativa post-secondaria non universitaria professionalizzante) che si sono dimostrati subito un’idea di successo, mutuata dalle Fachhochschule tedesche.
Con Mario Draghi premier, infine, la scuola che porta al lavoro si è affidata alle inedite risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)
Ecco, il topos “la sinistra vuole licealizzare tutto” non regge. Anche perché il futuro Liceo del Made in Italy di ispirazione meloniana sarebbe altra acqua portata a questo fiume.
(da La Repubblica)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
I PARTITI: RISPETTO ALLE POLITICHE DI SETTEMBRE FDI SCENDE DAL 31% AL 18%, LA LEGA, TRAINATA DA FEDRIGA, RISALE DALL’11% AL 19%, PD STABILE, CROLLANO M5S E AZIONE
Quando mancano solo un centinaio di sezioni su 1.360, Fedriga conferma le privisioni e vince le elezioni regionali in Friuli con circa il 64% di consensi espressi da appena il 45% degli aventi diritto al voto.
Al secondo posto Moretuzzo, il candidato unitario Pd-M5S che si ferma al 28-29%. Terza la candidata No vax Girogia Tripoli con il 4,7%. Fuori dal consiglio regionale invece Alessandro Maran con appena il 2,7% di consensi.
Voto ai partiti, il confronto con le Regionali del 2018
La Lega ha circa il 19%, FdI 18,2%, il Pd 16,7%, la lista Fedriga 17,5%, FI 6,7%, lista Azione-Iv-Più Europa 2,7%, M5S 2,5%,
Nelle precedenti elezioni regionali del 2018 la Lega ebbe il 34,87%, FdI il 5,47%, la lista Fedriga il 6,29%, Forza Italia il 12,11%, il Pd 18,11%, lista Bolzonello (candidato centrosinistra) 4,09%, M5s 7,06%
Il confronto con le Politiche di settembre 2022
Sei mesi fa Fdi aveva il 31,3%, Lega 10.9%, Forza Italia 6,7%, Pd 18,4%, M5s 7,2%, Azione 8,7%
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
VASCHE FERROSE IN CUI VIAGGIARE COSTA “SOLO” 900 EURO, DIREZIONE LAMPEDUSA O PANTELLERIA… I RADAR NON LE VEDONO E LE NAVI DI SOCCORSO NON RIESCONO AD ABBORDARLE… DATECI I MILIARDI E NOI CI TENIAMO I MIGRANTI
«Venite in Route Gremda, quartiere Awabed». Certi indirizzi, a Sfax è sempre meglio dimenticarli. E certi maestri d’ascia che ci lavorano, è bene ignorarli. E anche dai loro coxeur , i riempibarche incaricati di staccare i biglietti per l’Italia, è il caso di stare alla larga: a una famiglia che collaborava con la Gendarmerie, mesi fa, hanno affondato il peschereccio.
Certi giorni, però, non c’è scelta. E se deve dimostrare al mondo che qualcosa si fa, per fermare il traffico dei migranti, la polizia tunisina sa come convincere i pescatori: in cambio di quell’indirizzo avrai 150 euro, la paga d’un mese, e comunque addio reti e tonnare, se non mi dici dove si fabbricano i barchini d’acciaio. Come bare Awabed è la nuova fincantieri degli scafisti tunisini. Lo sanno tutti che cosa si costruisce in quei cubi grigi di cemento grezzo, lungo la C81.
L’ultima moda, al salone delle carrette del mare, sono queste vasche ferrose per detriti umani. Sembrano bare, e spesso lo sono. Lamiere sottili e affilate, assemblate alla bell’e meglio e perfette per le traversate low cost , 900 euro fino a Lampedusa, a Pantelleria, alle coste siciliane.
I nigeriani, i maliani, gl’ivoriani ormai arrivano così: niente barconi, tutti su gusci che la notte sbucano dalle casette di Sfax, che i radar spesso non vedono e che le navi di soccorso non riescono ad abbordare, perché danneggiano i tubolari.
Scafi pronti in poche ore, che costano molto meno d’una barca di legno o di resina, possono portare 50-60 africani, sono instabili e galleggiano poco e imbarcano acqua, ma chi se ne frega anche se affondano col loro carico d’umanità, una notte di lavoro e se ne fabbrica un’altra…
Una mattina, i gendarmi convocano un po’ di stampa e si va tutti la’, nel quartierino fra la pasticceria Madame Sakka e il supermarket Sorimex, a vedere il cemento dei cubi tirato giù a mazzate e le barche d’acciaio tirate fuori dal buio, dal segreto, dall’omertà.
Acciaio, fame, siccità. È a questa trimurti nera che la Tunisia 2023 deve inginocchiarsi, implorando di sopravvivere. Gli sbarchi coi nuovi barchini di metallo, quadruplicati, sono spinti da una carenza di cibo mai vista: l’inflazione naviga sopra il 10 per cento, l’ortofrutta costa un terzo in più che un anno fa.
E la fame, con la raccolta del grano calata del 75 per cento, coi carichi importati dall’Ucraina che vengono respinti perché non ci son soldi per pagarli, sgorga da una mancanza d’acqua che in cinque anni ha ridotto anche dell’80 per cento le trenta dighe del Paese.
Le piaghe della Tunisia, abbiamo finto di non vederle per anni. Ora è già tardi. E i due miliardi di dollari, che il presidente Kais Saied spera d’incassare dal Fondo monetario internazionale, sono solo un placebo.
Le riforme chieste dal mondo, lo stop ai sussidi per benzina e cibo o le privatizzazioni, i tagli alla sanità o l’innalzamento dell’età pensionabile, sono ferite insopportabili.
Saied ha sciolto il governo, ridisegnato la Costituzione, esautorato il Parlamento, depotenziato i magistrati, incarcerato gli oppositori, scatenato la caccia ai neri «che minacciano la nostra identità».
A Tunisi l’applaudono, disperati: nessuno protesta più sull’avenue Bourguiba, la democrazia può restare in frigorifero, hai visto mai che possa funzionare anche qui (stile Erdogan) il ricatto migranti-in-cambio-di-miliardi?
A Sfax, hanno bisogni più urgenti: frigoriferi pure qui, ma per conservare i cadaveri ripescati dal mare. E occorre costruire nuovi cimiteri, per evitare di buttarli nelle fosse comuni come s’e’ fatto a Zarzis. Anche l’obitorio non ha più posto, dicono: fra dieci giorni finisce il Ramadan, e sono già pronti i nuovi barchini d’acciaio.
(da Corriere della Sera)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
“PUTIN HA SBAGLIATO TUTTI I CALCOLI. NON SI ASPETTAVA UNA GUERRA LUNGA, MA NON HA ALCUNA INTENZIONE DI ARRENDERSI. PENSO CHE SIA PIÙ PROBABILE CHE VENGA ELIMINATO RISPETTO A UNA SCONFITTA MILITARE DELLA RUSSIA”
«Putin è un morto che cammina. Potrebbe essere ucciso per porre finalmente fine alla guerra in Ucraina». A parlare è James Olson, ex capo del controspionaggio della Cia, convinto che gli “squali” siano a caccia di Putin.
Per Olson, “Mad Vlad” non si trova in una buona posizione visto che la guerra si sta prolungando senza fine e lui non ha intenzione di mettere fine al conflitto. Motivo per cui «amici, oligarchi, militari e persino la sua gente è pronta a rivoltarsi contro di lui. Ha sbagliato i calcoli. Se Putin rimane al potere, ci sarà una lunga guerra perché non si arrenderà, ma non credo che rimarrà al potere. Credo che ci sia una forte corrente sotterranea di opposizione a Putin nell’esercito, nei servizi di intelligence, tra gli oligarchi. Penso che verrà eliminato e non escludo che verrà ucciso. Forse succederà per mano di alcuni russi patriottici. Il popolo russo sta soffrendo e sta perdendo persone. Putin sta dissanguando la Russia e non può farlo per sempre. Credo che ci siano generali disgustati da quella tragica perdita di vite umane e ci possa essere un possibile rivolta contro Putin. E se la faranno, Putin è un morto che cammina. Non sopravvivrebbe. Penso che sia più probabile che Putin venga eliminato piuttosto che una sconfitta militare».
(da Dagonews)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
ARRESTATI UN AGENTE E LA SORELLA DI UN BOSS
È la sorella e non la moglie, come inizialmente aveva riportato il Corriere della Sera, di un elemento di spicco della criminalità partenopea. Carmela Mele, la 54enne arrestata dagli agenti di Nuoro insieme a Salvatore Deledda, assistente capo della polizia penitenziaria, con l’accusa di aver introdotto dei cellulari nel carcere sardo di Badu e Carros.
La donna è sorella di Giuseppe Mele, detto o’ cacaglio, capo dell’omonimo clan del quartiere Pianura del capoluogo partenopeo e secondo gli inquirenti era lei a inviare ai detenuti dell’alta sicurezza i pacchi contenenti i cellulari.
Il clan Mele, smantellato dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, è stato acerrimo nemico del clan Marfella-Pesce con il quale è stato in lotta per decenni. Gli arresti dei due però non sono direttamente collegati – diversamente da quanto riportato in precedenza – all’evasione del boss della mafia gargana, Marco Raduano, avvenuto lo scorso 25 febbraio. A precisarlo sono stati la procuratrice di Nuoro, Patrizia Castaldini, il questore Alfonso Polverino, il capo della Mobile Fabio di Lella e il capo della Polizia penitenziaria del carcere nuorese, Amerigo Fusco, in conferenza stampa dopo le indiscrezioni di questa mattina sui due arresti. Le indagini sui due fermati sono precedenti alla fuga di Raduano, riuscito a scappare dall’Istituto calandosi dalla finestra della sua cella con delle lenzuola annodate.
Risalgono infatti – spiegano gli investigatori – alla fine dell’estate in seguito a una segnalazione di alcuni agenti della polizia penitenziaria e sono legate a un passaggio di denaro per introdurre dei telefoni cellulari all’interno del carcere.
Falle nella sicurezza nel carcere di Nuoro
Sono circa una quindicina i telefoni cellulari ritrovati dalla Squadra Mobile di Nuoro. I poliziotti, insieme alla penitenziaria – spiega l’Ansa – sono riusciti a recuperare tutti gli apparecchi: uno dei telefoni è stato trovato addosso a un detenuto e altri sono stati invece rinvenuti nelle celle o in spazi comuni del penitenziario. Stando alla ricostruzione degli investigatori, i cellulari venivano pagati dai detenuti – quasi tutti ristretti nell’ala dell’alta sicurezza, ora indagati per ricettazione – e venivano introdotti all’interno del carcere di Nuoro, in appositi pacchi trasportati da un corriere, dall’assistente capo arrestato, Salvatore Deledda.
Per il singolo telefono si sborsavano dai 100 ai 250 euro, ma tra le transazioni tracciate anche una da 1.200 euro.
Cinque i pacchi che avrebbero varcato il carcere e uno, rinvenuto nel corso delle perquisizioni stamattina a Napoli durante l’arresto di Carmela Mele, era pronto per la spedizione. Gli inquirenti hanno, per ora, escluso evidenze che possano far pensare che uno di questi telefoni sia stato utilizzato da Marco Raduano per organizzare la fuga, ma gli accertamenti proseguono.
Le schede telefoniche dei cellulari erano intestate a cittadini stranieri sui quali sono in corso accertamenti patrimoniali. Le stesse verifiche sono in corso da parte degli investigatori anche sui conti intestati agli arrestati: Deledda, ora rinchiuso nel carcere di Sassari e Carmela Mele trasferita nell’ala femminile di quello di Pozzuoli. «Il carcere è stato completamente bonificato e sono stati ricostruiti i presidi di sicurezza», ha detto il capo della polizia penitenziaria, Amerigo Fusco. «Non esiste un caso Badu ‘e Carros: c’è stato un problema di gestione nel caso dell’evasione, ora superato, grazie anche all’intervento dell’amministrazione penitenziaria che si è attivata affinché possa essere ripristinato il target di sicurezza che il carcere di Badu ‘e Carros ha sempre dimostrato e continuerà a dimostrare».
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
IL GARANTE: “SONO TROPPI, VIA LE RESTRIZIONI INUTILI”
Sono 740 le persone attualmente detenute al regime di 41 bis in Italia. Distribuite in 60 sezioni all’interno di 12 Istituti in tutto il territorio. Questi i numeri che arrivano dal Rapporto del Garante delle persone private della libertà presentato poche ore fa durante la conferenza stampa. 613 ha una condanna definitiva, ma 121 sono esclusivamente in misura cautelare e 6 sono internate in misura di sicurezza in una struttura definitiva come “Casa di lavoro”.
Tra le 740 persone al 41 bis, 12 invece sono donne. Secondo il Garante le cifre registrate sono rimaste invariate nel corso dell’ultimo decennio. Dal rapporto emerge che la gran parte delle persone al 41 bis ha un’età compresa tra i 60 e i 69 anni (234) e tra i 50 e i 59 anni (158), 87 hanno superato i 70 anni.
Il carcere de L’Aquila risulta la struttura con la maggiore concentrazione di detenuti al carcere duro con 150 persone. A seguire c’è Milano Opera con 96 detenuti, Sassari-Bancali con 88, Spoleto con 81. I numeri arrivano in un periodo in cui il dibattito politico sul regime di 41 bis è particolarmente acceso a causa del caso Alfredo Cospito che tuttora tiene viva la discussione sulla reale funzione del carcere duro.
«Troppi detenuti al 41 bis»
Per quanto riguarda le pene definitive, 204 sono condannati all’ergastolo e 250 sono condannati a pena temporanea. «Un dato che evidenzia il fatto che un numero consistente di persone (nello scorso anno 28) rimane in regime speciale fino all’ultimo giorno di esecuzione della propria pena temporanea», spiega il Garante. «La situazione è particolarmente critica sotto il profilo della sensatezza, sotto quello della progressione che la finalità tendenziale della pena richiede verso il ritorno all’esterno», continua, «e sotto quello della sicurezza della collettività a cui viene riconsegnata una persona di cui scarsamente sono stati appresi elementi relativi alla capacità di reintegrazione».
A questo proposito il Garante evidenzia come il numero di persone attualmente al 41 bis risulti essere troppo elevato: da qui la richiesta di una riduzione, attraverso l’indirizzamento dei detenuti al regime di Alta sicurezza.
«Le visite hanno fatto emergere criticità sul piano del diritto alla finalità rieducativa della pena», continua il Garante che ora chiede un insieme di interventi urgenti.
«Via le misure restrittive non strettamente funzionali agli scopi del 41 bis, abolizione delle Aree riservate, riconfigurazione degli ambienti, alfabetizzazione e libri elettronici per i detenuti». Il rischio individuato è quello di un rinnovo della misura «a carico di singole persone» che finisce implicitamente col riferirsi soltanto «al reato “iniziale” per cui la persona è stata condannata» e alla «persistente esistenza sul territorio dell’organizzazione criminale all’interno del quale il reato è stato realizzato».
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
FILIPPO GRAVIANO SI E’ LAUREATO IN ECONOMIA CON 30 E LODE, GIUSEPPE HA UN GRAN RUOLINO DI MARCIA IN SCIENZE
La puntata di Report di stasera parlerà dei tanti boss di Cosa Nostra attualmente iscritti all’università. E di come siano diventati, con il 41 bis, studenti modello.
Anche se l’iscrizione agli atenei pare che sia stata utilizzata in primo luogo per chiedere trasferimenti rispetto alle carcere oggi frequentate dai mafiosi. Il pubblico ministero Sebastiano Ardita, già direttore generale del dipartimento detenuti del Dap, lo spiega ai microfoni della trasmissione di Rai 3: «I boss mantenevano delle iscrizioni in sedi universitarie molto distanti da quelle in cui si trovava il carcere. Fino a 2 mila chilometri di distanza».
Ma l’elenco dei mafiosi accademici, di cui parla oggi Il Fatto Quotidiano, è vasto e illustri. Tra questi c’è Pietro Aglieri, iscritto a Lettere con una media del 30 e lode finora. Ma anche Filippo Graviano, che ha già conseguito la laurea in Economia con 110 e lode. Mentre il fratello Giuseppe alias Madre Natura è iscritto a Scienze e ha voti eccellenti. Poi c’è Mario Capizzi, condannato per il rapimento di Giuseppe Di Matteo, laureato con 104 in Agraria. E il camorrista Ferdinando Cesarano, che ha conseguito il massimo titolo di studio in sociologia. Fa eccezione Giovanni Riina, figlio di Totò ‘U Curtu, che è immatricolato a Giurisprudenza dal 2015 ma ha fatto solo l’esame di Diritto Costituzionale. Risultato finale: 22. Ardita fa sapere che finora nessun boss è stato bocciato agli esami.
(da agenzie)
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Aprile 3rd, 2023 Riccardo Fucile
LA CORTE COSTITUZIONALE DEVE INTERVENIRE SULLA RIFORMA CARTABIA CHE BLOCCA IL PROCESSO AI QUATTRO 007 EGIZIANI ACCUSATI DELLA MORTE DI GIULIO
Inviare gli atti alla Corte costituzionale perché intervenga sul pezzo della riforma Cartabia che starebbe bloccando il processo ai quattro 007 egiziani accusati della morte di Giulio Regeni.
E’ la richiesta fatta in aula al gup dal procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi e dall’aggiunto Sergio Colaiocco questa mattina, nel corso dell’udienza preliminare che deve decidere se il processo possa svolgersi, oppure no, nonostante l’assenza degli imputati. Secondo la procura, l’art. 420 bis del codice di procedura penale in tema di “assenza” dell’accusato, che vieta di procedere in contumacia qualora non ci sia stata neppure la notifica degli atti, dovrebbe prevedere un’eccezione «nei casi in cui la formale mancata conoscenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria da parte dello Stato di appartenenza o residenza dell’accusato stesso».
In sintesi: visto che gli agenti non hanno gli atti solo perché il governo egiziano si rifiuta di notificare loro l’incriminazione, sarebbe incostituzionale lasciare che il processo non si svolga solo per questo motivo.
A questo punto il gup può fare tre cose: può accogliere la richiesta della Procura e inviare gli atti alla Consulta, può evitare la Corte costituzionale e procedere comunque come propone l’Avvocatura dello stato (ma col rischio che la scelta sia poi smentita dal giudice di merito), o, infine, bloccare tutto e scegliere il non luogo a procedere. L’udienza è stata aggiornata al 31 maggio.
Nel frattempo è saltata – per l’opposizione dell’Avvocatura dello stato – l’audizione della premier Giorgia Meloni e del ministro degli Esteri, Antonio Tajani. All’ingresso dell’udienza, che si svolge a porte chiuse, anche la segretaria del Pd, Elly Schlein: «Siamo qui per dare un segnale di vicinanza alla famiglia di Giulio Regeni e alle tante persone che in questi anni non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia. Crediamo fortemente che questo processo debba andare avanti, debba essere fatto e siamo qui con questa speranza», ha detto.
(da agenzie)
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